La dissenting opinion nel sistema di giustizia costituzionale italiana – Profili sostanziali (8/8)

La dissenting opinion nel sistema di giustizia costituzionale italiana – Profili sostanziali (8/8)

La dissenting opinion nel sistema organizzativo della Corte costituzionale

Il tema d’indagine in argomento è rappresentato dai riflessi che l’eventuale introduzione dell’istituto della dissenting opinion determinerebbe sull’organizzazione e sul funzionamento della Corte costituzionale, nonché sugli effetti che il dissent produrrebbe sui componenti del medesimo collegio.

A tale proposito, non sembra superfluo rilevare che, al di là dell’altissimo compito cui assolve la Consulta ogni qual volta esercita le proprie funzioni giurisdizionali, i membri che la compongono sono – e devono – esser gravati di un non comune senso di responsabilità e di coscienza nell’espletamento del loro prestigioso ufficio (1), entrambi elementi coessenziali in quanto complementari alla spiccata competenza giuridica che eleva il giurista agli onori del Tribunale supremo dello Stato.

Ebbene, i riflessi che la dissenting opinion, qualora venisse formalmente introdotta, riverberebbe sulla Corte costituzionale appaiono essere molteplici, ed parimenti numerosi risultano i contributi della dottrina in materia, peraltro non sempre del tutto pacifici e convergenti.

Uno degli argomenti che sovente si invoca in senso critico circa l’opportunità dell’immissione dell’istituto in parola nel nostro sistema di giustizia costituzionale, è quello per cui la dissenting opinion cagionerebbe un indebolimento del prestigio e dell’autorità della Corte e della sua pronuncia, per cui, agli occhi della collettività, la Consulta apparirebbe come divisa per effetto di due o più opinioni confliggenti e contrapposte (2),

L’argomento che più si invoca a sostegno di questa tesi è che, così operando, ciascun giudice (forte della possibilità di esprimere senza censure o emendamenti le sue proposizioni attraverso la formulazione di un dissenso scritto) si arroccherebbe strenuamente nelle sue posizioni, così da vanificare “lo sforzo comune del collegio verso la ricerca, sempre laboriosa e spesso sofferta, di una soluzione che sia la più vicina possibile a quella voluta dalla maggioranza, e insieme la meno lontana da quella, e non infrequentemente da quelle, della minoranza” (3).

Se però si considera che la Corte si pronuncia – deve pronunciarsi – con una decisione emessa a maggioranza dei suoi componenti (art. 16 l. 87/1953), allora ben si intuisce che quanto più tale maggioranza sarà stentata, tanto più la Corte medesima si rivelerà poco coesa, se non palesemente divisa, e dunque non è da escludere che la sua pronuncia possa apparire di labile efficacia (4).

Orbene, un inconveniente di tal fatta, di certo non indifferente quanto a rilevanza nel sistema giuridico e sociale, non passò inosservato al magistero di Costantino Mortati, il quale contrappone come replica la considerazione che “la coscienza collettiva rimane meglio soddisfatta, … piuttosto che da una claudicante e solo apparente unanimità di consensi e da una motivazione di conseguenza reticente e sommaria, da una chiara, precisa indicazione dell’articolarsi delle varie argomentazioni attraverso cui si è sviluppato il procedimento logico che ha portato ad una determinata soluzione e, quindi, da una espressa formulazione delle medesime divergenze che accompagnano la soluzione accolta” (5).

Sulla linea di pensiero del giudice Mortati parecchi altri giuristi espressero valutazioni non dissimili, ed ulteriormente individuarono ulteriori elementi positivi favorevoli all’introduzione del dissent.

Alcuni autori, come Gustavo Zagrebelsky, suggeriscono di valutare il fenomeno in un ottica temporalmente ampia, giacché se è vero che “realisticamente l’opinione dissenziente indebolisce nell’immediato l’impatto di una decisione, in quanto si presenta contrastata e discutibile, in effetti è ritenibile che essa, nel lungo periodo, rafforzi la Costituzione, radicandone e diffondendone il valore”, così da attribuire ai singoli giudici costituzionali un quid pluris, “<<un plusvalore>> rispetto al giudice anonimo, privo di identità esterna al collegio” (6).

Non pochi inoltre sono quegli studiosi che mettono in luce come la maggiore autorevolezza della sentenza derivi proprio dalla conclamata libertà di coscienza del giudice costituzionale, espressione della sua dignità e della sua forza morale (7).

Il che, ad avviso di chi scrive, contribuirebbe ad attenuare le critiche che sovente la pubblica opinione manifesta verso l’ovattato ambiente delle alte sfere istituzionali (spesso sinonimo di potere e di privilegi), così da far apparire i componenti del nostro Tribunale costituzionale un po’ meno distaccati o “coperti” dalle guarentigie di quella turris eburnea di cui talvolta sembra concretizzazione il palazzo della Consulta.

Da quanto detto si ricava dunque che, così operando, il giudice costituzionale trae maggior beneficio in termini di responsabilizzazione, per il fatto quindi di non potersi più trincerare (sempre che effettivamente lo volesse) nella zona grigia dell’anonimato, se per ventura la propria tesi non venisse condivisa dalla pars maior ed egli volesse comunque inserirla in sentenza (8).

Un’ulteriore questione che merita di essere accennata riguarda la ragione per cui taluni giudici costituzionali (Sandulli, Ambrosini, Chiarelli e, soprattutto, Andrioli, il quale fu parte di una dotta querelle con il giudice Mortati) (9), nei primi anni di funzionamento della Corte, si dimostrarono pressoché ostili alla recezione dell’istituto de quo, e dunque sostanzialmente refrattari all’accoglimento della cennata proposta di Mortati (10).

La ragione, in ispecie, risiede nel fatto che la Corte costituzionale era, all’epoca, un’istituzione di nuova formazione, e perciò ancora potenzialmente vulnerabile di fronte alle composite ed eterogenee frange della politica e della società civile, ragion per cui “la conoscenza del dissenso e delle sue ragioni potrebbe accentuare i contrasti, attenuare l’autorità delle sentenze e il prestigio della Corte, indurre a qualificare i giudici con criteri di ordine politico, indebolire la fiducia nella loro obiettività” (11).

Queste obiezioni, già oggetto di replica a suo tempo dallo stesso giudice Mortati, sono oggigiorno ampiamente superabili (e potremo dire superate) in considerazione della pluridecennale attività della Consulta, la cui “autorità <<morale>>, a distanza ormai di più di quarant’anni dall’inizio della (sua) attività, non è da temere che possa soffrirne in conseguenza della divulgazione dei dissensi interni alla Corte stessa” (12).

Un altro degli argomenti che normalmente si richiama nel dibattito inerente l’introduzione della dissenting, è rappresentato dal temibile rischio di un incremento del carico di lavoro che cagionerebbe la presenza di opinioni dissenzienti, giusta l’appesantimento dell’iter deliberandi e del corpo della decisione medesima, da cui il consequenziale rallentamento dell’attività del Tribunale costituzionale (13). Sul tema, la dottrina non si è mostrata particolarmente divisa, poiché il problema in questione è in effetti molto realistico – diremo quasi fisiologico -, soprattutto nei tempi correnti dove il ricorso alla Consulta sembra rappresentare, volendo semplicemente scorrere il calendario dei lavori della Corte, una tappa quasi obbligata nel non breve iter dei processi ordinari.

Se dunque v’è chi suggerisce di accantonare temporaneamente l’introduzione della dissenting per la “circostanza pratica dell’elevato carico di lavoro arretrato che preme sulla Corte (che) esige l’accorciamento dei tempi di risoluzione di ciascun giudizio che essa abbia da definire” (14), non mancano coloro che, contra, rilevano come dell’istituto in questione se ne sia fatto, negli ordinamenti stranieri che lo hanno recepito, un uso particolarmente ponderato e parsimonioso (15), tuttalpiù suggerendo, come correttivo alla congestione dei lavori della Corte, una selezione delle questioni per le quali si possa formalizzare il voto dissenziente, così da circoscriverlo ai cases più importanti (da un punto di visto sia giuridico che sociale) (16).

Quando, poc’anzi, ci si è soffermati sull’impatto della dissenting in rapporto al prestigio della Corte e all’indipendenza dei suoi componenti, si è fatto brevemente cenno al principio della libertà di coscienza del giudice costituzionale, e dunque alla possibilità che egli abbia di manifestare, grazie al dissent, esattamente ciò che pensa, dimodoché i terzi abbiano conoscenza autentica di tale pensiero.

Tuttavia, da più parti non è stato sottaciuto il pericolo che, così procedendo, questi possa essere oggetto di condizionamenti esterni da parte delle forze politiche o di riferimento (17), il tutto per effetto del venir meno della garanzia dell’anonimato. Siddetta ingerenza non si limiterebbe, poi, alla mera “pressione” che quella determinata lobby eserciterebbe nei confronti del “suo” giudice, ma finirebbe “ presumibilmente per appropriarsi in maniera strumentale delle soluzioni interpretative contenute nelle varie opinioni dissenzienti, inducendo arbitrariamente a confondere e a fraintendere quella che è la particolare politicità delle funzioni del giudice costituzionale” (18).

Da qui si ricava la necessità che il giudice costituzionale, nell’esercizio delle proprie funzioni, metta da parte le eventuali proprie “passioni partigiane” (19) al fine di espletare i propri compiti con assoluta equidistanza ed obiettività di giudizio; se così non fosse, allora si avrebbe inevitabilmente che la nostra Corte, “per quanto composta da personalità di grande rilievo, ma espressione di dominanti influenze esterne, sarebbe un organo perfettamente inutile, una copertura giurisdizionale di scelte politiche assunte in modo irrevocabile in altre sedi” (20).

Ai paventati rischi di politicizzazione della Consulta (21), che potrebbero essere intensificati dalla eventuale introduzione del dissent, si accompagnerebbe il fenomeno, non meno rilevante, di un eventuale eccesso di protagonismo da parte dei giusdicenti, consequenziale ad una eccessiva “personalizzazione della decisione”. Quest’ultimo fenomeno sarebbe ascrivibile, tra l’altro, alla prassi, pressoché usitata, di affidare il compito di relazionare la questione sottoposta al vaglio di costituzionalità a quel giudice particolarmente competente in materia, per cui si ritiene che la presenza di opinioni separate contribuisca ad ulteriormente corredare la decisione ufficiale dell’imprinting del suo relatore, soprattutto qualora questi cumuli in sé anche il ruolo di estensore della medesima.

E’ stato pertanto osservato come la tecnica del dissent possa tradursi in un incentivo al protagonismo dei giudici costituzionali, ancor più pericoloso qualora dovesse sfociare in eccessi polemici o in tenzoni giuridiche tra i componenti del collegio (22), così da travisare le finalità che l’istituto de quo si propone di perseguire, e dunque tale da incidere in maniera decettiva sulla c.d. “etica del discorso” (23),

Altro aspetto connesso all’eventuale eccesso di protagonismo del giudice costituzionale, cui la dissenting darebbe maggior fomento, è quello riconducibile alla diffusa quanto discussa pratica delle esternazioni dei componenti della Corte.

Più esplicitamente, mentre l’eventuale eccesso di protagonismo sin qui descritto si manifesta pur sempre in un atto riconducibile alla Corte, (e dunque – alternativamente – nella deliberazione ufficiale, che risentirebbe dell’impronta eccessiva del suo estensore, o nella motivazione dissenziente, che si presenterebbe piuttosto corposa e non priva di vis polemica), con la tecnica delle esternazioni, invece, il giudice sembrerebbe andare ben oltre, potendo così far egualmente conoscere alla pubblica collettività il proprio pensiero attraverso canali diversi da quelli istituzionali testé citati (quali, ad esempio, dichiarazioni alla stampa, interviste ai mass media, pubblicazione di saggi o di articoli in riviste giuridiche, o ancora attraverso relazioni ed interventi in convegni e simposi vari).

Ora, quale che sia la funzione di tali esternazioni (vale a dire quella di acclarare una propria tesi o posizione o quella – di certo meno nobile – allusiva o di parte) (24), ciò su cui bisogna porre il discrimen è la distinzione fra le esternazioni del Presidente e quelle dei singoli componenti della corte. Mentre in capo a questi ultimi, da più parti se ne sconsiglia la pratica, sottolineando di contro la necessità di garantire il massimo riserbo (25) sulle proprie personali posizioni non formalizzate nel dissent, una diversa posizione è invece assunta dal Presidente.

Difatti, da non pochi anni si è consolidata la prassi secondo cui il presidente della Corte costituzionale – al quale si riconosce comunque un potere di “rappresentazione della Corte”, che gli consente di rilasciare occasionalmente dichiarazioni soprattutto “per difenderla da attacchi ritenuti ingiustificati” (26) – convochi in prossimità d’inizio anno una conferenza stampa in cui espone e commenta l’attività della Corte avvenuta nell’anno ultimo scorso (27). Sebbene in tali occasioni il Presidente non parli come singolo ma come “voce della Corte” (28) nel suo insieme, non si è mancato di sottolineare come, in tal modo, il Presidenta goda di un vero e proprio “monopolio interpretativo delle decisioni” (29) o, similmente, ne faccia trasparire la propria individualità, “che si manifesta se non altro nella scelta delle sentenze da menzionare e nel complessivo taglio espositivo” (30).

Ad ogni modo, una soluzione agevolmente praticabile, in assenza del dissent che invece eviterebbe in radice il problema (31), potrebbe essere quella di “concordare preventivamente con gli altri giudici le esternazioni più significative” (32), ad esempio individuando le sentenze da commentare e predisponendo una linea espositiva che tenga conto delle valutazioni di tutti i membri della Corte.

Proseguendo con la disamina delle conseguenze che deriverebbero dall’eventuale introduzione della dissenting nel processo costituzionale, la nostra attenzione viene a focalizzarsi adesso su di un fenomeno pressoché inevitabile: l’evoluzione del diritto giurisprudenziale.

E’ stato difatti rilevato, alla luce dell’esperienza straniera ed in ispecie di quella nordamericana, come il dissent favorisca il dinamismo del fenomeno giuridico, nella sua ulteriore capacità di “stimolo alla evoluzione della giurisprudenza e al progressivo adattamento dell’ordinamento, specie costituzionale, al continuo mutare della realtà sociale” (33).

Come ha dimostrato la storia giuridica statunitense, infatti, non solo quel che è il dissent di oggi può ben diventare l’opinion of the Court di domani (34), ma altresì l’attuale dissenso giudiziale mantiene funzioni proprie, che possono consistere tanto nella possibilità di consolidare quella opinione particolare attraverso l’adesione ad essa da parte degli altri colleghi (nel caso in cui dovesse ripresentarsi all’attenzione della Corte un’analoga questione di legittimità costituzionale), quanto nella recezione della stessa motivazione dissenziente da parte dei giudici ordinari, che possono trarre da essa quelle ulteriori indicazioni utili per una riflessione più approfondita dei propri cases (35).

Le argomentazioni a favore di tale fenomeno non sono affatto carenti (36), e riposano essenzialmente nella considerazione che il diritto non è, per sua natura, un fenomeno statico, bensì dinamico; è dunque diritto vivente, e come tale è sensibile alle istanze, ai cambiamenti della società, dei tempi e dei costumi (37).

Si è pertanto convenuto, con Mortati, che “l’adozione dell’istituto del dissenso vale ad attenuare il pericolo di cristallizzazioni della giurisprudenza costituzionale, del suo ancorarsi ai propri precedenti in modo così rigido da distaccarla dalla valutazione dei concreti interessi sociali che nella costituzione vivente ricercano la loro fondamentale salvaguardia, ed alla lunga, da privarla del vero fondamento della sua autorità, qual è quello che proviene da una stretta adesione al sentimento popolare” (38).

Altro aspetto che appare utile evidenziare, peraltro marginalmente collegato ai fenomeni della possibile politicizzazione dei membri della Consulta nonché a quella forma di controllo del loro operato esercitata dalla collettività (39), è dato dalle conseguenze che l’eventuale previsione del dissent potrebbe arrecare in ordine all’eventuale rielezione e/o prorogatio dell’incarico di giudice costituzionale.

A differenza dei giudici della Supreme Court degli Stati Uniti d’America, la cui nomina si informa al sistema del during good behavior, nel senso che costoro godono della garanzia costituzionale della inamovibilità dalla carica vita natural durante, con la sola condizione di non rendersene indegni (40), i nostri giudici costituzionali, di contro, hanno un mandato temporalmente limitato (di soli nove anni, contro i dodici originariamente previsti) e senza dilazione alcuna alla naturale scadenza (41).

Orbene, è stato sostenuto che il regime prescritto dall’art. 135, 3° e 4° comma, Cost., non esprimerebbe alcun elemento ostativo all’introduzione della dissenting opinion nel processo costituzionale. Osserva a tale proposito Sergio Bartole che “sia il divieto di rielezione dei giudici costituzionali che l’esclusione di una loro prorogatio (art. 6 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2) costituiscono un incentivo all’introduzione della regola della pubblicità delle opinioni dissenzienti. Da un lato, l’impossibilità di una rielezione esclude che le opinioni rese pubbliche possano favorire un rinnovo del mandato o che, addirittura, il giudice, speculando sulla pubblicità delle sue opinioni, si precostituisca gli elementi per la rielezione. E, dall’altra parte, l’esclusione della prorogatio non consente agli organi nominati di astenersi dalla sostituzione di un giudice ad essi gradito in ragione delle sue notorie opinioni e di lasciarlo, quindi, in carica o a tempo indefinito o in vista di questioni particolarmente scottanti” (42).

In merito a quest’ultima considerazione, poi, si sofferma ampiamente Saulle Panizza, il quale sembra non sottovalutare il rischio che le forze politiche possano/vogliano procrastinare (43) ben oltre il limite del dovuto le operazioni di voto “al fine di perpetuare una specifica composizione della Corte”, anche perché il termine di un mese dalla verificazione della vacatio, entro cui bisogna sostituire il giudice uscente (o meglio, già uscito, ex art. 5 l. cost. n. 2 /1967), è “tradizionalmente ritenuto di natura ordinatoria, stante anche la circostanza che il sistema non configura specifiche sanzioni avverso la sua inosservanza”. (44) Per questa serie di motivi, l’Autore mette così in risalto “il pericolo di una strumentalizzazione della non scelta (dei nuovi giudici), che il venir meno della segretezza della camera di consiglio potrebbe forse accentuare” (45).

Gli stessi autori testé citati, peraltro, si soffermano ampiamente nel rilevare un altro fenomeno che si delineerebbe qualora si addivenisse alla recezione del dissent nella nostra giustizia costituzionale, ossia gli eventuali riflessi sul voto presidenziale.

Del ruolo esoprocessuale del presidente si è già avuto modo di trattare, allorché si è rilevato come la titolarità, in capo ad esso, di un potere di rappresentazione della Corte si traduca nella facoltà di effettuare pubbliche esternazioni o, se questo termine pare inopportuno, pubbliche dichiarazioni.

Ma al Presidente della Consulta è ascritta anche un’importante funzione endoprocessuale (46), vale a dire quella della prevalenza del suo voto, qualora si dovesse raggiungere la parità in camera di consiglio, rispetto al voto degli altri componenti il collegio giudicante (art. 16, terzo comma, l. n. 87/1953).

Questa ed altre prerogative hanno stimolato l’interesse della dottrina sulla sua figura e sulla sua posizione giuridica, la quale, come osserva Luigi D’Andrea, “si è attestata su una linea mediana, escludendo sia la sussistenza di un rapporto gerarchico tra Presidente e giudici, sia la piena equiparazione tra tutti i membri dell’organo, e configurando una posizione di primazia del Presidente (espressa dalla tradizionale – e non priva peraltro di qualche ambiguità – formula del primus inter pares), che lascia notevoli margini per interpretazioni diverse del ruolo presidenziale, in relazione alla concreta personalità del titolare e al contingente atteggiarsi delle dinamiche endocollegiali” (47).

Proprio in considerazione della prerogativa che il citato art. 16 riserva al Presidente, si è affermato che una eventuale introduzione dell’opinione dissenziente nel nostro ordinamento costituzionale renderebbe necessaria una sua revisione, giusta l’inconciliabilità di siffatto privilegio a fronte di un sistema in cui “tutte le opinioni sono poste sullo stesso piano sino al punto da essere rese pubbliche anche se minoritarie” (48).

Epperò, osserva acutamente Saulle Panizza che, in verità, “l’alterazione della parità tra i componenti non è imputabile alla prevalenza del voto presidenziale. Essa discende, semmai, dall’esistenza di una sfasatura temporale nel voto dei vari giudici, abbinata alla circostanza per cui l’ultimo membro del collegio ad esprimersi è a conoscenza dei voti espressi dagli altri componenti, e quindi … va semmai fatta risalire all’art. 18, secondo comma, N.I., e non al citato art. 16 l. n. 87/1953” (49).

Ad ogni buon conto, quale che sia la ragione – o meglio, la fonte – che giustifica la prevalenza del voto presidenziale nel collegio in sede deliberante, non sembra che, una volta che si sia prevista la pubblicità delle opinioni dissenzienti, siffatta regola della primazia del voto del presidente abbia una specifica utilità o rilevanza, e dunque una sua ragion d’essere.

Ulteriore aspetto su cui i medesimi autori focalizzano le proprie riflessioni è quello inerente al sistema delle cosiddette immunità personali, riconnesse al particolare status di giudice costituzionale. Per ovvie ragioni, in questa sede non ci si può soffermare ampiamente sugli aspetti propri delle guarentigie dei membri della Consulta, nonostante i non pochi contributi scientifici che stimolano riflessioni ed approfondimenti.

Quel che è stato rilevato, con esclusivo riferimento alla dissenting opinion, è che la garanzia della insindacabilità dei giudici costituzionali <<per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni>> (art. 5 l. cost. n. 1/1953), se da un lato sembra deporre favorevolmente alla previsione del dissent, in quanto il giudice è ben consapevole del fatto di poter manifestare il proprio pensiero in tutta sicurezza (e dunque senza il timore di poter essere perseguito in forza di ciò), per altro verso invece ci si è chiesti se, in verità, siffatta garanzia “non sia legata da un rapporto di mutua dipendenza al principio della segretezza delle deliberazioni” (50).

Orbene, non essendo sul punto la dottrina del tutto concorde, si è ritenuto oppurtuno richiamare tale principio in considerazione del suo intimo collegamento con un altro aspetto del processo costituzionale, quello della sottoscrizione della decisione finale.

Il nesso in questione appare degno di rilevanza poiché, con la novella apportata all’art. 18 N.I. dalla stessa Corte costituzionale in data 7 luglio 1987 (51), secondo cui le decisioni non sono più sottoscritte da tutti i giudici (che hanno partecipato a tutte le udienze) senza menzione del relatore, bensì soltanto da quest’ultimo e dal Presidente (52), appare chiaro come l’introduzione del dissent metta in assoluta esposizione colui al quale viene formalmente attribuita la paternità del contenuto della decisione, a differenza del pregresso regime laddove tale aspetto era coperto dal più rigido anonimato (53).

Non mancano tuttavia coloro che sottolineano la delicatezza della procedura e dei criteri che portano alla scelta del relatore, dalle quali dunque discende il forte senso di responsabilità cui dovrebbe ispirarsi la Consulta – rectius il suo Presidente – nel momento in cui addiviene a tale opzione (che peraltro dovrebbe essere ancor più intenso qualora il dissent fosse accolto nell’ordinamento) (54), nonché del giudice redattore, la cui scelta in quest’ultimo caso dovrebbe riposare (coerentemente all’introduzione del dissent) su “uno dei componenti della corte che hanno espresso voto conforme alla decisione” (55).

Come ultima analisi del fenomeno del dissenso giudiziale, in vista di una sua eventuale introduzione nell’ordinamento costituzionale, rimane ancora da soffermarci su due ulteriori aspetti: l’uno, per così dire, di natura tecnica, e l’altro di ordine pratico.

L’aspetto tecnico ora richiamato riguarda, essenzialmente, l’individuazione della fase temporale in cui il voto dissenziente può venire ad esistenza, che a sua volta implica l’indicazione di un preciso dies a quo. Orbene, la prevalente dottrina converge sulla necessità di individuare, nell’iter processuale, un segmento in cui il dissenso possa essere estrinsecato, con particolare attenzione non tanto al dies ad quem (che ovviamente è rappresentato dalla fase immediatamente antecedente alla pubblicazione della decisione), quanto invece al dies a quo, ossia al momento in cui sia possibile ed oltremodo conveniente rendere palesi le proprie divergenti valutazioni di giudizio.

Diciamo possibile e conveniente perché, mentre la possibilità di esprimere un dissenso necessita almeno che si sia formata una maggioranza in camera di consiglio dalla quale divergere, invece la convenienza è rappresentata dal vantaggio – in capo al dissenziente – della tempestività della proposizione del suo disaccordo con la tesi di maggioranza, dacché tanto prima il dissent viene reso noto ai giudici collegiali (sempre nell’ambito del predetto segmento), tanto più aumentano le possibilità del giudice dissenziente di convincere, di persuadere i colleghi della bontà delle proprie argomentazioni e dunque ad aderire alla propria tesi, così cercando di coagulare – massimizzandoli – i relativi consensi (56).

Si è poi sostenuto che i termini per la proposizione e/o per il deposito delle opinioni dissenzienti dovrebbero essere perentori, e come tali inderogabili, al fine di evitare ritardi nell’emanazione della sentenza o, ancor peggio, che la discrezionalità che informa la proposizione del dissent possa tradursi in una specie di formale ripicca del giudice in disaccordo verso i colleghi della maggioranza (così da offrire al pubblico l’immagine di una Corte scompaginata a fronte di contrasti interni), qualora questi non sia riuscito verbalmente a far sì che la propria tesi fosse condivisa dalla stessa pars maior (57),

Infine, è sembrato altresì necessario, se non altro per ragioni logiche, differenziare la decorrenza del termine iniziale per i due diversi tipi di opinione, dissenziente e concorrente. Poiché quest’ultima consiste in una critica alla motivazione della decisione assunta dalla maggioranza, la concurring va ad investire la ratio decidendi, e dunque potrà emergere soltanto “dopo che il redattore ha predisposto la bozza della motivazione”.

La dissenting in senso proprio, invece, atteggiandosi a censura avverso il mero dispositivo, lasciando così impregiudicata la motivazione (che potrebbe non ancora essersi rappresentata), si collocherà nella fase immediatamente precedente quella or ora descritta, e quindi si poggerà “sul decisum e sui passaggi principali della motivazione, allorché si forma la maggioranza” (58).

Altro argomento interessante ai fini della presente trattazione, è quello inerente la forma e il contenuto delle opinioni dissenzienti e concorrenti. A tale proposito, ci è dato modo di osservare come buona parte della dottrina propenda verso soluzioni mediane, ossia volte ad individuare tipologie di dissentings che non siano né troppo eccessive (cioè volte ed evitare che il dissent si atteggi solamente a strumento di critica perentoria alla tesi espressa dalla pars maior, o meramente a servizio del protagonismo del giudice), né, tantomeno, poco incisive.

Il che non dev’essere interpretato come forma di ritrosia, o meglio, di iniziale diffidenza verso un istituto apparentemente estraneo al nostro processo costituzionale, né tantomeno come atto di supino ossequio alla formula, talvolta comprommissoria, dell’in medio stat virtus, bensì come tentativo di rendere, per così dire, un po’ meno traumatico l’innesto di nuovi istituti giuridici nell’ordinamento, così da consentirne un fisiologico progressivo adattamento.

Ci si riferisce, in particolare, alla diffusa proposta secondo cui sarebbe opportuno indicare, nella decisione finale, solamente la percentuale dei voti separati, senza alcuna menzione dei nominativi dei giudici dissenzienti (59). Ciò in considerazione del fatto che, così operando, il giudice dissenziente non verrebbe additato alla pubblica censura, in ispecie quella politica, né quest’ultima, di contro, potrebbe strumentalizzare il contenuto della motivazione dissenziente assumendolo come proprio, e così fornendo di quello stesso giudice un’immagine politicizzata, e dunque distorta (60).

E tenuto conto che quest’ultimo fenomeno non è del tutto infrequente nei tempi correnti (laddove persino il mero silenzio o lo stesso vincolo del segreto vengono fatti oggetto di strumentalizzazione), questa proposta/soluzione dell’occultamento dei nomi potrebbe essere, ad avviso di chi scrive, come la più saggia da adottare, purché all’indicazione della percentuale o del numero dei giudici dissenzienti si accompagni l’integrale pubblicazione delle relative opinioni dissenzienti e concorrenti.

Si è poi anche suggerito di limitare la presenza di opinioni dissenzienti ad un massimo di due o tre (61), non foss’altro per evitare il “pericolo” delle plurality opinions, su cui ci si è ampiamente soffermati nella parte comparatistica, o di “condizionare la pubblicità delle opinioni dissenzienti alla concorde adesione ad esse di almeno due membri del collegio” (62), ovvero di riservare la possibilità di ricorrere all’uso del dissent nei cosiddetti hard cases, ossia per le questioni maggiormente rilevanti, o ancora di circoscriverne l’espressione ai soli punti essenziali della decisione (63).

Infine, largamente prevalente è la dottrina nel favor per l’accoglimento, nel nostro ordinamento, tanto della dissenting quanto dellla concurring opinion. Le poche voci sfavorevoli (64) all’introduzione di quest’ultima sembrerebbero essere giustificate dalla necessità di evitare una sorta di processo alle intenzioni, ossia di evitare quella “scelta pilatesca” (come la definimmo nella Parte seconda di questa dissertazione) consistente nel censurare i ragionamenti della Corte (le intenzioni, appunto) in ordine ai motivi in fatto ed in diritto su cui si fonda la pronuncia, pur mantenendo immutata la decisione finale così come consacrata nel dispositivo.

Per quanto concerne, poi, l’aspetto stilistico-formale della motivazione dissenziente, e dunque il tipo di linguaggio che in essa viene utilizzato, si conviene che questo debba essere non affatto dissimile da quello solitamente fatto proprio dalla Corte nella decisione finale. Tuttalpiù, la provenienza dell’opinione dissenziente da parte di una ristretta cerchia di giudici – ovvero anche da uno solo di essi – imporrebbe coerentemente un contenuto breve e sintetico, limitato essenzialmente ad una critica puntuale e costruttiva della decisione espressione della pars maior (65).

Nondimeno, l’auspicato appello ad una “esposizione rispettosa e pacata della propria posizione di dissenso” non sembra essere sempre stato recepito nelle esperienze giusprocessualistiche straniere, laddove, di contro, si è avuto modo di riscontrare “un sempre più frequente approdo ad argomentazioni aspre ed anche irriguardose, cariche talora di attacchi personalizzati a questo o quel giudice, e non di rado persino offensive per la giurisprudenza dell’organo e la dignità dei colleghi” (66).

Anche da ciò deriva, in conclusione, quell’ulteriore richiamo alla riservatezza che, paradossalmente ma realisticamente, deve coniugarsi con la trasparenza delle intenzioni di voto dei giudici costituzionali, e dunque, latamente, dell’attività del collegio nel suo insieme (67).

Una possibile soluzione potrebbe essere quella, a suo tempo suggerita dal giudice Mengoni, di prevedere “una norma regolamentare che vieti rigorosamente al dissenziente di amplificare il dissenso mediante i mass-media, per esempio concedendo interviste alla stampa o alla televisione” (68); il che ci rimanda alle considerazioni precedentemente sviluppate a proposito delle esternazioni dei giudici costituzionali e del loro Presidente.

Un’ultima considerazione conclusiva è necessario riservarla ad un aspetto prettamente formale del processo costituzionale, ed in ispecie alla pubblicazione delle decisioni della Corte.

Soccorrono, in proposito, gli artt. 3, l. n. 839/1984, e 21, d.P.R. n. 1092/1985, i quali dispongono come <<il testo integrale di tutte le sentenze della Corte costituzionale>> e <<le ordinanze di manifesta infondatezza e le altre ordinanze che comunque definiscano il giudizio>> debbano essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Ora, se la motivazione dissenziente costituisce una parte della decisione finale della Consulta, è evidente che la stessa dovrebbe essere pubblicata, al pari di quest’ultima, in Gazzetta Ufficiale.

Sul punto, la dottrina non appare per nulla discorde, anche in considerazione del fatto che il citato art. 136 Cost, così come riformulato dalla c.d. “bozza Boato” nell’ambito dei lavori della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali del 1997, prevedeva espressamente, al suo primo comma, che <<le decisioni della Corte costituzionale sono pubblicate con le eventuali opinioni in dissenso dei giudici>>.

La vexata quaestio, invece, si è incentrata, sul rapporto che formalmente lega la motivazione dissenziente alla motivazione ufficiale della Corte così come consacrata nella decisione finale, ossia se la prima debba considerarsi un “allegato” alla seconda, o se invece ne debba costituire parte integrante.

Se si propende per la prima opzione, allora la pubblicazione del dissent dovrebbe seguire, secondo alcuni (69), ad una necessaria ed indefettibile modificazione dell’art. 21 del d.P.R. n. 1092/1985, al cui scopo mal si presterebbe lo strumento regolamentare della Corte.

Di avviso decisamente contrario risulta altra dottrina, che invece, nel presupposto che le opinioni dissenzienti e concorrenti “fanno parte del <<testo>> della sentenza o ordinanza” (70), potrebbero e dovrebbero essere pubblicate sulla G. U. senza necessità di una modifica del citato art. 21.

Ci è dato inoltre di rilevare che, a differenza degli altri atti che trovano pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ogni decisione della Corte costituzionale che <<dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge>> (art. 136 Cost.), deve essere, oltre che pubblicata in Gazzetta, altresì <<comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali>>.

Da tale disposizione si ricava, dunque, che l’eventuale introduzione dell’opinione dissenziente imporrebbe la trasmissione del testo di quest’ultima ai summenzionati organi istituzionali, unitamente alla decisione c.d. ufficiale, il che comporterebbe, coerentemente, l’immediata modificazione del secondo comma dell’art. 136 Cost. (71).

Il che poi, del resto, coincide con la proposta formulata durante i lavori della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali (ex l. cost. n. 1/1997), e definita con la già richiamata soluzione secondo cui <<la decisione della Corte, con le eventuali opinioni in dissenso dei giudici, è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali>>.


Note:

1. Quelle stesse qualità morali la cui elevatezza dovrebbe “presumersi nelle persone prescelte ad un ufficio così delicato”: così C. MORTATI, Prefazione, in C. MORTATI (a cura di), Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali, cit., V. Cfr. altresì A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 438.

2. Osserva criticamente S. FOIS, Le opinioni dissenzienti, cit., 24 e 25, che i rischi circa la potenziale deminutio di “autorità” o di “autorevolezza” delle decisioni della Corte sembrano assumere “un significato e un valore profondamente diversi – o addirittura opposti – a seconda del tipo di ordinamento (specie sotto il profilo della <<forma di Stato>>) al quale si faccia riferimento. Mentre l’<<autorità>> delle, e quindi la connessa segretezza nelle, decisioni … sono congeniali … agli ordinamenti (<<regimi>>?) di tipo più o meno accentuatamente autoritario e <<autocratico>>, la valutazione … sembra essere ben diversa negli ordinamenti di tipo <<democratico>>”. In questi ultimi, afferma l’Autore, vale il principio secondo cui la pubblicità è la regola, non l’eccezione, e riporta in merito la definizione di Norberto Bobbio sulla democrazia, quale “governo del potere visibile”, “il governo del potere pubblico in pubblico”, e conclude chiedendosi “perché anche per la (per le decisioni della) Corte Costituzionale non debba valere il principio del <<governo del potere pubblico in pubblico>>.

3. Così R. GRANATA, Intervento, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 51.

4. A ciò consegue, secondo A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 435, un “indebolimento dell’autorità del Tribunale e della certezza del diritto”. Il che, ammonisce criticamente C. MORTATI, Relazione illustrativa della proposta di emendamenti dell’art. 18, cit., 402, “potrebbe essere considerato vero solo a patto di assimilare tale autorità (della sentenza, appunto) a quella di un ipse dixit, sottratto ad ogni critica ed esente da responsabilità di ogni genere”.

5. In questi termini C. MORTATI, Prefazione, cit., X. Non solo mancate, sul punto, ulteriori osservazioni della dottrina, prevalentemente convergenti al pensiero di Mortati. Scrive in proposito L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali, cit., 88, che “all’affermata diminuzione di prestigio di una Corte in cui le decisioni fossero fortemente costrastate si risponde che quella obiezione può essere neutralizzata con una corretta percezione del concetto di opinione pubblica, variegata sotto il profilo delle idee circolanti … ed, in definitiva, della eterogeneità sociale. Di modo che … è errato prevedere una reazione unitaria dell’opinione pubblica verso una decisione intrinsecamente contrastata”. Le considerazioni di Ventura si rifanno, a loro volta, alle riflessioni, sul tema, di G. AMATO, Osservazioni sulla <<dissenting opinion>>, cit., 22 ss., il quale, partendo dall’assunto che l’opinione pubblica “vuole unità, compattezza, certezza dell’organo che è chiamato ad esplicare il significato e la volontà della Costituzione”, rileva poi efficacemente che “per un ambiente sociale i cui membri fossero passivi ricettacoli di regole cui essi obbediscono sol perché la fonte le ha emanate con il dovuto apparato di mistica certezza, gli organi supremi esigerebbero di essere pensati come qualcosa di assolutamente distinto dagli uomini che li compongono. Ma in una società moderna, dove la vocazione e la maturità democratica sono radicati sentimenti nella coscienza popolare, l’argomento perde gran parte della sua forza e deve fare i conti con tutt’altra nozione di opinione pubblica. In questa società, infatti, l’opinione pubblica è un complesso di idee, di orientamenti confliggenti che si riallacciano alla eterogeneità dell’aggregato sociale; parlare di una <<sua>> reazione di fronte al comportamento del supremo organo giurisdizionale è assumerla irrealisticamente come un’entità unitaria”, e conclude sul tema con una riflessione sulla Corte Suprema statunitense, la quale, se “è al centro della pubblica attenzione, se, conseguentemente, la Costituzione fa parte della vita quotidiana del cittadino americano, lo si deve principalmente al dibattito che il dissent istituzionalizza”.

6. G. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 159.

7. In argomento, cfr. F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 118, il quale cita l’esempio di come alcuni ordinamenti stranieri (in primis gli Stati Uniti d’America), impongono ai giudici costituzionali l’obbligo del giuramento di fedeltà sia alla Costituzione che alla propria coscienza. V., altresì, R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 85 e 87.

8. Sul punto, v., amplius, S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 71ss. Pertanto, scrive molto incisivamente C. MORTATI, Relazione illustrativa della proposta di emendamenti dell’art. 18, cit., 406, che “il dissenso, mentre da un lato esalta la personalità del singolo giudice, dall’altro ne accresce la responsabilità. L’una e l’altra risultano invece depresse ed umiliate dal sistema del segreto, che bene a ragione si è potuto qualificare quale <<sistema senza spina dorsale>>”. Del resto, è stato ulteriormente osservato da U. SPAGNOLI, Intervento, cit., 127, che la trasparenza delle intenzioni di voto dei giusdicenti evita ab origine “tutte le deleterie <<indiscrezioni>> giornalistiche e le fughe di notizie sull’orientamento dei giudici”.

9. Cfr. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 208 ss.; C. MORTATI, Relazione illustrativa della proposta di emendamenti dell’art. 18, cit., 410, il quale tuttavia riscontra la maggior critica mossa dall’Andrioli (che egli integralmente rigetta “perché offensiva, almeno nei confronti della nostra Corte”) nel paventato sovraccarico di lavoro che discenderebbe dall’introduzione del dissent.

10. E’ da rilevare, tuttavia, che anche in seguito alla presa di posizione di questi giudici costituzionali, altri membri della Consulta manifestarono apertamente il loro veto all’introduzione della dissenting opinion nel processo costituzionale. Particolarmente eloquente è, a tale proposito, quanto accaduto due anni addietro a Palazzo della Consulta, quando la maggioranza dei giudici costituzionali (ben 13 su 15!) ha formalmente respinto la possibilità di introdurre l’istituto dell’opinione dissenziente per via regolamentare.

11. Sono, queste, le parole riportate nel resoconto della commissione di studi nominata all’interno della Corte per valutare la proposta del giudice Mortati sull’introduzione del dissent, tratte da R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 68 nota 3.

12. “…mentre certamente se ne avvantaggerebbe, per estensione, coerenze e conseguenzialità, la parte motiva della decisione e, dunque, la decisione stessa, di cui la prima … costituisce l’espressione più significativa”: così A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 95. Conformi, in tema, R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 85, e S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 242.

13. Cfr. S. PANIZZA, ibidem, 82.

14. Così G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 91..

15. Cfr. A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 450.

16. Riscontrano in tal senso S. FOIS, Le opinioni dissenzienti, cit., 29, e S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 247. Il problema in questione, tuttavia, non sembra destare particolare preoccupazione (anzi, sembrerebbe del tutto infondato), qualora si dovesse convenire con le parole di G. BRANCA, Collegialità nei giudizi della Corte costituzionale, cit., 8, il quale rilevava, in tempi – per così dire – ancora non sospetti, che “i giudici costituzionali hanno molto tempo libero perché non possono svolgere attività professionali o accademiche”, e così è a tutt’oggi.

17. Più in dettaglio, vi sarebbe un “pericolo per l’indipendenza del giudice, che, per la possibilità che la sua opinione sia conosciuta all’esterno, potrebbe non avere la fermezza necessaria a resistere a pressioni esterne e quindi potrebbe orientarsi diversamente da come gli suggerirebbe la sua coscienza; e ciò varrebbe … sia per i giudici di estrazione politica nei confronti delle forze politiche che li hanno eletti sia per quelli di estrazione giudiziaria verso i rispettivi collegi elettorali, sia, più in generale, per tutti i giudici della Corte che considerino il loro mandato come una tappa di una carriera politica, nella propsettiva di acquisire alla sua scadenza nuove prestigiose cariche”: così A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 437.

18. In questi termini S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 81. E’ utile osservare come lo stesso Autore sottolinei l’esistenza di una funzione politica della Corte costituzionale, senza che tuttavia essa debba tratteggiare la Corte come organo di parte, ma piuttosto come organo del diritto vivente, di cui la politica, assieme agli altri fenomeni sociali, ne è espressione. A tale proposito, appaiono particolarmente illuminanti le riflessioni a suo tempo espresse da V. DENTI, Per il ritorno al <<voto di scissura>>, cit., 17, il quale mette in evidenza come “nessuna Corte può veramente essere <<neutrale>>, nel senso di sfuggire alla scelta nell’apprezzamento dei valori politici, economici e sociali cui si richiamano, nello scontro giudiziario, gli interessi contrapposti, i quali pretendono per sé, in modo esclusivo, il crisma della legittimità costituzionale”, e conclude rilevando l’insussistenza del “pericolo di un uso demagogico (ossia <<politico>> in senso deteriore) del voto discorde, poiché le garanzie che circondano la scelta dei giudici costituzionali sono sufficiente antidoto ad una simile evenienza”.

19. L’espressione è di G. AMATO, Osservazioni sulla <<dissenting opinion>>, cit., 25. Tra l’altro, rilevava acutamente Costantino Mortati, citato in S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 210, nota 7, che “manifestare l’opinione dissenziente quando il giudice-partitante rimanga in minoranza costituirebbe ben magra soddisfazione pel partito”.

20. Così G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 524. Prosegue l’Autore rilevando, similmente a quanto già precedentemente osservato a proposito della possibilità che il mandato di giudice costituzionale possa considerarsi come un trampolino di lancio per la successiva ricopertura di incarichi istituzionali, “la tendenza, anch’essa negativa … di considerare la carica di giudice costituzionale coma fase di passaggio in una carriera politica più ampia. E’ del tutto normale che le esperienze politiche debbano poter essere utilizzate presso la giustizia costituzionale ed egualmente che, poi, esperienze acquisite nella giustizia costituzionale non vadano disperse. E’ quindi interesse generale che personalità di rilievo della vita politica accedano alla giustizia costituzionale e che i giudici costituzionali, alla scadenza del loro mandato, possano ancora servire la politica in incarichi di responsabilità. Ma perché tutto ciò non si traduca in un allineamento della Corte alla logica del sistema partitico … occorre una condizione che chiama in causa primariamente la responsabilità di coloro cui spetta il potere di scelta dei componenti la Core costituzionale: i giudici <<politici>> devono essere personalità eminenti che alla politica hanno da dare, non da chiedere”. Non si può fare a meno di riscontrare, però, che lo stesso Autore, in altra sede ed in altri tempi, sembra aver mutato posizione in ordine alle suesposte considerazioni, ravvisando la rimessa in discussione di quest’ultime proprio a causa dell’introduzione della dissenting opinions. Più compiutamente, afferma ancora G. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 160, che “se si considera che attraverso l’opinione dissenziente (e concorrente) i singoli giudici sono messi in condizione di costruire una propria immagine rilevante verso l’esterno, si può immaginare che questa immagine possa talora valere a gettare le basi per una carriera successiva … Questo potrebbe introdurre (o magari aumentare, rispetto a oggi) un fastidioso sospetto sulle reali motivazioni e sulla reale indipendenza di giudizio … E’ chiaro che ciascun giudice, per se stesso, rigetterebbe come offensiva la sola idea di essere coinvolgibile in tale sospetto, ma non possiamo evitare di prendere in considerazione che un giudice, questa idea, l’abbia di un altro giudice … Ci si potrebbe chiedere allora se l’introduzione dell’opinione dissenziente non dovrebbe accompagnarsi a un’altra riforma … e cioè il divieto di assumere cariche, politiche e non politiche, per un certo periodo successivo alla scadenza del mandato di giudice costituzionale”. Il che è quello che suggeriscono, tra l’altro, A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., 69, i quali propongono che sia previsto con legge “un congruo periodo di astensione obbligatoria prima dell’assunzione di <<nuovi>> incarichi istituzionali” da parte dei giudici emeriti.

21. E’ interessante notare come siddetta questione rappresenti uno degli argomenti di maggiore preoccupazione da parte del supremo organo giurisdizionale, se si considera che lo stesso giudice Zagrebelsky, in occasione dell’incontro con i giornalisti a seguito della sua elezione alla presidenza della Consulta, ribadisce che “la Corte non esprime alcun indirizzo politico … non si può pensare che l’elezione del presidente della Corte abbia un significato e possa essere interpretata come una scelta di natura politica, (giacché) la funzione della Consulta è la difesa della Costituzione, che siccome è di tutti non è di nessuno in particolare”: in “La Repubblica” del 28 gennaio 2004. Parzialmente contra, su quest’ultima interpretazione, sembre porsi V. COCOZZA, Costituzione (costituzione italiana), in Enc. giur. Treccani, X, cit., 1988, 8, il quale, se in effetti – e giustamente – è ben lungi dal sostenere la tesi secondo cui la Corte esprima un indirizzo politico, non nasconde tuttavia che la stessa concorra alla definizione di tale indirizzo, evidenziando così quella che viene definita la “forza politica” della Corte costituzionale. Afferma dunque l’Autore che “tale organo concorre a definire la forma di governo italiana e tale ruolo si registra, in particolare, nella funzione di supplenza che il giudice costituzionale ha svolto, soprattutto attraverso una variegata tipologia di pronunce che hanno accentuato il carattere normativo o paralegislativo del giudizio di legittimità costituzionale, incidendo anche sulla conformazione dell’indirizzo politico”.

22. In argomento, cfr. F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 112; A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 438; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 81.

23. Afferma in proposito G. SILVESTRI, Relazione di sintesi, cit., 571, che l’introduzione dell’opinione dissenziente (di cui peraltro sottolinea l’importanza) “darebbe un contributo notevole all’etica del discorso, nel senso di dare maggiori possibilità di verifica della razionalità delle argomentazioni. L’innovazione non può essere ridotta a mezzo di sfogo del giudice rimasto in minoranza, o del giudice ansioso di protagonismo, né può trovare sufficiente giustificazione in un generico pluralismo, ma dovrebbe servire soprattutto a dare un grado di eticità maggiore al discorso comunicativo fra la Corte ed il pubblico, specializzato e non specializzato”.

24. In tal senso, L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali, cit., 28 e 204, anche se avverte come “non di rado, nell’esperienza più recente le esternazioni hanno brillato più per ermeticità che per chiarezza”, e comumque sottolinea che l’esternazione ha valenza meramente informativa, mentre “non ha (né deve avere) il fine di provare la legittimità dell’atto”, e “a tutto concedere, potrebbe essere considerata <<motivazione>> (non già di atti giuridici formali ma) di attività o comportamenti”.

25. Amplius in S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 232.

26. In tal senso, G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 87.

27. Nonostante l’evento sia ormai “prassi consolidata”, sottolinea comunque L. D’ANDREA, La Corte commenta … se stessa, cit., 383, (opportunamente distinguendo dalle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario che interessano la giustizia ordinaria), “l’assoluta singolarità del fenomeno in esame nell’ordinamento italiano: non si conoscono infatti altri organi giurisdizionali che periodicamente illustrino e commentino davanti alla pubblica opinione l’esercizio delle proprie funzioni, ché anzi si suole ritenere consono all’ufficio di giudice un utilizzo piuttosto parco dei mezzi di comunicazione di massa. Tale peculiarità si spiega in ragione del carattere costituzionale (e dunque del <<tono>> politico) della giurisdizione della Corte, che la pone sotto la luce dei riflettori dell’opinione pubblica, ad anzi le richiede di attivare meccanismi di responsabilità diffusa, tanto più importanti in considerazione della natura di organo di chiusura dell’ordinamento da riconoscere alla Corte”.

28. L. D’ANDREA, ibidem, 379.

29. L’espressione è di Stefano Rodotà, in R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, cit., 73, nota 17.

30. Così L. D’ANDREA, ibidem, 379. Ma v., amplius, dello stesso Autore, quanto riportato supra nella nota 2, Parte terza, capitolo I, paragrafo 1 di questa trattazione.

31. Di tale avviso è ancora Stefano Rodotà, in R. ROMBOLI, op. cit., 73, nota 17.

32. V. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 231.

33. Così A. ANZON, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 434.

34. Una posizione critica sembra tuttavia assumere S. FOIS, Le opinioni dissenzienti, cit., 31 ss., il quale rileva che la funzione che il dissent ha di stimolo della giurisprudenza, imposta dal “continuo mutare della realtà sociale”, sembrerebbe approssimarsi alla funzione, condivisa dall’Autore, di “accettabilità sociale” del diritto giurisprudenziale e dunque delle sentenze che lo rappresentano. Pertanto egli ritiene, anche in considerazione del nostro sistema giuridico di stampo continentale, che il dissent è ivi “chiamato a giocare molto più in senso <<garantistico>> che in quello di ampliare la dimensione <<creativa>> della suddetta giurisprudenza. Una conferma di ciò, non priva di significato, sembre possa trarsi dall’esperienza spagnola … Nel giudizio di <<amparo>> di fronte al Tribunale costituzionale spagnolo, le opinioni dissenzienti sono state utilizzate specialmente per garantire il rispetto della <<separazione dei poteri>>”.

35. Particolarmente incisive solo, sul punto, le parole di L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali, cit., 90, il quale rileva che “anche la stessa funzione di introduttore necessario svolta dal giudice a quo verrebbe potenziata, ove egli fosse consapevole che un dubbio di costituzionalità, su una questione decisa dalla Corte nel senso della infondatezza, sia comunque autorevolmente confermato da una o più opinioni dissenzienti”. Nota altresì S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 84 e 256 ss., che tuttavia, fermo restando che “non si dovranno considerare le opinioni separate come semplici punti di vista”, di contro “l’esistenza di pronunce sorrette da maggioranze strette e risicate costituirebbe un incentivo a proporre più e più volte le medesime questioni, confidando nella maggiore persuasività di un nuovo argomento, o comunque nel mutato atteggiamento della corte, magari per la sostituzione di alcuni dei suoi membri”, privando così “la giurisprudenza costituzionale … dell’importante ruolo di guida per i giudici inferiori”.

36. Afferma criticamente L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali, cit., 89., che se il dissent fosse stato previsto nell’ordinamento fin dagli albori della nostra Repubblica, “i cambiamenti di orientamento giurisprudenziale sarebbero stati, nella storia della giustizia costituzionale italiana, meno traumatici, comunque più facilmente spiegabili”. Rileva tra l’altro L. LOMBARDI VALLAURI, Giurisprudenza (teoria generale), in Enc. giur. Treccani, XV, cit., 1989, 7, come proprio la giurisprudenza dia luogo alla “formulazione del migliore possibile diritto”, laddove “<<possibile>> equivale precisamente a vigente”.

37. Afferma in proposito A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Milano, 1997, 134 e 135, che “le norme oggetto del giudizio costituzionale vivono in un contesto culturale, storico, ordinamentale, sociale, economico che ne definisce l’identità. Il mutamento del contesto può condurre al mutamento della <<norma>> pur restando invariata la sede testuale (la disposizione) cui questa norma si ricollega”, e riporta il pensiero di Antonio Ruggeri laddove afferma che “ciò palesa una certa <<relatività>> del giudicato costituzionale, parallela all’evolversi dei contenuti normativi del sistema, pur nell’invarianza della sede testuale cui la norma impugnata si collega”. Del resto, è particolarmente eloquente, nel senso ora richiamato, la definizione che lo stesso A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, cit., 6, dà riguardo il concetto di disposizione normativa (“un enunciato lingiustico significante in merito a comportamenti umani … giuridicamente qualificati”), e di norma giuridica (“la regola di comportamento, vale a dire il significato che gli interpreti assegnano alla disposizione, specialmente … ai fini della sua applicazione”). Cfr. altresì M. MAZZIOTTI DI CELSO, Norma giuridica, in Enc. giur. Treccani, XXI, cit., 1990, 1 ss.; E. FAZZALARI, Ordinamento giuridico (teoria generale), XXI, ibidem, 1990, 1 ss.

38. Così C. MORTATI, Prefazione, cit., XI. Sul punto, conformi U. SPAGNOLI, Intervento, cit., 126, secondo cui il dissent funge da stimolo al “processo democratico e impedisce la cristallizzazione della giurisprudenza della Corte”, e G. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 157, ad avviso del quale “l’opinione dissenziente (e concorrente) è concettualmente contraria ad ogni pietrificazione dell’interpretazione costituzionale ed è invece coerente con l’idea dello sviluppo della Costituzione nel tempo, con l’idea di una Costituzione vivente”. Su quest’ultimo punto v., in generale, V. COCOZZA, Costituzione (teoria generale), in Enc. giur. Treccani, X, cit., 1988, 1 ss., spec. 3; G. TREVES (a cura di), La dottrina del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 1971.

39. Così C. MORTATI, Prefazione, cit., XI. Sul punto, conformi U. SPAGNOLI, Intervento, cit., 126, secondo cui il dissent funge da stimolo al “processo democratico e impedisce la cristallizzazione della giurisprudenza della Corte”, e G. ZAGREBELSKY, Intervento, cit., 157, ad avviso del quale “l’opinione dissenziente (e concorrente) è concettualmente contraria ad ogni pietrificazione dell’interpretazione costituzionale ed è invece coerente con l’idea dello sviluppo della Costituzione nel tempo, con l’idea di una Costituzione vivente”. Su quest’ultimo punto v., in generale, V. COCOZZA, Costituzione (teoria generale), in Enc. giur. Treccani, X, cit., 1988, 1 ss., spec. 3; G. TREVES (a cura di), La dottrina del precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 1971.

40. In argomento, cfr, oltre quanto approfondito supra, Parte seconda, capitolo II, paragrafo 1, le considerazioni di M. D’AMICO, Riflessioni sul ruolo della motivazione nella Corte Suprema statunitense, cit., 69, in part. la nota 63.

41. In argomento, v., per tutti, A. RUGGERI, A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit. 62 ss., i quali non mancano di rilevare, oltre al fatto che il divieto di prorogatio non trova applicazione nel processo penale costituzionale, che “la diversa, e più breve durata, degli organi che nominano/eleggono i giudici costituzionali finisce con l’essere una garanzia contro gli eventuali vincoli fra questi ultimi e i primi”.

42. In questi termini S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 8.

43. E’ tuttavia accaduto, soprattutto nelle ultime occasioni in cui il Parlamento è stato chiamato ad eleggere nuovi giudici costituzionali, che l’eccessiva dilatazione dei tempi sia dipesa dalla immediata mancanza di una maggioranza qualificata, il cui quorum si rende necessario per addivenire alla scelta di siddetti giudici. Particolarmente eloquente è, in tal senso, l’elevato numero di giorni occorsi per l’elezione dei proff. Ugo de Siervo e Romano Vaccarella al supremo collegio, stante la perdurante frattura delle forze politiche sulla convergenza dei nomi su cui incentrare il proprio voto, sì da provocare il formale richiamo del Capo dello Stato e conseguentemente obbligare il Presidente della Camera a modificare il calendario del lavori ,ai fini di un turn-over volto a rendere più celere l’espletamento dei doveri del Parlamento riunito in seduta comune.

44. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 212.

45. S. PANIZZA, ibidem, 212. Non manca di rilevare A. SAITTA, Logica e retorica nella motivazione, cit., 72 ss., che, sia pure “con estrema difficoltà”, anche il popolo potrebbe influire sulla composizione della Corte costituzionale, nel momento in cui è chiamato alle urne per rinnovare l’Assemblea legislativa. E difatti, “mutata la composizione del Parlamento (che a sua volta elegge il Presidente della Repubblica), il popolo può così condizionare la composizione dei due terzi della Corte costituzionale al momento del rinnovo dei suoi membri. … Però, si tratta di un’influenza molto mediata ed eventuale (perché, ad esempio, il rinnovo delle Camere potrebbe essere ininfluente in quanto nessun giudice di estrazione parlamentare debba essere eletto), ed inoltre gli effetti potrebbero essere avvertiti solo a distanza di lungo tempo, anche a causa della durata novennale della carica dei giudici costituzionali, o non avvertite del tutto, stante l’assoluta indipendenza che i giudici della Corte dovrebbero avere rispetto alle forze politiche, sia di maggiornaza che di opposizione, nonché per la collegialità della decisione stessa”.

46. Tra le altre, si ricordano, oltre a quelli menzionati passim, i poteri di polizia, di direzione amministrativa, di nomina dei componenti delle commissioni interne alla Corte, di ricezione degli atti introduttivi dei procedimenti, di nomina del difensore d’ufficio, di notificazione e di comunicazione degli atti, di fissazione del calendario delle udienze, di riduzione dei termini processuali e così via: cfr M. RAVERAIRA, Corte costituzionale, in Enc giur. Treccani, IX, cit., 1988, 8 ss. Sul ruolo del Presidente della Corte costituzionale, cfr., in particolare, T. MARTINES, Il Presidente della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1981, 2077 ss., cit. in L. D’ANDREA, La Corte commenta … se stessa, cit., 378.

47. In questi termini L. D’ANDREA, La Corte commenta … se stessa, cit., 379.

48. Così S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 7.

49. S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 237.

50. Così opina S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 7.

51. Sul cui argomento si è già avuto modo di soffermarsi adeguatamente nel paragrafo 1 del presente capitolo.

52. Ad ogni modo, la decisione è comunque ascrivibile all’intero collegio, ancorché non manchino comunque interpretazioni critiche sul tema: cfr. R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 77, il quale riporta le considerazioni del giurista Alessandro Pace laddove questi “ha espresso un giudizio non positivo circa la modifica dell’art. 18, la quale potrebbe dare l’idea di una sentenza fatta solo da due giudici”.

53. Ovvero quando esso veniva del tutto travisato sulla base della presunzione che lo stesso relatore dovesse essere anche l’estensore della decisione, con le ben note conseguenze che potevano scaturire. Ma vedi, amplius, la significatica testimonianza del Presidente emerito Ettore Gallo, così come riportata nella nota 17 del presente capitolo. Osserva comunque U. SPAGNOLI, Intervento, cit., 121, che, con siffatta innovazione, “la Corte ha già in passato dimostrato di essere sensibile” all’esigenza di introdurre il dissent, giacché la previsione della “possibilità che nella sottoscrizione delle sentenze appaia il nome di un redattore diverso da quello del relatore … rende pubblico il dissenso del relatore non redattore”, per cui ben si evince che “i principi che stanno alla base dell’opinione dissenziente sono quindi già penetrati all’interno della Corte”.

54. Il problema in questione è stato affrontato, tra gli altri, da F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 113, il quale considera, in particolare, “se sia preferibile che la relazione sia affidata ad un giudice che su una precedente questione analoga risulti aver fatto parte della maggioranza o della minoranza. Nel primo caso si favorirebbe la continuità di decisione e di motivazione; nel secondo si cercherebbe – attraverso un’equilibrata alternanza – più forte conferma del precedente indirizzo o una sua convinta smentita”. Unica eccezione in merito a tali criteri di scelta è data dal processo penale costituzionale, in quanto, ai sensi dell’art. 22, secondo comma, l. 25 febbraio 1962, n. 20, soltanto “il Presidente è … giudice relatore nei giudizi promossi contro il Presidente della Repubblica”: cfr. M. RAVERAIRA, Corte costituzionale, in Enc giur. Treccani, IX, cit., 1988, 9.

55. Così S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 228, il quale osserva come questa sia la proposta avanzata a suo tempo da Costantino Mortati attraverso una modificazione dell’art. 18 N.I. Lo stesso Autore rileva poi che, ai sensi del terzo comma del medesimo art. 18, la scelta dell’estensore non spetterebbe al Presidente, bensì alla Corte nella sua componente maggioritaria, della quale dunque non è detto che ne faccia parte il Presidente stesso. Ciò posto, e fermo restando il fatto che la designazione del redattore debba comunque provenire da uno dei componenti il collegio (ancorché la decisione sul nome sia frutto dell’accordo della maggioranza) l’Autore si sofferma specificatamente nell’individuazione di tale soggetto, il quale, in virtù del rapporto di gerarchia interna, sarà riconosciuto “nel Presidente del collegio (in ogni caso in cui egli sia presente e abbia votato a favore del dispositivo), nel vice Presidente (allorché il Presidente non abbia preso parte alla votazione o sia risultato in minoranza, è purché il vice Presidente abbia sostenuto il dispositivo), e, infine, nel giudice più anziano tra quelli che abbiano condiviso la pronuncia (qualora sia il Presidente che il vice Presidente non abbiano partecipato al voto; ovvero, assente il primo, il secondo sia risultato in minoranza; o ancora, presenti sia il primo sia il secondo, entrambi si siano schierati contro l’adozione di quel dispositivo)”. Parzialmente difforme appare il pensiero di R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 83, il quale ammette che la redazione della decisione possa essere affidata anche al giudice dissenziente, richiamando come esempio il precedente della giustizia costituzionale tedesca, ma conviene comunque sulla opportunità, per ragioni di logica e di coerenza, di affidare la redazione della pronuncia ad uno dei giudici della maggioranza, al fine di evitare “l’imbarazzante situazione di chi si vede costretto a scrivere e motivare conclusioni nelle quali non crede”.

56. In tema, è paradigmatica l’esperienza della Supreme Court statunitense, laddove questa fase particolarmente dinamica rappresenta uno dei momenti cruciali del processo deliberativo, non foss’altro perché, così procedendo, un dissenso iniziale, se supportato da valide e solide argomentazioni, può ben trasformarsi in opinione di maggioranza nella stessa camera di consiglio. Una concisa descrizione di tale dinamica procedurale è offerta da S. BARTOLE, Opinioni dissenzienti, cit., 3 ss., su cui vedi la nota 28 del presente capitolo.

57. Sulla necessità di fissare dei termini inderogabili per il deposito delle opinioni dissenzienti insiste S. BARTOLE, ibidem, 12, mentre R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 83, specifica che dovrebbero individuarsi diversi termini perentori per la proposizione dei dissensi in camera di consiglio. Ad avviso di F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 115, invece, non è da escludere “la possibilità di esprimere il dissenso nel momento della lettura ed approvazione del testo della decisione in camera di consiglio, poiché anche i giudici di <<minoranza>> partecipano a pieno titolo alla fase della deliberazione finale della sentenza (la <<lettura sentenze>>), potendo concorrere, con le proprie opinioni anche contrarie alla decisione finale, alla stesura della motivazione”. Parzialmente contra, S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 246, il quale propende per l’esclusione della perentorietà dei termini, “trattandosi, pur sempre, di situazioni che restano affidate, per loro natura, più alla sensibilita e (in fondo, alla stessa personalità) di ciascun membro del collegio”.

58. “… affinché gli altri tengano conto di tale dissenso per elaborare una decisione migliore”: così F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 115. Conforme R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 83, il quale ritiene doverosa la distinzione temporale “a seconda che si tratti di opinione dissenziente, per la quale è sufficiente conoscere il dispositivo, o concorrente, per la quale invece è necessario che il giudice conosca anche la motivazione accolta dalla maggioranza”.

59. Tra gli studiosi che sostengono tale soluzione (unica o in alternativa ad altre) si citano, in particolare, R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 80; A. M. SANDULLI, Voto segreto e palese dei giudici costituzionali, in A. ANZON (a cura di), L’opinione dissenziente, cit., 438, nota 19; E. GALLO, Intervista al “Corriere della Sera”, cit.; V. CAIANIELLO, Intervista a “Il Giornale”, cit.; C. MORTATI, Prefazione, cit., X.

60. Un’autorevole presa di posizione decisamente contraria alla descritta proposta è stata assunta da F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 114, la quale è però subordinata alla mancata previsione della pubblicazione delle motivazioni dissenzienti e concorrenti. Non manca difatti l’Autore di rilevare la “quasi inutilità” dell’introduzione della dissenting qualora dovesse giungersi ad occultare i nomi dei dissenzienti, ancor più che una siffatta previsione avrebbe ulteriori refluenze negative, ed in particolare “farebbe perdere autorevolezza alla Corte, senza far capire quali siano le ragioni della diversità di vedute.”

61. Cfr F. SANTOSUOSSO, ibidem, 117.

62. Così C. MORTATI, Prefazione, cit., X.4.

63. Cfr. S. BARTOLE, Le opinioni dissenzienti, cit., 13; F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 117; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 247; A. PIZZORUSSO, Osservazioni sullo strumento normativo, cit., 58, il quale asserisce che, al di fuori dei casi più importanti in cui potrebbero far luce le opinioni dissenzienti e concorrenti, negli altri casi invece può farsi ricorso ad “una decisione per curiam, sommaria ed anonima”, e sottolinea altresì come “nel caso della Corte costituzionale italiana, che non dispone di un potere di case selection simile a quello della Corte suprema degli Stati Uniti, l’ipotesi della motivazione per curiam potrebbe trovare applicazione ad un considerevole numero di sentenze e di ordinanze”.

64. Cfr. S. BARTOLE, Le opinioni dissenzienti, cit., 13; V. DENTI, Intervento, in R. ROMBOLI, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 81, nota 31.

65. In argomento, cfr. F. SANTOSUOSSO, Aspetti procedurali connessi alla eventuale ammissibilità, cit., 118; S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 278.

66. Questi fenomeni, “dalla maggioranza degli autori duramente stigmatizzati”, sono evidenziati da S. PANIZZA, ibidem, 279. Di avviso contrario è, con riferimento circoscritto alla Supreme Court statunitense, il giudice di quella Antonin Scalia, il quale riscontra che “l’uso delle opinioni separate non produce né animosità né rancore tra i membri della Corte, e che rende <<più divertente>> la loro attività”: così in A. ANZON, Forma delle sentenze e voti particolari, cit., 179.

67. Afferma in proposito L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali, cit., 92, che “la trasparenza va coniugara con la riservatezza che deve accompagnare l’attività del collegio, che rimane (assieme al Capo dello Stato, come però non è avvenuto in un recente passato), un organo supremo attento alle regole della correttezza costituzionale, ormai del tutto obsoleta per altri organi posti al vertice dello Stato-apparato i cui componenti, anche a causa della continua ribalta assicurata dall’ingresso dei mass-media pure nel corso dei lavori (v. Camere), spesso sono attori di un progressivo scadimento della qualità del dibattito politico”.

68. Così L. MENGONI, Intervento, cit., 55.

69. Questa tesi è particolarmente sostenuta da A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità, cit., 107, ad avviso del quale “se si accede all’idea che le opinioni minoritarie non fanno <<testo>> con la decisione (in senso stretto) e che solo a questa si riferisce l’art. 21 del t.u. n. 1092 del 1985 … dovranno, allora, apprestarsi le opportune modifiche del regime pubblicitario, segnatamente quanto alla inserzione in Gazzetta, con la decisione integrale, del testo integrale delle opinioni minoritarie”. Contra, S. PANIZZA, L’introduzione dell’opinione dissenziente, cit., 281, il quale invece ravvisa nel Regolamento della Corte costituzionale lo strumento più idoneo a consentire “la qualificazione delle opinioni individuali come sorta di allegati della pronuncia cui si riferiscono, e la loro sottoposizione al medesimo regime di pubblicità stabilito, in generale, per la decisione collegiale”.

70. Di tale avviso è A. PIZZORUSSO, Osservazioni sullo strumento normativo, cit., 59, il quale tuttavia precisa che, a suo giudizio, la pubblicità delle opinioni dissenzienti e concorrenti non sarebbe necessaria se non in seguito ad una loro esplicita previsione nell’ordinamento costituzionale, in quanto la mera “abrogazione della regola della segretezza della camera di consiglio” senza un’espressa regolamentazione dell’istituto in parola, “non consentirebbe di attribuire a tali opinioni alcun carattere di ufficialità, e quindi … non ne comporterebbe la pubblicazione”.

71. A tali conclusioni perviene A. RUGGERI, Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità, cit., 99, sebbene ritenga tale iter non necessariamente obbligatorio. L’Autore difatti rileva come un modo per evitare il ricorso alla procedura aggravata sia quello di attribuire “un senso largo al termine <<decisione>> menzionato nell’enunciato costituzionale, siccome comprensivo anche delle opinioni minoritarie dei giudici”. Pur ritenendo astrattamente concepibile un simile percorso, non manca lo stesso Autore di riscontrare “seri dubbi sulla piena praticabilità di un siffatto itinerario interpretativo”.


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Avv. Fabio Schepis

Laureato in Giurisprudenza ed abilitato all’esercizio della professione forense, ha esercitato per alcuni anni l'attività di Avvocato. Successivamente è stato immesso nei ruoli del Ministero dell’Interno quale vincitore di concorso pubblico, per esami, per Funzionario dell'Amministrazione civile dell'Interno, e presta servizio presso un Ufficio periferico della Polizia di Stato - Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Ha approfondito alcuni rami del diritto, specialmente pubblico e giuslavoristico, attraverso il conseguimento di alcuni Master e la frequenza di numerose attività formative. Ha tra l'altro seguito un corso annuale di perfezionamento in Diritto Processuale Penale tenuto dalla Camera Penale presso la Corte di Appello, due corsi Jean Monnet sul diritto italiano e comunitario presso il centro studi universitario "Eurodip - Salvatore Pugliatti" e un seminario sui procedimenti disciplinari nel pubblico impiego presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Ha inoltre effettuato attività di docenza nei confronti del personale della Polizia di Stato nell'ambito delle attività di formazione ed aggiornamento professionale curate dalla Questura. I settori di competenza riguardano prevalentemente i seguenti rami del diritto: amministrativo, costituzionale, lavoro pubblico, , previdenza e assistenza sociale, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, gestione del personale e relazioni sindacali, ordinamento e attività istituzionali della Polizia di Stato e del Ministero dell'Interno.

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