La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per inerzia delle autorità in relazione al reato di violenza domestica

La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per inerzia delle autorità in relazione al reato di violenza domestica

Con la sentenza Talpis c. Italia n. 41237/14 del 2 marzo 2017 la Corte EDU, Sezione Prima, ha condannato per la prima volta l’Italia per l’eccessiva lentezza della giustizia italiana in relazione al reato di violenza domestica.

La Corte in particolare ha denunciato violazione degli articoli 2 (Diritto alla vita), 3 (Divieto di trattamenti disumani e degradanti) e 14 (Divieto di discriminazione) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in quanto le autorità italiane, omettendo di agire tempestivamente dinanzi alla denuncia della ricorrente, vittima di violenza domestica, e di condurre diligentemente il relativo procedimento penale, avendo favorito la reiterazione delle condotte violente, fino al tentativo di omicidio della donna e all’omicidio del figlio della stessa.

La ricorrente è una cittadina moldava trasferitasi in Italia nel 2011 con il marito e i due figli. La stessa era stata dal settembre 2012 più volte vittima di episodi di violenza perpetrati dal marito, alcolista, e talvolta le violenze si erano spinte anche nei confronti della figlia minore della coppia. Sporgeva, pertanto, denuncia chiedendo all’autorità procedente misure urgenti per proteggere la sua persona e i suoi figli. Veniva inoltre ospitata presso un’associazione di protezione delle donne vittime di violenza domestica. La polizia giudiziaria, alla quale la sig.ra Talpis si era rivolta per sporgere denuncia, trasmetteva la notizia di reato alla Procura a distanza di un mese, tuttavia, il pubblico ministero delegava alla polizia giudiziaria il compimento, con urgenza, di determinati atti di indagine. Nel frattempo, trascorsi alcuni mesi la donna si era vista costretta a lasciare il centro anti-violenza presso il quale era stata accolta per indisponibilità di fondi, facendo dunque ritorno alla casa coniugale, mentre veniva archiviato il procedimento penale per i reati di maltrattamento e minacce. Successivamente, la sig.ra Talpis richiedeva nuovamente l’intervento delle forze dell’ordine a causa di una disputa con il marito. Giunte sul luogo, le forze di polizia trovavano la porta della camera da letto distrutta e il suolo disseminato di bottiglie. La ricorrente affermava di aver chiesto aiuto perché riteneva che il marito, in stato d’ebbrezza, avesse bisogno di cure. Riferiva altresì di aver in passato sporto denuncia contro il marito, ma di aver successivamente modificato le proprie dichiarazioni. Il marito della sig.ra Talpis veniva quindi condotto in ospedale. Nel corso della notte, egli abbandonava l’ospedale e si recava in una sala da gioco. Uscendo dalla sala da gioco, veniva fermato nuovamente dalla polizia per essere identificato. Rilasciato, faceva ritorno a casa, dove, armato di un coltello da cucina, aggrediva la moglie. Il figlio della sig.ra Talpis, nel tentativo di difendere la madre, veniva accoltellato e perdeva la vita. La donna cercava di fuggire, ma veniva raggiunta in strada dal marito, che la colpiva più volte al petto con il coltello. Nel gennaio 2015 il marito della sig.ra Talpis veniva condannato per l’omicidio del figlio e il tentato omicidio della moglie, nonché per maltrattamenti familiari. Nel frattempo, tuttavia, la donna si rivolgeva alla Corte EDU, lamentando il fallimento delle autorità nazionali nell’adempiere all’obbligo dello Stato di fornire protezione contro la violenza domestica.

Con la decisione in epigrafe la Corte ha delineato innanzitutto gli obblighi positivi dello Stato con riferimento agli articoli 2 e 3 della Convenzione. Infatti, l’art. 2 impone non solo di predisporre un sistema giudiziario efficace volto alla determinazione della cause di morte di un individuo e di punire i colpevoli, ma altresì di adottare in via preventiva misure di ordine pratico per proteggere l’individuo la cui vita sia minacciata dall’altrui condotta criminosa.

L’art. 3 invece implica l’obbligo di proteggere l’integrità fisica dell’individuo, attraverso l’applicazione effettiva della legge e lo svolgimento dei procedimenti penali.

Ne discende, secondo la Corte, un’esigenza di tempestività e diligenza, per cui non è sufficiente che la legge nazionale preveda strumenti di tutela, dovendo gli stessi funzionare entro un termine ragionevole.

Nel caso in esame, “non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta dalla donna, le autorità italiane hanno privato la denuncia di qualsiasi effetto creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che in fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio”.

La Corte ha ritenuto che l’errore compiuto dalle autorità italiane sia stato quello di non compiere alcuna valutazione in ordine ai rischi effettivi per la vita della ricorrente e del figlio, nonostante il reiterarsi di episodi di violenza all’interno del nucleo familiare.

Inoltre, la Corte ha ritenuto che le violenze inflitte alla ricorrente (lesioni fisiche e psicologiche) siano state sufficientemente gravi da essere qualificate come un trattamento degradante ex art. 3 della Convenzione.

Infine, richiamando i propri precedenti (Opuz c. Turchia), la Corte ha sottolineato che il fallimento dello Stato nel fornire protezione alle donne contro la violenza domestica comporta la violazione del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione.

Inoltre, le conclusioni del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, nonché le statistiche Istat, mostrano la deprimente situazione in Italia del problema della violenza domestica e le discriminazioni che le donne subiscono, mostrando che si tratta di un fenomeno ancora altamente diffuso in Italia.

I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto alla ricorrente 30 mila euro per danni morali e 10 mila per le spese legali.


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Avv. Alessandra Giannone

Alessandra Giannone nata a Sciacca (Ag) nel 1985, dopo il diploma di maturità classica ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza nell’aprile del 2009 presso l’Università L.U.M.S.A. di Palermo. Nel giugno del 2011 ha conseguito la specializzazione in professioni legali presso la S.S.P.L. “G. Scaduto” di Palermo. Abilitata all’esercizio delle professione forense nel 2012, è anche mediatore civile e commerciale da Gennaio 2011.

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