La Corte Costituzionale glissa sulla questione Taricco chidendo l’intervento della CGUE

La Corte Costituzionale glissa sulla questione Taricco chidendo l’intervento della CGUE

Un altro capitolo sulla questione Taricco: la Corte Costituzionale chiede l’intervento chiarificatore della Corte di Lussemburgo 

Sono trascorsi 17 mesi dalla pronuncia della CGUE resa in causa Taricco, che ha messo in discussione il regime della prescrizione dell’ordinamento italiano. Mesi in cui la giurisprudenza di merito ha fatto fatica ad interpretare una sentenza che “di chiaro” ha ben poco: c’è chi (Corte d’Appello di Milano e terza Sezione della Corte di Cassazione), ha investito della questione la Corte Costituzionale, auspicando la c.d. “attivazione dei controlimiti” di cui all’art. 11 Cost.; chi, invece, ha preferito sospendere il processo in attesa di chiarimenti e linee guida più certe da seguire; e chi, ancora, ha fatto leva sui rapporti tra diritto interno e diritto dell’UE, pronunciandosi con una sentenza di condanna, e dunque disapplicando le norme interne in materia di prescrizione.

Tutto ciò ha generato confusione, sia tra i Giudici che tra gli Avvocati; ed è a causa di questa confusione che la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario rimettere la questione nuovamente alla CGUE affinché chiarisca il significato da attribuire all’art. 325 TFUE sulla base della sentenza resa in causa Taricco.

Alcune premesse sono doverose.

Il primato del diritto dell’UE è un principio fondamentale enunciato nella sentenza Costa/Enel del 1964, e ripreso nel caso Simmenthal del 1978, laddove la Corte di Giustizia ha affermato perentoriamente che è imposto al giudice interno, di merito o di legittimità, di applicare direttamente la norma comunitaria, comunque dotata di effetto diretto – così come interpretata dalla stessa Corte di Giustizia – disapplicando la norma interna contrastante, senza investire della questione la Corte Costituzionale.

Il giudice delle leggi, nonostante l’iniziale resistenza, con la sentenza Granital, n. 170 del 1984, si è adeguato a tale principio, riconoscendo l’inammissibilità di un’eventuale questione di legittimità costituzionale che abbia ad oggetto il contrasto tra una disposizione di legge interna ed una disposizione comunitaria dotata di effetto diretto, precisando lo specifico obbligo del giudice di cercare la strada per un’interpretazione conforme della disciplina interna alle norme eurounitarie, e solo allorquando tale interpretazione non sia possibile, il giudicante ha il dovere di disapplicare la disciplina senza chiamare in causa il Giudice delle leggi. Tuttavia, dalla sentenza Granital emerge che la Corte Costituzionale si riserva la possibilità di azionare i cosiddetti “CONTROLIMITI”, ossia si riserva la possibilità di dichiarare la stessa norma comunitaria contraria ad un nucleo ristretto di principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e di diritti inviolabili della persona umana, pur senza precisare a quali diritti o principi si riferisse. Tutto questo è possibile perché il legislatore ordinario, nell’aderire liberamente ai trattati – e quindi nell’accettare limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. – non può disporre di questo nucleo di diritti di cui la stessa Corte Costituzionale si afferma custode. Al fine di attivare il potere della teoria dei controlimiti, il giudice che ritenga la norma o l’obbligo comunitario contrastante con le norme costituzionali che fondano il nucleo di diritti fondamentali (controlimiti) deve sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione dei trattati nella parte in cui ratifica quella norma comunitaria confliggente con quel nucleo inscalfibile.

Il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico interno viene, altresì, riconosciuto a norma dell’art. 4, paragrafo 3 TUE, così come modificato dal Trattato di Lisbona, che definisce i rapporti tra Unione e Stati membri improntandoli alla leale cooperazione, implicando, dunque, reciproco rispetto ed assistenza.

Gli Stati membri sono UNITI nella loro diversità: tale unione non può mai essere lo strumento col quale cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro.

A tal proposito, il giudice delle leggi, nell’ordinanza di rimessione oggetto di commento, ribadisce che: “Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri. (…) Ne consegue, in linea di principio, che il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale.

Naturalmente, la Corte di giustizia non è sollevata dal compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, né può essere ulteriormente gravata dall’onere di valutare nel dettaglio se esso sia compatibile con l’identità costituzionale di ciascun Stato membro. È perciò ragionevole attendersi che, nei casi in cui tale valutazione sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale. Compete poi a ciascuno di questi ordinamenti stabilire a chi spetti tale verifica. La Costituzione della Repubblica italiana, a tale proposito, la rimette in via esclusiva a questa Corte, e bene hanno perciò fatto i rimettenti a investirla del problema, sollevando una questione di legittimità costituzionale.[1]

La regola tratta dall’interpretazione delle norme dell’UE, e precisamente dell’art. 325 TFUE, nel noto caso Taricco, è apparsa, ai giudici interni, in palese frizione con il regime legale della prescrizione dei reati.

Infatti con questa decisione la Corte di Giustizia, riportandosi alle conclusioni formulate dall’Avvocato generale Kokott, ha affermato che: “Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.[2]

Il problema sorge perché nell’ordinamento giuridico nazionale, il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità di cui all’art. 25, co. 2 Cost. in quanto incide sulla punibilità della persona. Infatti, in più occasioni, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla qualificazione della prescrizione, quale disciplina avente natura sostanziale e non processuale, regolata, dunque, non dal principio del tempus regit actum, ma dal principio di legalità, correlato dai principi di riserva di legge tendenzialmente assoluta, di determinatezza e di irretroattività delle norme sfavorevoli. In particolare la Consulta ha stabilito che tutte le questioni di legittimità costituzionale, miranti ad un allungamento dei termini di prescrizione, sono inammissibili proprio perché il loro eventuale accoglimento potrebbe comportare un aggravamento della responsabilità penale dell’imputato e, dunque, un’ingerenza della Corte Costituzionale in un dominio esclusivamente riservato al legislatore in forza dell’art. 25 comma 2 Cost. (Cfr. Corte Costituzionale 30 luglio 2008, n. 324).

D’altro canto, però, non può tacersi sul dato secondo cui, nonostante vi siano Stati membri, come la Spagna, che aderiscono ad una visione sostanziale dell’istituto in esame, altri, invece, muovono da una concezione processuale della prescrizione, effettivamente più compatibile con la visione eurounitaria resa in causa Taricco. Ma ciò non fa altro che sottolineare la diversità di cui prima; ossia la peculiarità di ogni ordinamento/Parte dell’UE, che non può essere cancellata per ragioni di unità.

In particolare si sottolinea l’assenza di una diretta attribuzione dell’UE della competenza in materia di prescrizione, dunque, proprio sull’aspetto sostanziale o processuale del regime della stessa non c’è alcun esigenza di uniformità anzi, occorre sottolineare che, in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 25, co. 2 Cost., cui soggiace la relativa disciplina, non è compatibile una norma sovranazionale che impone la disapplicazione, con effetto retroattivo, degli artt. 160, ult. Co., e 161, co. 2 c.p.

È sulla scorta di tali dubbi che la Corte d’Appello di Milano e la Terza Sezione della Corte di Cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco.

I giudici rimettenti procedono per frodi fiscali punite dal d.lgs. n. 74 del 2000 e attinenti alla riscossione dell’IVA, che reputano gravi e che sarebbero prescritte ove si dovessero applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., mentre nel caso contrario i giudizi si potrebbero concludere con una pronuncia di condanna. I rimettenti aggiungono che l’impunità conseguente all’applicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ricorre in un numero considerevole di casi.

La Corte d’appello di Milano prende in esame anche un’ipotesi normativa che ritiene lesiva del principio di assimilazione, perché il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, previsto dall’art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), assimilabile all’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA, lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, non è soggetto al limite dell’aumento di un quarto stabilito nei casi di interruzione della prescrizione.

In entrambi i giudizi sussisterebbero perciò le condizioni enucleate dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in presenza delle quali il giudice, escludendo la prescrizione, dovrebbe decidere nel merito.

I rimettenti tuttavia dubitano che questa soluzione sia compatibile con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e con il rispetto dei diritti inalienabili della persona, espressi dagli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale.

Questo principio comporta che le scelte relative al regime della punibilità siano assunte esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate e applicabili solo a fatti commessi quando esse erano già in vigore. Secondo i giudici rimettenti, invece, la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., che concerne anche le condotte anteriori alla data di pubblicazione della sentenza resa in causa Taricco, determina un aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva. Mancherebbe, inoltre, una normativa adeguatamente determinata, perché non è chiarito, né quando le frodi devono ritenersi gravi, né quando ricorre un numero così considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen, cosicché la relativa determinazione viene rimessa al giudice.[3]

La Corte Costituzionale è chiamata a valutare se la regola tratta nel caso Taricco sia compatibile col principio di legalità, e soprattutto se soddisfi il requisito della determinatezza che, per la Costituzione, deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale, le quali devono essere formulate in termini chiari, precisi e stringenti, di modo tale da consentire ai consociati di prendere coscienza delle conseguenze delle proprie condotte sul piano penale, nonché di evitare l’arbitrio applicativo del giudice.

Dunque, in primo luogo occorre verificare se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c. p. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco; ed in secondo luogo è necessario capire se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria, non essendovi modo di definire in via interpretativa, con la necessaria determinatezza, il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia.

Ebbene, il Giudice delle leggi, investito della questione, ha ritenuto prodromico alla sua decisione un ulteriore intervento della CGUE, atto a chiarire il significato da attribuire all’art. 325 TFUE sulla base della sentenza Taricco.

La necessità di una nuova pronuncia della Corte di Lussemburgo emerge dalle stesse parole della sentenza Taricco, laddove, al paragrafo 53 afferma che “se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati”; il paragrafo 55 seguente aggiunge, poi, che la disapplicazione va disposta “con riserva di verifica da parte del giudice nazionale” in ordine al rispetto dei diritti degli imputati.

Secondo la Corte Costituzionale tali affermazioni potrebbero essere il viatico per dare un’altra chiave di lettura, facendo, quindi, emergere il dato secondo cui l’art. 325 del TFUE è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, di conseguenza spetterebbe alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione. Solo così potrebbe affermarsi la compatibilità con i principi supremi dell’ordine costituzionale, non permanendo, dunque, nessuna ragione di contrasto che determini l’accoglimento delle questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Milano e dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione.

Una simile interpretazione, per vero, permette di preservare l’identità costituzionale dell’ordinamento interno e, allo stesso tempo, non compromette le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione, sintetizzandosi in una soluzione conforme ai principi di leale cooperazione e proporzionalità.

Fondamentale è un passaggio dell’ordinanza n. 24/2017: “L’impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata dalla Corte non deriva da una interpretazione alternativa del diritto dell’Unione, ma esclusivamente dalla circostanza, in sé estranea all’ambito materiale di applicazione di quest’ultimo, che l’ordinamento italiano attribuisce alla normativa sulla prescrizione il carattere di norma del diritto penale sostanziale e la assoggetta al principio di legalità espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost. È questa una qualificazione esterna rispetto al significato proprio dell’art. 325 del TFUE, che non dipende dal diritto europeo ma esclusivamente da quello nazionale.(…) tale qualificazione, nel caso di specie, costituisce un livello di protezione più elevato di quello concesso agli imputati dall’art. 49 della Carta di Nizza e dall’art. 7 della CEDU. Esso, perciò, deve ritenersi salvaguardato dallo stesso diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 53 della Carta, letto anche alla luce della relativa spiegazione.

La Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, perché non è limitato alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include ogni profilo sostanziale concernente la punibilità. Appare a ciò conseguente che l’Unione rispetti questo livello di protezione dei diritti della persona, sia in ossequio all’art. 53 della Carta di Nizza, il quale afferma che «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti […] dalle costituzioni degli Stati membri», sia perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani (art. 2 del TUE).

Al contrario, la Corte di giustizia ha riconosciuto che le modalità con le quali ciascuno Stato membro tutela i diritti fondamentali della persona, anche quando questo comporta una restrizione alle libertà attribuite dai Trattati, non devono necessariamente essere le stesse. Ogni Stato membro protegge tali diritti in conformità al proprio ordinamento costituzionale[4].”

Orbene, l’UE, in virtù dei principi di attribuzione e di proporzionalità, è tenuta a rispettare il maggior livello di protezione accordato dalle norme costituzionali agli imputati, non essendo, in tale specifico caso, sacrificato il primato del suo diritto.

D’altro canto, come sottolinea la Corte Costituzionale, non vi è dubbio sulla permanenza della responsabilità della Repubblica italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione.

L’ordinanza n. 24 del 2017 rappresenta, quindi, un altro capitolo della questione Taricco, destinato anch’esso a suscitare perplessità tra gli interpreti che, oramai, da tempo auspicano ad un intervento che definisca in modo puntale la questione sollevata con la Sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco; intervento che viene nuovamente differito creando enormi difficoltà: agli imputati che sono nell’incertezza della loro posizione definibile con una sentenza di condanna che potrebbe non essere in linea con i principi costituzionali; ai giudici che hanno due possibilità: o decidere in modo conforme al diritto eurounitario in virtù del principio di primauté del diritto UE su quello interno, o sospendere i loro processi in attesa di linee guida concrete; e agli avvocati che, accettando di difendere un cliente da un’accusa prossima alla prescrizione, hanno pianificato una strategia difensiva non più in linea con le necessità sorte dopo la pronuncia Taricco.

In virtù della sua rilevanza, segue l’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’UE.

 


 

ORDINANZA N. 24

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), promossi dalla Corte d’appello di Milano con ordinanza del 18 settembre 2015 e dalla Corte di cassazione con ordinanza dell’8 luglio 2016, rispettivamente iscritte al n. 339 del registro ordinanze 2015 e al n. 212 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti gli atti di costituzione di M.A.S. e M.B., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 novembre 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi gli avvocati Gaetano Insolera e Andrea Soliani per M.A.S., Nicola Mazzacuva per M.B. e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, e la Corte d’appello di Milano hanno investito questa Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco.

Con questa decisione la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 del TFUE impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.

Per effetto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., gli atti interruttivi della prescrizione, per i reati fiscali puniti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e aventi a oggetto l’IVA, comportano, di regola e salvo casi particolari, l’aumento di un quarto del tempo necessario a prescrivere. Ove questo aumento si riveli in un numero considerevole di casi insufficiente per reprimere le frodi gravi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, che dipendono dalla mancata riscossione dell’IVA sul territorio nazionale, il giudice penale dovrebbe procedere nel giudizio, omettendo di applicare la prescrizione, e nello stesso modo il giudice dovrebbe comportarsi se la legge nazionale prevede per corrispondenti figure di reato in danno dello Stato termini di prescrizione più lunghi di quelli stabiliti per le frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione.

I giudici rimettenti procedono per frodi fiscali punite dal d.lgs. n. 74 del 2000 e attinenti alla riscossione dell’IVA, che reputano gravi e che sarebbero prescritte ove si dovessero applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., mentre nel caso contrario i giudizi si potrebbero concludere con una pronuncia di condanna. I rimettenti aggiungono che l’impunità conseguente all’applicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ricorre in un numero considerevole di casi.

La Corte d’appello di Milano prende in esame anche un’ipotesi normativa che ritiene lesiva del principio di assimilazione, perché il delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, previsto dall’art. 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), assimilabile all’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA, lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, non è soggetto al limite dell’aumento di un quarto stabilito nei casi di interruzione della prescrizione.

In entrambi i giudizi sussisterebbero perciò le condizioni enucleate dall’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, in presenza delle quali il giudice, escludendo la prescrizione, dovrebbe decidere nel merito.

I rimettenti tuttavia dubitano che questa soluzione sia compatibile con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e con il rispetto dei diritti inalienabili della persona, espressi dagli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale.

Questo principio comporta che le scelte relative al regime della punibilità siano assunte esclusivamente dal legislatore mediante norme sufficientemente determinate e applicabili solo a fatti commessi quando esse erano già in vigore. Secondo i giudici rimettenti, invece, la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., che concerne anche le condotte anteriori alla data di pubblicazione della sentenza resa in causa Taricco, determina un aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva. Mancherebbe, inoltre, una normativa adeguatamente determinata, perché non è chiarito, né quando le frodi devono ritenersi gravi, né quando ricorre un numero così considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen, cosicché la relativa determinazione viene rimessa al giudice.

I giudizi vertono su analoghe questioni e meritano di essere riuniti per una decisione congiunta.

2.– Il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 11 Cost.; questa stessa giurisprudenza ha altresì costantemente affermato che l’osservanza dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto dell’Unione possa essere applicato in Italia. Qualora si verificasse il caso, sommamente improbabile, che in specifiche ipotesi normative tale osservanza venga meno, sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge nazionale che ha autorizzato la ratifica e resi esecutivi i Trattati, per la sola parte in cui essa consente che quell’ipotesi normativa si realizzi (sentenze n. 232 del 1989, n. 170 del 1984 e n. 183 del 1973).

Non vi è inoltre dubbio che il principio di legalità in materia penale esprima un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva. Tale principio è formulato dall’art. 25, secondo comma, Cost., per il quale «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».

Se l’applicazione dell’art. 325 del TFUE comportasse l’ingresso nell’ordinamento giuridico di una regola contraria al principio di legalità in materia penale, come ipotizzano i rimettenti, questa Corte avrebbe il dovere di impedirlo.

3.– Occorre perciò preliminarmente stabilire se l’art. 325 del TFUE vada effettivamente applicato nel senso indicato dai rimettenti, oppure se sia suscettibile di interpretazioni anche in parte differenti, tali da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale formulato dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione italiana, oltre che con analoghi principi contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

In presenza di un persistente dubbio interpretativo sul diritto dell’Unione, che è necessario risolvere per decidere la questione di legittimità costituzionale, appare pertanto opportuno sollecitare un nuovo chiarimento da parte della Corte di giustizia sul significato da attribuire all’art. 325 del TFUE sulla base della sentenza resa in causa Taricco.

4.– La regola tratta dall’art. 325 del TFUE con la sentenza resa in causa Taricco interferisce con il regime legale della prescrizione dei reati, che il giudice sarebbe tenuto a non applicare nei casi indicati in quella decisione.

Nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost., come questa Corte ha ripetutamente riconosciuto (da ultimo sentenza n. 143 del 2014). È perciò necessario che esso sia analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto.

Si tratta infatti di un istituto che incide sulla punibilità della persona e la legge, di conseguenza, lo disciplina in ragione di una valutazione che viene compiuta con riferimento al grado di allarme sociale indotto da un certo reato e all’idea che, trascorso del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino le esigenze di punizione e maturi un diritto all’oblio in capo all’autore di esso (sentenza n. 23 del 2013).

È noto che alcuni Stati membri invece muovono da una concezione processuale della prescrizione, alla quale la sentenza resa in causa Taricco è più vicina, anche sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma ve ne sono altri, tra cui la Spagna (STC 63/2005, del 14 marzo), che accolgono una concezione sostanziale della prescrizione non differente da quella italiana.

Pare utile osservare che su questo aspetto, che non riguarda direttamente né le competenze dell’Unione, né norme dell’Unione, non sussiste alcuna esigenza di uniformità nell’ambito giuridico europeo. Ciascuno Stato membro è perciò libero di attribuire alla prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o processuale, in conformità alla sua tradizione costituzionale.

Questa conclusione non è stata posta in dubbio dalla sentenza resa in causa Taricco, che si è limitata a escludere l’applicazione dell’art. 49 della Carta di Nizza alla prescrizione, ma non ha affermato che lo Stato membro deve rinunciare ad applicare le proprie disposizioni e tradizioni costituzionali, che, rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza e all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, risultano per l’imputato di maggior favore. Né ciò sarebbe consentito nell’ordinamento italiano quando esse esprimono un principio supremo dell’ordine costituzionale, come accade per il principio di legalità in campo penale in relazione all’intero ambito materiale a cui esso si rivolge.

5.– Sulla base della giusta premessa che il principio di legalità penale riguarda anche il regime legale della prescrizione, questa Corte è chiamata dai giudici rimettenti a valutare, tra l’altro, se la regola tratta dalla sentenza resa in causa Taricco soddisfi il requisito della determinatezza, che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale. Queste ultime devono quindi essere formulate in termini chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice.

Si tratta di un principio che, come è stato riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia, appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto (sentenza 12 dicembre 1996 in cause C-74/95 e C-129/95, punto 25).

La verifica deve quindi svolgersi su due piani.

Anzitutto, si tratta di stabilire se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco.

È questo un principio irrinunciabile del diritto penale costituzionale. Occorre infatti che la disposizione scritta con cui si decide quali fatti punire, con quale pena, e, nel caso qui a giudizio, entro quale limite temporale, permetta «una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 5 del 2004).

Non spetta certamente a questa Corte attribuire all’art. 325 del TFUE un significato differente da quello che gli conferisce la Corte di giustizia; è invece suo dovere prendere atto di quel significato e decidere se esso fosse percepibile dalla persona che ha realizzato la condotta avente rilievo penale.

Analoga preoccupazione è peraltro condivisa dalla Corte di Strasburgo in base all’art. 7 della CEDU e alla necessità, costantemente affermata, che reato e pena siano conoscibili dall’autore di un fatto fin da quando esso è commesso. E può essere utile osservare che, pur non negando che lo Stato aderente possa riconoscere alla prescrizione carattere processuale (sentenza 22 giugno 2000, Coëme e altri contro Belgio), ugualmente la Corte EDU si riserva di sanzionarlo quando, in materia penale, non vi sia una base legale certa e prevedibile a sorreggere l’estensione del potere punitivo pubblico oltre il limite temporale previsto al tempo del fatto (sentenza 20 settembre 2011, Oao Neftyanaya Kompaniya Yukos contro Russia).

La compatibilità della regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco con la CEDU, pertanto, andrebbe valutata sulla base della premessa che in Italia la prescrizione ha natura sostanziale. Per tale ragione, è poi necessario chiedersi, alla luce dell’art. 7 della CEDU, se tale regola fosse prevedibile, e avesse perciò base legale (tra le molte, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 93).

In tale prospettiva questa Corte è convinta che la persona non potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’art. 325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione.

In secondo luogo, è necessario interrogarsi, sia sul rispetto della riserva di legge, sia sul grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale. In particolare il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate. In caso contrario, il contenuto di queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale.

In tale prospettiva si tratta di verificare se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria e anche su questo terreno occorre osservare che non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia.

Questa Corte non dubita che esso si riferisca alla sistematica impunità che il regime legale dell’interruzione della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali, tuttavia il concetto rimane per sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso l’esercizio della funzione interpretativa.

Nell’ordinamento italiano, come anche nell’ordinamento europeo, l’attività giurisdizionale è soggetta al governo della legge penale; mentre quest’ultima, viceversa, non può limitarsi ad assegnare obiettivi di scopo al giudice. Non si può allora escludere che la legge nazionale possa e debba essere disapplicata se ciò è prescritto in casi specifici dalla normativa europea. Non è invece possibile che il diritto dell’Unione fissi un obiettivo di risultato al giudice penale e che, in difetto di una normativa che predefinisca analiticamente casi e condizioni, quest’ultimo sia tenuto a raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell’ordinamento.

6.– Dopo aver messo a fuoco gli specifici profili di incompatibilità esistenti tra la regola che la sentenza resa in causa Taricco ha tratto dall’art. 325 del TFUE e i principi e i diritti sanciti dalla Costituzione, è necessario chiedersi se la Corte di giustizia abbia ritenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano.

Questa Corte pensa il contrario, ma reputa in ogni caso conveniente porre il dubbio all’attenzione della Corte di giustizia.

In base all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, i rapporti tra Unione e Stati membri sono definiti in forza del principio di leale cooperazione, che implica reciproco rispetto e assistenza. Ciò comporta che le parti siano unite nella diversità. Non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. E non vi sarebbe neppure se la difesa della diversità eccedesse quel nucleo giungendo ad ostacolare la costruzione del futuro di pace, fondato su valori comuni, di cui parla il preambolo della Carta di Nizza.

Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali. Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri.

Queste considerazioni sono sempre state alla base dell’azione, sia di questa Corte, quando ha rinvenuto nell’art. 11 Cost. la chiave di volta dell’ordinamento europeo, sia della Corte di giustizia, quando, precorrendo l’art. 6, paragrafo 3, del TUE, ha incorporato nel diritto dell’Unione le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

Ne consegue, in linea di principio, che il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale.

Naturalmente, la Corte di giustizia non è sollevata dal compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, né può essere ulteriormente gravata dall’onere di valutare nel dettaglio se esso sia compatibile con l’identità costituzionale di ciascun Stato membro. È perciò ragionevole attendersi che, nei casi in cui tale valutazione sia di non immediata evidenza, il giudice europeo provveda a stabilire il significato della normativa dell’Unione, rimettendo alle autorità nazionali la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale. Compete poi a ciascuno di questi ordinamenti stabilire a chi spetti tale verifica. La Costituzione della Repubblica italiana, a tale proposito, la rimette in via esclusiva a questa Corte, e bene hanno perciò fatto i rimettenti a investirla del problema, sollevando una questione di legittimità costituzionale

7.– Quanto appena esposto in termini generali trova conferma nel caso sottoposto a giudizio. La sentenza resa in causa Taricco ha stabilito che l’art. 325 del TFUE ha efficacia diretta e comporta l’obbligo di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione dei reati che, nei casi e alle condizioni individuate, compromette l’effettività della sanzione. La decisione ha altresì escluso, ma solo con riferimento al divieto di retroattività della sanzione penale, che la regola così enunciata sia in contrasto con l’art. 49 della Carta di Nizza e con l’art. 7 della CEDU.

La sentenza europea prescinde dalla compatibilità della regola con i principi supremi dell’ordine costituzionale italiano, ma pare aver demandato espressamente questo compito agli organi nazionali competenti. Infatti, il paragrafo 53 della sentenza afferma che, «se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati». Il paragrafo 55 seguente aggiunge che la disapplicazione va disposta «con riserva di verifica da parte del giudice nazionale» in ordine al rispetto dei diritti degli imputati.

Il convincimento di questa Corte, del quale si chiede conferma alla Corte di giustizia, è che con tali asserzioni si sia inteso affermare che la regola tratta dall’art. 325 del TFUE è applicabile solo se è compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, e che spetta alle competenti autorità di quello Stato farsi carico di una siffatta valutazione.

Nell’ordinamento italiano ciò può avvenire attraverso l’iniziativa del giudice che, chiamato ad applicare la regola, chiede a questa Corte di saggiarne la compatibilità con i principi supremi dell’ordine costituzionale. È poi dovere di questa Corte accertare, se del caso, l’incompatibilità, e conseguentemente escludere che la regola possa avere applicazione in Italia.

Se questa interpretazione dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco fosse corretta, cesserebbe ogni ragione di contrasto e la questione di legittimità costituzionale non sarebbe accolta.

Resterebbe in ogni caso ferma la responsabilità della Repubblica italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione.

Ciò posto, occorrerebbe verificare nelle sedi competenti se il problema sia stato risolto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera l), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha aumentato di un terzo i termini di prescrizione dei reati puniti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, con una disposizione che però non è applicabile a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge.

Se l’esito della verifica fosse negativo sarebbe urgente un intervento del legislatore per assicurare l’efficacia dei giudizi sulle frodi in questione, eventualmente anche evitando che l’esito sia compromesso da termini prescrizionali inadeguati.

8.– Questa Corte tiene a sottolineare che l’interpretazione appena delineata, se da un lato serve a preservare l’identità costituzionale della Repubblica italiana, dall’altro non compromette le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione e si propone pertanto come soluzione conforme al principio di leale cooperazione e di proporzionalità.

Infatti essa non pone in discussione il significato che la Corte di giustizia ha rinvenuto nell’art. 325 del TFUE.

L’impedimento del giudice nazionale ad applicare direttamente la regola enunciata dalla Corte non deriva da una interpretazione alternativa del diritto dell’Unione, ma esclusivamente dalla circostanza, in sé estranea all’ambito materiale di applicazione di quest’ultimo, che l’ordinamento italiano attribuisce alla normativa sulla prescrizione il carattere di norma del diritto penale sostanziale e la assoggetta al principio di legalità espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost. È questa una qualificazione esterna rispetto al significato proprio dell’art. 325 del TFUE, che non dipende dal diritto europeo ma esclusivamente da quello nazionale.

Va aggiunto che tale qualificazione, nel caso di specie, costituisce un livello di protezione più elevato di quello concesso agli imputati dall’art. 49 della Carta di Nizza e dall’art. 7 della CEDU. Esso, perciò, deve ritenersi salvaguardato dallo stesso diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 53 della Carta, letto anche alla luce della relativa spiegazione.

La Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee, perché non è limitato alla descrizione del fatto di reato e alla pena, ma include ogni profilo sostanziale concernente la punibilità. Appare a ciò conseguente che l’Unione rispetti questo livello di protezione dei diritti della persona, sia in ossequio all’art. 53 della Carta di Nizza, il quale afferma che «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti […] dalle costituzioni degli Stati membri», sia perché, altrimenti, il processo di integrazione europea avrebbe l’effetto di degradare le conquiste nazionali in tema di libertà fondamentali e si allontanerebbe dal suo percorso di unificazione nel segno del rispetto dei diritti umani (art. 2 del TUE).

Al contrario, la Corte di giustizia ha riconosciuto che le modalità con le quali ciascuno Stato membro tutela i diritti fondamentali della persona, anche quando questo comporta una restrizione alle libertà attribuite dai Trattati, non devono necessariamente essere le stesse. Ogni Stato membro protegge tali diritti in conformità al proprio ordinamento costituzionale (sentenza 14 ottobre 2004, in causa C-36/02, Omega Spielhallen und Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn).

Il caso qui esaminato si distingue nettamente da quello deciso dalla Grande Sezione della Corte di giustizia con la sentenza 26 febbraio 2013 in causa C-399/11, Melloni, con la quale si è escluso che, in forza delle previsioni della Costituzione di uno Stato membro, potessero aggiungersi ulteriori condizioni all’esecuzione di un mandato di arresto europeo, rispetto a quelle pattuite con il «consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia».

In quel caso una soluzione opposta avrebbe inciso direttamente sulla portata della Decisione quadro 26 febbraio 2009, n. 2009/299/GAI (Decisione quadro del Consiglio che modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo), e avrebbe perciò comportato la rottura dell’unità del diritto dell’Unione in una materia basata sulla reciproca fiducia in un assetto normativo uniforme. Viceversa, il primato del diritto dell’Unione non è posto in discussione nel caso oggi a giudizio, perché, come si è già osservato, non è in questione la regola enunciata dalla sentenza in causa Taricco, e desunta dall’art. 325 del TFUE, ma solo l’esistenza di un impedimento di ordine costituzionale alla sua applicazione diretta da parte del giudice.

Questo impedimento non dipende dalla contrapposizione di una norma nazionale alle regole dell’Unione ma solo dalla circostanza, esterna all’ordinamento europeo, che la prescrizione in Italia appartiene al diritto penale sostanziale, e soggiace perciò al principio di legalità in materia penale.

Appare perciò proporzionato che l’Unione rispetti il più elevato livello di protezione accordato dalla Costituzione italiana agli imputati, visto che con ciò non viene sacrificato il primato del suo diritto.

9.– Inoltre questa Corte osserva che la sentenza resa in causa Taricco ha escluso l’incompatibilità della regola lì affermata rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza con riguardo al solo divieto di retroattività, mentre non ha esaminato l’altro profilo proprio del principio di legalità, ovvero la necessità che la norma relativa al regime di punibilità sia sufficientemente determinata. È questa un’esigenza comune alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, presente anche nel sistema di tutela della CEDU, e come tale incarna un principio generale del diritto dell’Unione (si veda la già citata sentenza 12 dicembre 1996, in cause C-74/95 e C-129/95).

Anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate. In questo principio si coglie un tratto costitutivo degli ordinamenti costituzionali degli Stati membri di civil law. Essi non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire.

Il largo consenso diffuso tra gli Stati membri su tale principio cardine della divisione dei poteri induce a ritenere che l’art. 49 della Carta di Nizza abbia identica portata, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 4, della medesima Carta.

Tuttavia, l’art. 325 del TFUE, pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo. In questo modo però si potrebbe permettere al potere giudiziario di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato.

Questa conclusione eccede il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale, e non pare conforme al principio di legalità enunciato dall’art. 49 della Carta di Nizza.

Se si ritiene che l’art. 325 del TFUE ha un simile significato resta allora da verificarne la coerenza con l’art. 49 della Carta di Nizza, che ha lo stesso valore dei Trattati (art. 6, paragrafo 1, del TUE), sotto il profilo della carente determinatezza della norma europea, quando interferisce con i diritti degli imputati in un processo penale.

10.– In conclusione, se la Corte di giustizia dovesse concordare con questa Corte sul significato dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco, sarebbero superate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti.

11.– In base all’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia del 25 settembre 2012 si richiede che il presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato.

Si è allo stato generato un grave stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione, incertezza che riguarda processi penali pendenti e che è urgente rimuovere quanto prima. Non può inoltre sfuggire la prioritaria importanza delle questioni di diritto che sono state sollevate e l’utilità che i relativi dubbi vengano eliminati il prima possibile.

Visti gli artt. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, recante «Ratifica ed esecuzione dei seguenti Accordi internazionali firmati a Bruxelles il 17 aprile 1957: a) Protocollo sui privilegi e sulle immunità della Comunità economica europea; b) Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità economica europea; c) Protocollo sui privilegi e sulle immunità della Comunità europea dell’energia atomica; d) Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia della Comunità europea dell’energia atomica (stralcio: protocolli Euratom)».

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato:

se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;

se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;

se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro;

2) chiede che le questioni pregiudiziali siano decise con procedimento accelerato;

3) sospende il presente giudizio sino alla definizione delle suddette questioni pregiudiziali;

4) ordina l’immediata trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 2016.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2017.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA


[1] Punto 6 dell’ordinanza 24/2017

[2] Sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco

[3] Punto 1 dell’ordinanza 24/2017

[4] Sentenza 14 ottobre 2004, in causa C-36/02, Omega Spielhallen und Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn.


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