La “doppia detenzione”: carcere e transessualità

La “doppia detenzione”: carcere e transessualità

Sommario: Premessa – 1. La collocazione dei detenuti transessuali: criteri e problematiche – 2. La cura ormonale in carcere: diritto e prassi a confronto

Premessa

Sebbene attualmente l’opinione pubblica e l’universo giuridico mostrano una lieve apertura nei confronti di argomenti quali transessualità ed identità di genere – considerati fino a qualche decennio fa veri e propri tabù -, tali temi rimangono, invece, questioni spinose e scottanti all’interno del sistema penitenziario italiano.

Infatti, laddove inserita in un contesto come quello carcerario, in cui non vi è una normativa che preveda ed assicuri per tale condizione tutele specifiche, la transessualità determina un impatto doppiamente negativo sulla persona, generando una sorta di espiazione aggravata della pena.

In questa sede, ben consapevoli della differenza terminologica tra transessuale e transgender[1], si analizzeranno – senza alcuna pretesa di esaustività – due profili particolarmente problematici nell’ambito carcerario e riguardanti coloro che non hanno intrapreso o concluso il percorso di transizione, ossia di cambiamento da un sesso all’altro: l’assegnazione delle persone transessuali all’atto della reclusione ed il proseguimento della terapia ormonale nell’istituto di pena.

1. La collocazione dei detenuti transessuali: criteri e problematiche

La prima questione che emerge nell’affrontare il tema della condizione transessuale in carcere è quella posta dal criterio di collocazione puramente formale previsto dall’art. 14 comma 5 Op il quale, stabilendo che le donne debbano essere ospitate in istituti o in apposite sezioni separate da quelli maschili, pone una netta separazione sulla base del sesso biologicamente inteso risultante dai documenti anagrafici, senza considerazione alcuna del genere e dell’aspetto esteriore[2].

La regolamentazione della sessualità e del genere in ambito carcerario disdegna(va) pertanto la diversità, prediligendo, al contrario, una sovrastruttura di potere normativo che controllasse le sessualità “innaturali”[3], spesso facendo leva su discutibili giustificazioni di ordine morale o pubblico come, ad esempio, la necessità di tutelare coloro che entrassero in rapporto con “questi individui” dal pericolo di essere ingannati dalla loro condizione sessuale.

Fu a partire dagli anni’80, con il riconoscimento giuridico della persona transessuale e del diritto all’identità sessuale[4], che il penitenziario si trovò a fronteggiare una situazione “nuova” la quale: a) mal si adattava alla suddetta organizzazione ideologico-spaziale[5]; b) sfidava il consolidato binarismo normativo; c) esprimeva un potenziale molto elevato di alterazione della sua geografia.

Ciò nonostante si assistette per quasi un ventennio ad una sostanziale indifferenza del legislatore nel prevedere una disciplina normativa idonea a regolamentare l’identificazione e l’assegnazione dei reclusi transessuali, silenzio che confermava la sua predilezione verso la differenziazione binaria dello spazio sociale in relazione al sesso.  Solo nei primi anni del XXI secolo, a fronte della reiterata inerzia legislativa nel rispondere alle esigenze di tutela avanzate dai detenuti in argomento, si svilupparono prassi che tennero conto della specificità della condizione transessuale nel contesto carcerario: in particolare, vennero disposte all’interno di alcuni istituti penitenziari dei “circuiti riservati[6]”  con lo specifico scopo di garantire «la collocazione più idonea per quei reclusi ed internati che per motivi oggettivamente esistenti ancorché talora connessi alle loro caratteristiche soggettive potevano temere aggressioni e sopraffazioni da parte dei compagni (ad esempio, perché transessuali)»[7].

Occorre, tuttavia, sottolineare che attorno all’istituzione di tali sezioni esistono pareri discordanti: accanto a coloro che ne sostengono e ribadiscono l’utilità proprio in virtù di quella funzione protettiva e garantista che è loro propria, vi è chi, interrogandosi sulla loro effettiva opportunità, intravede alcune zone d’ombra che sollecitano alcune attente riflessioni sul fatto che queste soluzioni possano essere compatibili con il principio di dignità umana che dovrebbe ispirare l’esecuzione penale[8].

Anzitutto, si è osservato che “l’idoneità della collocazione” a cui l’art. 32 DPR 30 Giugno 2000 n.230 fa riferimento viene per lo più valutata assumendo come centrale l’obiettivo di mantenere l’ordine all’interno della struttura penitenziaria, e non invece la persona e le sue esigenze, che vengono in qualche modo subordinate a ragioni di natura organizzativa.

In secondo luogo è rilevante precisare che la circolare DAP n. 5000422 del Maggio 2001, intervenuta specificatamente sul tema dei detenuti e delle detenute transessuali, ha chiarito che tali sezioni sono «destinate al contenimento di soggetti che hanno il divieto di incontro con la restante popolazione carceraria per condizioni personali ovvero per ragioni detentive e/o processuali[9]», trasformando così il fine securitario e di protezione dei ristretti in un vero e proprio isolamento.  I “transessuali protetti” si ritrovano, pertanto, esclusi dal resto della popolazione reclusa all’interno di vere e proprie sezioni-ghetto che rendono il più delle volte difficilmente gestibili – se non precluse del tutto- le occasioni lavorative intra-murarie e le attività ricreative previste durante la detenzione, l’accesso alle terapie ormonali nonché quel percorso rieducativo della pena che l’art. 27, comma 3 Cost. fissa come paradigma inderogabile dell’espiazione.

Infine, è bene sottolineare che secondo i dati del Garante Nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale relativi all’anno 2017, nelle carceri italiane sono presenti esclusivamente otto sezioni protette per i detenuti e detenute transessuali[10]. Ne segue che, oltre alle problematiche sopra elencate, questi circuiti, per la loro scarsa quantità a livello statale, pongono altresì seri ostacoli al mantenimento dei legami familiari, affettivi e con la realtà extra muraria di provenienze, essendo molto spesso distanti dal domicilio delle persone che vi sono recluse.

In conclusione, il penitenziario reagisce, ancora una volta, attraverso i propri tradizionali strumenti: la classificazione e l’isolamento volti al contenimento del potenziale destrutturante espresso dai detenuti de quibus[11]. Il risultato, infatti, che deriva dalla costituzione di tali sezioni è quello di un regime che, pur formalmente non differenziato, di fatto si presenta particolarmente opprimente. L’aspetto paradossale è che questo regime di detenzione aggravata dipende non dalla tipologia del reato commesso (o per il quale si è imputati) né dal mancato rispetto delle regole penitenziarie ma da una caratteristica personale – l’essere transessuale –  ritenuta, ancora oggi, “fonte di disturbo” della quotidianità e dell’assetto strutturale dell’istituto.

2. La cura ormonale in carcere: diritto e prassi a confronto

Dall’art. 18, comma 1 Op[12] nonché da un’isolata giurisprudenza resa dalla Magistratura di sorveglianza la quale – oltre a riconoscere un vero e proprio diritto dei detenuti transessuali a proseguire durante la reclusione il proprio percorso ormonale –  ha ritenuto che, anche in assenza di una espressa inclusione della terapia in oggetto nei LEA, la spesa è da ritenersi a carico del servizio sanitario nazionale[13], può affermarsi senza alcun dubbio che, al livello teorico, la detenzione non frapponga ostacoli alla prosecuzione del percorso ormonale nel corso dell’espiazione della pena.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, le prassi vigenti all’interno del contesto carcerario pongono delle difficoltà alla realizzazione del quadro ottimale di garanzie e di tutela dei diritti sopradescritto che, addirittura, varia a seconda della fase del percorso di transizione durante la quale il detenuto o la detenuta si trova a sperimentare la privazione della libertà personale. Si pensi, ad esempio, alla fase del c.d. “real life test, ossia il periodo in cui la persona, prima rivolgersi al Tribunale ed ottenere la sentenza di autorizzazione a procedere all’intervento chirurgico, viene invitata a vivere nel genere che si sente proprio. Tale momento si presenta assai problematico per la persona reclusa, posto che diverrebbe facilmente oggetto dello scherno degli altri compagni detenuti e si troverebbe quanto meno di fronte a situazioni di disagio e imbarazzo, con il rischio non solo di divenire vittima di violenza altrui, ma anche di rimanere “schiacciata” dalla propria condizione personale.

Parimenti problematica appare anche la vicenda della persona transessuale che venga reclusa quando abbia già ottenuto la suddetta sentenza e sia in attesa di sottoporsi all’intervento chirurgico. In questo caso, vengono in rilievo diversi interrogativi: a) se sia garantita la possibilità di sottoporsi all’intervento nell’ipotesi in cui la persona reclusa sia convocata durante la detenzione o se, al contrario, sia necessario attendere la fine della pena e ripresentare la domanda di inserimento nelle liste di attesa?; b) in caso venga garantita tale possibilità, la scelta della struttura presso la quale sottoporsi all’intervento rientra nel residuo delle facoltà riconosciute alla persona reclusa ovvero vi è un condizionamento in ragione della contiguità territoriale con l’istituto di pena?; data la peculiarità dell’intervento, nel periodo di convalescenza post operatorio è possibile per la persona transessuale  richiedere al giudice di sorveglianza il rinvio dell’esecuzione della pena ovvero di accedere a misure alternative alla  detenzione?

Le questioni appena poste, seppur complesse, potrebbero essere risolte attraverso un mero richiamo alla ratio legis della l. 26 Luglio 1975 n. 354 e della normativa che autorizza il cambiamento di sesso anatomico e anagrafico[14], senza rendere necessario ogni volta l’intervento della magistratura di sorveglianza per garantire quanto è già oggetto di previsione normativa ed evitare altresì di protrarre, spesso per diversi anni, la conclusione di un percorso di per sé già si caratterizza per la sua lunghezza ed indeterminatezza.[15].

 

 

 

 


[1] Con il termine “transgender” si fa riferimento a quelle persone che non si riconoscono nel modello dicotomico maschio/femmina che la società impone; ciò comporta un vissuto discordante della propria identità di genere (sentimento interiore e profondo di appartenere al genere maschile, femminile o altro) rispetto al sesso assegnato alla nascita, ma senza produrre alla scienza una domanda di modificazione dei caratteri sessuali primari e secondari. Transgender è quindi un termine ombrello che comprende tutte quelle persone che non riescono a riconoscersi o ad identificarsi nei modelli socio-culturali attuali di identità e ruolo di genere (transessuali, “cross-dresser” o travestiti, “drag-queen”, “drag-king”, ecc.). Il termine “transessuale”, invece, indica, più specificamente, quelle persone che vivono una discordanza tra il sesso biologico e l’identità di genere, ma in questo caso pongono alla scienza medica una domanda di modificazione dei caratteri sessuali primari e secondari con la possibilità di sottoporsi alla “Riattribuzione Chirurgica del Sesso” come previsto dalla legge n.164/82. Per la definizione dei termini su richiamati si rinvia a Lomazzi C. “L’impatto del transessualismo nelle politiche penitenziarie” in Rassegna penitenziaria e crimonologica, n. 3/2015, pagg. 99-100
[2] In conformità a tale disposizione, pertanto, una donna transessuale (MtF), anagraficamente uomo, ma di aspetto femminile veniva reclusa contro la sua volontà nel reparto maschile di un istituto di pena e, viceversa, un uomo transessuale (FtM), anagraficamente donna veniva detenuto in una sezione carceraria femminile.
[3] Così M. Foucault, Storia della sessualità Vol. 1: La volontà di sapere, XVII ed., Feltrinelli, 1978.
[4] Si vedano rispettivamente l. n.164 del 14 Aprile 1982 e Corte Cost. legge n. 164/1985
[5] Nella Redazione annuale al Parlamento Italiano del 2017, alle pp. 77 e 78, si sottolinea come il carcere continui ad essere ancora oggi un’istituzione fondata su una mascolinità che non può essere che eterosessuale, patriarcale e sovraordinata rispetto ad altre categorie di genere e dimensioni della sessualità. In questa ottica iper-mascolinizzante la donna cosi come l’uomo non eterosessuale ovvero non-maschio, sarebbero soggetti “altri”, una sorta di derivati rispetto al soggetto maschile, perdendo così il possesso di una propria identità.
[6] Nato agli inizi degli anni’ 90 con riferimento alla pericolosità sociale e penitenziaria espressa dal reato (si consideri i circuiti di alta sicurezza), il termine “circuito” è stato progressivamente esteso a tutti quei casi in cui le specifiche esigenze di una minoranza detenuta hanno richiesto la previsione di un regime differenziato (es. la custodia attenuata) o l’offerta di attività trattamentali specifiche. Cfr. Annicello E., “I circuiti penitenziari: biunivocità tra sicurezza e trattamento” in Ministero della Giustizia, “Gli spazi della pena. Tutela dei diritti umani e spazi penitenziari, Quaderni ISSP n.10/2012 pag. 36.
[7] Così DPR 230/2000, art. 32 comma 3
[8] In questo senso, Giuseppe Zago, Declinazioni del principio di dignità umana per i detenuti queer: sessualità e identità di genere nel sistema penitenziario italiano, in Giurisprudenza Penale Web, 2019
[9] Tra questi troviamo, oltre ai transessuali, altre categorie invise alla restante popolazione carceraria: coloro che hanno commesso reati particolarmente odiosi quali violenze sessuali o delitti di pedofilia (c.d. sex offenders) oppure gli ex appartenenti alle forze dell’ordine, alla Magistratura e così via.
[10] In ordine alfabetico: Belluno, Como, Firenze Solliciano, Ivrea, Napoli Poggioreale, Reggio Emilia, Rimini, Roma Rebibbia Nuovo Complesso
[11] Così Viannello F. e Peroni C., Il governo del penitenziario di fronte alla sfida delle soggettività transgender: riconoscimento, normalizzazione e resistenze in Che Genere di Carcere? Il sistema penitenziario alla prova delle detenute transgender, Guerini Scientifica, Milano, 2018, pag.3
[12] L’art. 18, comma 1, Op: “è fatto divieto di richiedere alla persone detenute o internate alcuna forma di partecipazione alla spese per prestazioni sanitarie erogate dal SSN”
[13] V. Tribunale di Spoleto, Ufficio di Sorveglianza, ordinanza del 13 Luglio 2011.
[14] Ci si riferisce alla già citata L. 14 Aprile 1982, n.164 «Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso», come modificata dal D.lgs. 1 Settembre 2011, n. 150
[15] Si pensi, ad esempio, a livello processuale, ai lassi di tempo richiesti per la fissazione delle udienze, come anche ai tempi di attesa per gli interventi presso le strutture sanitarie sui quali certamente non è ininfluente lo stato di detenzione della persona transessuale

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