La dirigenza pubblica con riferimento alla legge Madia

La dirigenza pubblica con riferimento alla legge Madia

Nella pubblica amministrazione nazionale, la dirigenza pubblica ottiene un formale riconoscimento come categoria autonoma soltanto negli anni Settanta, con la legge delega n. 249/1968 e con il D.P.R. 748/1972. Prima di tale periodo, i dirigenti pubblici, preposti alla guida degli apparati amministrativi con funzioni di vigilanza ed organizzazione del lavoro e degli uffici, non avevano uno status differente dal restante personale impiegatizio e non erano titolari di autonomi poteri di amministrazione esterna.

A partire dagli anni Settanta, i dirigenti iniziano a godere di una porzione di autonomia decisionale, diventano titolari di competenze specifiche e responsabili per il raggiungimento dei risultati di tipo imprenditorial-privatistico, ma sempre nell’ambito di un’organizzazione burocratica, attenta principalmente al rispetto del principio di legalità ed ancora fortemente condizionata, secondo uno schema gerarchico-accentrato, dal Ministro che svolge il duplice ruolo di rappresentante politico e capo dell’Amministrazione. L’autonomia ed i poteri gestionali del ceto dirigenziale vengono accresciuti dalla l. n. 142/1990, che, però, si riferisce all’organizzazione degli uffici e del personale dirigenziale nelle amministrazioni locali e non statali.

Da qui l’esigenza, nell’ottica di garantire il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e di scardinare il rapporto gerarchico tra i dirigenti e i Ministri, di ricondurre la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione a quella di diritto privato stabilita per il lavoro subordinato. La “prima privatizzazione” del pubblico impiego trova la sua origine nelle leggi delega n. 421 del 1992 e n. 29 del 1993 e nei successivi decreti legislativi. La “seconda privatizzazione” viene avviata dalla “legge Bassanini” (l. n. 59 del 1997), in attuazione della quale sono stati emanati altri tre decreti legislativi. Successivamente, il complesso dei citati decreti legislativi confluisce nel d.lgs. n. 165 del 2001, modificato dalla legge Frattini, la n. 145 del 2002.

L’aspetto caratterizzante l’ultima novella è il sostanziale abbandono di alcuni tratti salienti del modello privatistico e l’abbandono del modello del ruolo unico ed il conseguente ritorno ai singoli ruoli ministeriali, che ricostruisce in capo ai Ministri il monopolio datoriale e il potere di disporre della carriera e della vita lavorativa dei dirigenti. Siffatto rafforzamento della fiduciarietà del rapporto tra dirigenti e Ministri riguarda sia la fase iniziale del conferimento dell’incarico che quella finale dell’eventuale rimozione dello stesso. Al riguardo, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5659 del 2004, ha dichiarato che l’atto di conferimento dell’incarico deve essere considerato quale contratto di natura privata e la Corte Costituzionale, con due pronunce del 2007, ha limitato i poteri dei Ministri poiché non possono far valere in re ipsa le ipotesi di decadenza del contratto senza la garanzia di un giusto processo.

Il riordino della disciplina del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nel rispetto della giurisprudenza costituzionale, è stato effettuato con la riforma Brunetta (d. lgs. 150/2009). La riforma ha riconfermato l’abbandono del modello del ruolo unico, ha sancito una vera e propria responsabilità dei dirigenti in merito all’attribuzione dei trattamenti economici accessori in quanto ad essi compete la valutazione della performance individuale dei sottoposti e ha previsto nuove procedure per l’accesso all’incarico.

Il ripristino del modello del ruolo unico è stato ultimato con la Riforma Madia (l. 124/2015). La Riforma, nell’ottica di riorganizzare ulteriormente la disciplina, ha previsto una delega al Governo, inducendolo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia. L’art. 11 della legge ripristina il ruolo unico della dirigenza statale, regionale e degli Enti Locali, prevedendolo in capo ai dirigenti dello Stato presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, in cui confluiscono tutti dirigenti delle amministrazioni statali, degli enti pubblici non economici nazionali, delle università statali, degli enti pubblici di ricerca e delle agenzie governative ed escludendolo in capo ai soggetti con contratto in regime pubblico, riproponendo lo stesso modello in scala regionale e locale.

In secondo luogo, l’articolo in questione modifica le regole di accesso alla dirigenza attraverso un doppio canale, valido per tutti i tipi di amministrazioni pubbliche, il corso-concorso e il concorso. Il corso-concorso, svolto con cadenza annuale e per un numero fisso di posti, definito in relazione al fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo, presuppone il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale e prevede una selezione unica per i tre ruoli ed esclude la possibilità di realizzare una graduatoria di idonei. Vengono così immessi in servizio i soli vincitori con la qualifica di funzionari per i primi tre anni e con l’obbligo di formazione. Trascorsa la triennalità e sulla base della valutazione dell’amministrazione di appartenenza diventano dirigenti.

Il sistema alternativo per accedere alla dirigenza delle pubbliche amministrazioni è quello del concorso tradizionale. Anche in questo caso, è richiesto il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale. Il concorso presuppone l’unicità della selezione per i tre ruoli ed è svolto annualmente ma per un numero di posti variabile, ovvero per quelli non coperti dal corso

concorso, che rimane il principale sistema di reclutamento dei dirigenti Il vincitore del concorso verrà assunto a tempo determinato per un periodo corrispondente a tre anni, cui seguirà la successiva assunzione a tempo indeterminato previo superamento di un esame di conferma da parte di un organismo indipendente. In caso di mancato superamento dell’esame di conferma, è prevista “la risoluzione del rapporto di lavoro, con eventuale inquadramento nella qualifica di funzionario”. Autorevole dottrina ha sostenuto che sarebbe più appropriato parlare di “condizione ostativa alla successiva assunzione a tempo indeterminato” invece che di “risoluzione di un contratto a termine”, dal momento che il contratto stipulato a seguito del superamento del concorso è a tempo determinato.

Con riferimento alla formazione dei funzionari, potenziali dirigenti,assume un ruolo di rilevanza centrale la Scuola nazionale dell’amministrazione, per la quale la legge presuppone una revisione totale dell’ordinamento e del suo assetto organizzativo. Infatti, la scuola dovrebbe diventare titolare di compiti di accreditamento e monitoraggio e non essere più soltanto un soggetto giuridico preposto all’erogazione di servizi formativi. Ed, inoltre, dovrebbe occuparsi anche del reclutamento e della formazione dei dirigenti dei ruoli delle Regioni e degli Enti locali.

In terzo luogo, la Riforma è intervenuta anche sul conferimento, sulla durata, sulla revoca e sulla decadenza del contratto. Il conferimento deve avvenire, secondo la nuova disciplina, mediante una procedura comparativa con avviso pubblico ed in base a requisiti definiti dall’amministrazione, fondati sui criteri generali dettati dalle Commissioni per la dirigenza. Gli incarichi verranno conferiti ai dirigenti appartenenti ai ruoli unici, sulla base delle proprie qualità, competenze e caratteristiche e tenendo in considerazione le eventuali esperienze maturate dal potenziale nuovo dirigente. Al fine di accrescere la trasparenza della procedura di affidamento, inoltre, i curricula dei dirigenti di ruolo e le valutazioni da essi ottenute nei diversi incarichi dovranno confluire nell’apposita banca dati da istituirsi presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sulla quale, con congruo anticipo, bisognerà anche pubblicizzare i posti dirigenziali che si rendono vacanti in ogni singola amministrazione.

Con riferimento alla durata degli incarichi, l’articolo 11 prevede una durata quadriennale, rinnovabile per una sola volta di ulteriori due anni senza dover superare alcuna procedura selettiva e solo se il dirigente abbia ottenuto una valutazione positiva e abbia un’idonea motivazione. In tutti gli altri casi, una volta trascorsi i quattro anni, il dirigente potrà ancora esercitare la sua professione solo dopo aver presentato un’altra candidatura ad una nuova procedura di avviso pubblico. Tuttavia l’incarico del dirigente può essere prorogato fino a quando non sono completate le procedure per l’assegnazione del nuovo incarico.

Con riferimento alla revoca e alla decadenza, il Governo dovrà legiferare per individuare i presupposti oggettivi che danno luogo ad una revoca anticipata, nel caso in cui non vengano raggiunti gli obiettivi prefissati. La decadenza, invece, subentrerà nel caso in cui il soggetto revocato non abbia provveduto a procurarsi un nuovo mandato entro il termine perentorio di un anno.

L’ultima modifica rilevante ha per oggetto il sistema di valutazione, la disciplina della responsabilità del dirigente e la sua retribuzione. La nuova disciplina prevede, mediante l’attuazione dei decreti legislativi, la semplificazione delle regole precedentemente vigenti in materia, l’adozione di criteri omogenei che comportino la valutazione del singolo tenendo conto dei risultati dell’intera organizzazione amministrativa globalmente intesa, alla stregua delle realtà aziendali del settore privatistico. Con riguardo alla responsabilità, la norma presuppone un riordino delle disposizioni che prevedono la responsabilità dirigenziale, che si ha in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di politica amministrativa, la responsabilità disciplinare, che si ha in caso di violazione di un obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, dalla legge o dal codice di comportamento, e la responsabilità amministrativa, che si ha in caso di danno erariale all’amministrazione, in particolare, impone ai decreti di ridefinire il rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità amministrativo-contabile e di limitare i casi di responsabilità disciplinare e dirigenziale. Con riferimento alla retribuzione, la disposizione normativa rinvia al decreto di attuazione per definire i limiti assoluti del trattamento economico complessivo dei dirigenti, da stabilirsi in base a criteri omogenei ed oggettivi correlati alla tipologia dell’incarico e limiti percentuali relativi alle retribuzioni di posizione e di risultato rispetto al totale. È prevista la possibilità a ciascun dirigente di attribuire un premio monetario annuale a non più di un decimo dei dirigenti suoi subordinati e a non più di un decimo dei suoi dipendenti, sulla base di criteri definiti nel rispetto della disciplina in materia di contrattazione collettiva e nei limiti delle disponibilità dei fondi a essa destinati.

Con riguardo alla Riforma Madia e, in particolare, all’art. 11, contenente la delega al Governo in tema di riorganizzazione della dirigenza pubblica, la regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.

La Corte costituzionale si è pronunciata, con sentenza n. 251/2016, ravvisando -con riguardo all’articolo 11- un concorso di competenze, inestricabilmente connesse, statali e regionali, nessuna delle quali è prevalente. Infatti, la delega, da un lato, ha per oggetto aspetti inerenti all’organizzazione amministrativa regionale, di competenza regionale, dall’altro, invece, ha per oggetto aspetti inerenti al rapporto di lavoro privatizzato e, quindi, riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale. Pertanto, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, nella parte in cui, pur incidendo su materie di competenza sia statale sia regionale, prevedono che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è l’intesa, ma il semplice parere, non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali. Anche la sede individuata dalle norme impugnate non è idonea, dal momento che le norme impugnate toccano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali. Il luogo idoneo per l’intesa è, dunque, la Conferenza Stato-Regioni e non la Conferenza unificata.

In conclusione, l’articolo 11 della l. 124/2015, lungi dall’essere esente da vizi, non soltanto non è stato applicato per mancata attuazione dei decreti legislativi ma è stato dichiarato anche illegittimo nella parte in cui non consente una partecipazione e collaborazione adeguata delle Regioni.


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Giuliana Favara

Abilitata all'esercizio della professione forense, ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e il diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto lo stage di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, nella sezione GIP/GUP e nella Prima Sezione Civile del Tribunale di Reggio Calabria, ai sensi dell'art. 73 del d.l. 69/2013, e ha collaborato con uno studio legale operante nel settore penale.

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