La figura femminile: lotta alla dignità

La figura femminile: lotta alla dignità

Sommario: 1. Premessa – 2. Le differenze di approccio tra Europa e Stati Uniti – 3. I documenti di rilievo internazionale ed europeo – 4. La dignità della donna sul web: i pericoli – 5. Movimento femminista in Italia, dignità e prostituzione

 

1. Premessa

Dalla filosofia al diritto, storicamente la donna ha sempre assunto una posizione di sottomissione rispetto all’uomo. Originariamente frutto di accadimenti casuali, prevalentemente legati a dati naturali, tale realtà dei fatti è stata successivamente ampiamente teorizzata e giustificata da teorici e filosofi. Nel I libro della sua politica, Aristotele, nell’asserire che “per natura vi è chi comanda e chi è comandato al fine della conservazione” afferma senza esitazioni che “il maschio è più adatto al comando della femmina” e pertanto ad essa devono essere attribuiti quei compiti che non si addicono all’uomo.

Si tratta di un approccio che è durato oltre un millennio, fin oltre la stagione illuminista, che esaltando l’istituto della proprietà, ha potuto ritenere che in esso rientrasse non solo il diritto ad utilizzare le cose ma anche quello a utilizzare le persone. La reificazione dei soggetti interessava non soltanto coloro che venivano utilizzati come schiavi, ma anche, perfino nella filosofia kantiana, le donne nella misura in cui “l’uomo acquista una donna”.

La natura proprietaria di tale diritto è confermata dal fatto che qualora “uno degli sposi fugga” è diritto del coniuge ricondurlo con la forza al proprio potere, come se si trattasse, di una res.

La situazione di tale inferiorità della donna non viene incrinata neppure nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789. L’elencazione di diritti apparentemente attribuiti alle persone e ai cittadini, a prescindere dalla connotazione sessuale, è stata interpretata per secoli in modo da escludere le donne, senza cosi alterare la tradizionale partizione della sfera pubblica, appannaggio degli uomini, da quella privata, riservata alle donne.

Emblematica è la redazione, nel 1971, della Dichiarazione universale dei diritti della donna e della cittadina, che richiede l’applicazione degli stessi diritti, ma che l’estensione degli stessi obblighi e delle stesse sanzioni riconosciute dalla Dichiarazione del 1789 nei confronti delle donne, cosi affermando un’esigenza di eguaglianza di trattamento tra le persone, a prescindere dal sesso, che verrà successivamente ampiamente articolata.  Quasi contemporaneamente la Rivendicazione dei diritti delle donne di Mary Wallstonecraft, pubblicata nel 1972, che inizia a prospettare l’applicazione del paradigma dell’uguaglianza ai rapporti tra uomo e donna, ed in particolare al riconoscimento dei diritti delle persone appartenenti al cosiddetto “sesso debole”, sulla base del presupposto che la constatazione di una minore forza fisica, e quindi di una debolezza della donna rispetto all’uomo non giustifichi la negazione dei diritti naturali “sacri” ed inalienabili, della donna. Il fondamento della differenza di trattamento tra uomo e donna, tradizionalmente individuato in una pretesa di inferiorità naturale della donna inizia così ad essere contestato e a vacillare.

L’ideale che accomuna tutto il primo secolo del pensiero volto ad emancipare il ruolo della donna è quello dell’uguaglianza.

Tanto il femminismo, quanto il femminismo marxista e socialista, sottolineavano l’esigenza di prescindere dal dato sessuale nell’impostazione dei rapporti tra persone, affermando che uomini e donne devono essere trattati in modo eguale sotto ogni profilo.

Il percorso di riconoscimento della dignità femminile, considerato come una vera e propria liberazione della schiavitù imposta, dal potere maschile viene individuato nel riconoscimento alla donna degli stessi diritti e doveri degli uomini. La differenza sessuale deve essere, in questa prospettiva, considerata totalmente irrilevante, cosi assicurando alla donna la medesima possibilità di sviluppo della personalità nella sfera pubblica che storicamente veniva riservato all’uomo, limitando l’importanza della figura femminile al solo lato fisico.

2. Le differenze di approccio tra Europa e Stati Uniti

Nella problematica della “dignità della donna”, si coglie quel che è stato definito come il Transatlantic divide. Una differenza che prima ancora che su dati normativi poggia su visioni fortemente caratterizzate e distanziate.

Cosi, mentre in Europa, pur in presenza di una molteplicità di approcci, lo sbocco comune è quello di interventi di carattere normativo volti ad affermare, promuovere, vietare, negli Stati Uniti si registra un movimento che si connota per un livello di teorizzazione ma il cui obiettivo solo marginalmente sembra essere quello di provocare modifiche legislative e giurisprudenziali.                                                                                                                               Va in primo luogo sottolineata una distinzione solo all’apparenza terminologica.

Nell’ambito europeo l’espressione “dignità della donna” è emersa come articolazione del più generale principio della dignità umana complessivamente considerata, principio posto al vertice dei sistemi costituzionali post-bellici, anche come risposta alle obiezioni del ventennio precedente e dichiaratamente per evitare che si potessero ripetere le atrocità del periodo del fascismo.

Il principio del rispetto della persona e della sua dignità trova accoglimento a pieno titolo tra i diritti fondamentali dell’uomo, cosi assumendo una valenza densa di valori chiarissimi al di qua dell’oceano, e largamente condivisi fino a trovare spazio dalla Legge Fondamentale tedesca del 1949 al Trattato sull’Unione Europea del 2007.

Nell’esperienza statunitense il termine omologo (“dignity”) per un verso non ha affatto un contenuto assiologico comparabile, per l’altro lo si rinviene soprattutto in documenti internazionalistici ma non con riferimento all’ordinamento interno.

Se dunque in Europa i termini “dignità” e “dignità della donna” assurgono a principi fondamentali di pregnanza anche giuridica, negli Stati Uniti essi sono assenti nel pur lungo catalogo che si rinviene nella sua Costituzione, nei suoi ricchi emendamenti e nell’ancor più copiosa giurisprudenza della Corte Suprema. La differenza linguistica d’oltre Oceano costituisce l’epifania di un più generale approccio statunitense volto a de-costruire le istituzioni sociali “maschiliste” che perpetuano discriminazione e oppressione. Si tratta di un movimento culturale ed intellettuale imponente che ha generato centinaia di volumi ed una ventina di periodici che sono specificatamente ed espressamente dedicati al “genere” sia con riferimento alle donne e al femminismo, che all’orientamento sessuale non tradizionale. La differenza è principalmente normativa: mentre in Europa  la tutela della dignità della donna costituisce, un valore preminente rispetto al quale diritti  e libertà sono recessivi o compressi, nel sistema statunitense l’espansione del primo Emendamento alla Costituzione – che è eretto a tutela della libertà di parola e di stampa – impedisce  un’analoga espansione della protezione della donna in quanto essa è necessariamente soccombente nei processi comunicativi i quali rientrano pienamente  nella sfera di assoluta libertà.

3. I documenti di rilievo internazionale ed europeo

Sotto il profilo internazionale sono numerosi i documenti di rilievo internazionale – provenienti specialmente dall’ONU e dagli organi comunitari – che, nel corso della storia e con successivi sempre crescenti livelli di dettaglio, affermano il valore della persona anche in rapporto agli individui dell’altro sesso. La Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite approvata per acclamazione a San Francisco il 26 giugno 1945, in primis, riafferma la fiducia nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, e così, analogamente, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1948, che proclama: “tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”.

Riguardo i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario, il valore della dignità della persona, e della donna, viene affermato dalla Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei diritti civili. L’istanza di affermare con fermezza e nel dettaglio l’esigenza di tutela della donna si manifesta tuttavia maggiormente, verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando, nel 1979, viene emanata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Dato il momento storico nel quale è stata emanata, tale Convenzione sembra rappresentare il pensiero femminista della prima epoca. Essa incita gli stati firmatari alla repressione di tutte le forme di tratta delle donne e di prostituzione femminile ed assicura la libertà nelle scelte sessuali e sociali rispetto all’uomo. Numerosi sono poi gli ulteriori atti a firma dell’ONU che si sono susseguiti in materia, al fine di regolamentare alcuni aspetti specifici, e che sembrano rappresentare più che una normativa di equiparazione della donna all’uomo, l’adozione di provvedimenti normativi “per” le donne, nascenti dalle istanze di tutela differenziata della donna, che venivano a quel punto storicamente percepite con maggior vigore. Tra i principali si ricorda la Convenzione ONU sui diritti politici delle donne entrata in vigore nel 1954. Di indubbia rilevanza è inoltre, in ambito internazionale, la Conferenza mondiale sulle donne svoltasi a Pechino del 1995, che ha evidenziato l’importanza di disporre misure specifiche sulle tematiche di genere. All’esito della Conferenza è stata predisposta la Piattaforma di Pechino. Quest’ultima focalizza l’attenzione sui diritti delle donne e persegue la finalità di riconsiderare le relazioni tra uomini e donne all’interno della società, mettendole su un piano di parità sotto ogni aspetto dell’esistenza dei soggetti, e riconoscendo i diritti delle donne come diritti umani a tutti gli effetti. L’obiettivo di raggiungere la parità di genere viene assunto tra quelli prioritari dalla risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 settembre 2015, laddove viene programmata l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Nel programmare il futuro ambito di Azione, l’ONU incentra i propri obiettivi sul rispetto universale per i diritti dell’uomo e della donna e della sua dignità in un mondo in cui “ogni donna può godere di una totale uguaglianza di genere e in cui tutte le barriere dell’emancipazione vengano abbattute”. La circostanza che le donne siano, ancora una volta, inserite tra le categorie deboli, fa sì che siano considerate come soggetti che in qualche modo richiedono protezione, e necessitano della predisposizione di misure particolari per la piena realizzazione dei propri diritti.

Anche in ambito europeo sono stati frequenti gli interventi, sia a livello normativo che giurisprudenziale. I provvedimenti adottati sono stati volti inizialmente a promuovere la parificazione tra uomo e donna, e successivamente ad enfatizzare anche sotto il profilo della tutela le differenze che intercorrono tra sessi, nel tentativo di assicurare un maggior grado di emancipazione femminile.

Il primo atto normativo fondamentale in materia si riviene già nel Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea, sia pure in misura strumentale alla realizzazione delle libertà fondamentali.

Emerge il profilo economico della parità dichiarata, che racchiude in sé il germe della parità sociale.

Nella prima fase, quindi, il principio di uguaglianza tra uomini e donne venne preso in considerazione, normativamente, in quanto connesso alla parità in ambito laburistico. Successivamente, nei decenni che seguirono, tale principio, subì una netta evoluzione e assunse una portata più ampia, coinvolgendo ogni aspetto della vita della donna.

Nel corso degli anni Novanta gli eventi che incidono significativamente, sotto il profilo giuridico, sono gli accordi di Maastricht del 1992 ed il Trattato di Amsterdam del 1997, mediante i quali il raggiungimento della parità di trattamento e la realizzazione del principio di eguaglianza divengono un obiettivo fondamentale della Comunità Europea.

In alcuni provvedimenti, poi, vengono esaltate le differenze che connotano la donna approntando tutele specifiche per la differente condizione.

Il Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore nel 2009, incorpora la Carta di Nizza rendendola pienamente vincolante.

La posizione della donna, così, viene resa ulteriormente oggetto di particolare tutela, in quanto soggetto appartenente a un “gruppo” meritevole di una specifica protezione proprio in quanto per secoli trattato come un soggetto meno capace di quelli appartenenti al sesso opposto.

Le categorie discriminate, in questo modo, divengono categorie in qualche misura privilegiate.

Di portata molto ampia è la Convenzione di Istambul, che viene emanata nel 2001 a seguito di molti atti normativi volti a preservare le donne dagli atti di violenza di cui sono frequentemente vittime. Essa pone l’accento sull’esigenza di modificare i comportamenti sociali e culturali delle persone al fine di eliminare i pregiudizi che devono la donna rappresentata, trattata e considerata come inferiore all’uomo.

La Convenzione di Istanbul rileva altresì l’importanza dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione di un’immagine della donna rispettosa della sua dignità, nella proposizione di un modello di donna non stereotipato. Tra le varie misure di prevenzione e gestione della violenza di genere  che la Convenzione prevede, si prescrive l’istituzione di un organo di controllo, il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, con lo specifico compito di valutare le relazioni inviate dagli stati aderenti in merito al lavoro svolto per l’eliminazione della violenza contro le donne, emanare raccomandazioni di carattere generale ed infine predisporre il proprio rapporto e le proprie conclusioni inerenti le misure adottate in materia dai singoli stati.

L’istituzione di un organismo di controllo di tale tipologia, che dialoghi con le istituzioni europee e con gli stati aderenti al fine di garantire una efficace attuazione della convenzione, appare un meccanismo di tutela molto opportuno per tenere alta la soglia di attenzione sulla problematica della lotta contro la discriminazione di genere.

4. La dignità della donna sul web: i pericoli

Sicuramente l’insieme delle comunicazioni, attive e passive, veicolate ed accessibili attraverso le reti pubbliche di comunicazioni elettronica costituisce una parte integrante e dominante delle società contemporanee. In particolare, la circostanza che per la prima volta nella storia dell’umanità centinaia di milioni, se non miliardi, di persone possano comunicare tra di loro, acquisendo informazioni, creandole, scambiandole, dando vita ad un mondo in larga parte riproduttivo di quello materiale, ma da esso ben distinto, costituisce un elemento di novità le cui implicazioni sono ancora da comprendere nelle loro molteplici sfaccettature. Ciò che è indiscutibile è che il controllo dei messaggi veicolati attraverso la rete non può essere assoggettato a un controllo analogo, né a una regolamentazione simile a quella prevista per il mezzo televisivo. Le caratteristiche della Rete sono infatti, in sé, strutturalmente differenti. Da un lato la Rete presenta innegabili profili di intrinseca democraticità, in quanto chiunque, con mezzi economici tecnologici e culturali può accedervi, e quindi senza un preliminare controllo di adeguatezza. Allo stesso tempo, l’esercizio quotidiano di questa straordinaria libertà pone problemi comuni a tutte le società democratiche contemporanee, vale a dire l’equilibrio tra i diritti e le libertà individuali, e gli interessi pubblici e collettivi.               Le problematiche della “dignità della donna” sulla Rete non sono isolate dalle costrizioni che il mondo digitale porta con sé. La Rete viene utilizzata come potente e amplificato strumento di offesa della “dignità della donna”, a partire dalla diffusione di foto intime.

In ciò possono essere colti una serie di caratteri.

In primo luogo, la Rete continua a mantenere lo stampo del contesto socio-giuridico in cui è nata. Infatti, il Primo Emendamento alla Costituzione Americana, paralizza ogni tentativo di controllare quanto su di essa viene trasmesso. In tale quadro nessun peso hanno situazioni giuridiche contrapposte quali la reputazione, l’identità e ovviamente, la dignità. La risposta europea, pur non accogliendo in tutto l’impostazione statunitense, tuttavia presenta numerosi profili similari.

5. Movimento femminista in Italia, dignità e prostituzione

La nascita di un vero e proprio movimento femminista, nel XVIII secolo, è difficilmente ricostruibile perché consta di una pluralità di associazioni, a loro volta discordanti. Il femminismo italiano si caratterizza inizialmente alla stregua di un “movimento riflesso”: la sua nascita, e iniziale diffusione, è legata anche a personalità di spicco non italiane come Anna Kuliscioff, ungherese, Jessie White Mario e Giorgina Crawford Saffi, inglesi, che avevano sposati italiani illustri e vivevano in Italia. Queste donne, grazie ai loro contatti all’estero, particolarmente in Inghilterra, alimentarono un innovativo modo di pensare la donna già dilagante nel resto d’Europa. L’esigenza di cambiamento si rifletteva soprattutto nell’ambito del riconoscimento dei diritti civili per donne. Le rappresentanti femminili, adoperatesi fin dai lavori preparatosi del nuovo Stato, videro disattese le loro aspettative con l’emanazione del Codice Pisanelli del 1865 che manteneva la subordinazione della donna al marito. Numerose le battaglie perseguite per l’ottenimento di diritti “sacri”: il voto, il divorzio, l’istruzione, il lavoro e parità di salario. Nei primi anni dell’unificazione vi erano delle femministe italiane ma a mancare era un vero e proprio movimento organizzato; una prima forma associativa autonoma, la Lega per la promozione dei diritti delle donne, nacque nel 1881 per opera di Anna Maria Mozzoni. Il vero movimento femminista nascerà solo verso gli anni Novanta del secolo. Tra le cause che portarono alla formazione di tale movimento in Italia in un secondo tempo rispetto ad altri Paesi, si rilevano soprattutto la situazione di arretratezza sociale e la difficoltà di mutare una mentalità popolare ancorata ad un’idea conservatrice della famiglia patriarcale, che rifletteva il ruolo inferiore della donna nella società.

La maggior parte della popolazione femminile infatti si divideva tra le attività domestiche e il lavoro fuori casa; questo spiega perché il movimento nacque in una cerchia ristretta di donne culturalmente preparate e appartenenti alla classe borghese.  La posizione delle femministe si poneva in netta contrapposizione con un modello di diritto assodato negli anni, che era storicamente costruito sulle esperienze ed esigenze maschili.

Di conseguenza, l’insieme dei diritti delle donne era formulato sulla base delle percezioni che gli uomini avevano delle donne: ne usciva fuori un ritratto della donna come entità inferiore, sul piano giuridico, ma anche intellettualmente e biologicamente.   Il femminismo, fin dalla sua fase non organizzata, contrastava una simile versione della donna e ne riaffermava la parità sociale e giuridica, rivendicando diritti e riconoscimenti sociali.

Il dibattito sulla “questione femminile” italiana si lega così alle importanti figure di Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni, entrambe unite sul fronte della difesa dei diritti delle donne ma divise nel concepire la medesima lotta. La prima, esponente rilevante del Partito Socialista, perseguiva i fini di miglioramento della condizione femminile in modo più circoscritto rispetto alla Mozzoni, la quale auspicava la formazione di un’associazione che comprendesse tutte le donne, incluse quelle delle classi proletarie (fatto inaccettabile per i socialisti!).

Il personaggio della Kuliscioff permette di comprendere l’instabile relazione tra socialismo e femminismo: l’attività volta al miglioramento delle condizioni lavorative delle donne, ad esempio, era per i socialisti, sì tesa a rendere più sostenibile la condizione femminile ma si inseriva nel più ampio disegno della tutela di tutta la classe lavoratrice.      Un altro campo si rilevò più accesa la contrapposizione tra femminismo e socialismo fu quello del suffragio universale, interpretato dalla Kuliscioff come diritto di voto esteso a tutte le donne anche se non attive nella vita politica del Paese, mentre il partito era orientato verso una concessione graduale, distinguendo tra analfabete e alfabete.  La posizione intransigente del partito non era ben chiara alla Kuliscioff, la quale non comprendeva l’accesa ostilità mostrati nei confronti delle femministe; questo la portò a rivedere ciò che la Mozzoni già affermava riguardo a un femminismo che doveva espandersi oltre l’ideologia borghese, perché era implicitamente richiesto da una società in mutamento come quella italiana.

Anna Maria Mozzoni, descritta come “la più acuta agitatrice della questione femminile, colei che vide il problema più a fondo, e che lo impostò con maggior appropriatezza”, si pone, nel dibattito femminile, come figura speculare alla Kuliscioff poiché sosteneva la necessità di un associazionismo femminile a livello interclassista. La Mozzoni affermava che le disparità di genere andassero oltre le differenze di ceto; la donna andava tutelata in quanto “donna lavoratrice”. La volontà, presentata come esigenza, di coinvolgere nelle rivendicazioni femministe gli strati sociali più bassi è confermata anche nell’importante indagine della Mozzoni “Sulla prostituzione in Italia”; in questo lavoro è messo in luce uno degli aspetti più significative della condizione femminile consistente nel fatto che la maggior parte delle donne che si prostituivano erano contadine.

La Mozzoni era anche consapevole che la lotta per l’affermazione dei diritti delle donne era maggiormente facilitata se unita alla lotta per i diritti dei lavoratori, sebbene rischiasse di non proseguire di pari passo: la lotta delle donne era diretta alla loro affermazione come persone, ancor prima che come lavoratrici. L’accesso alle funzioni sociali, la possibilità di affermarsi nel campo produttivo al pari dell’uomo, anche in termini retributivi, si sarebbe rivelato funzionale anche alla diminuzione della prostituzione. Tuttavia, la posizione della Mozzoni non tratta la questione femminile esclusivamente in chiave economica (al contrario dei socialisti). Il femminismo italiano non trovò nel partito socialista un alleato valido per il perseguimento delle rivendicazioni femministe, a discapito che condizioni femminili che tardarono a progredire. Nonostante i socialisti riconoscessero la donna come “naturalmente pari all’uomo”, affrontavano la questione in modo superficiale.  Con il nuovo secolo la situazione non migliorò: l’esclusione delle donne dall’elettorato, ad opera della riforma di Giolitti nel 1912, è un dato significativo che mette in luce la debolezza del movimento femminista, ma ciò non impedì alle donne di lottare per il riconoscimento dei loro diritti civili e giuridici ma soprattutto per affermarsi in posizione paritaria all’uomo nel campo sociale e occupazionale. La questione femminile sollevata nel XIX secolo, volta all’affermazione della donna in maniera paritaria all’uomo e perciò degna di dei medesimi diritti, si pone in netta contrapposizione all’ideologia positiva che in quel periodo si stava diffondendo in Italia.  Secondo tale concezione la donna era nettamente inferiore all’uomo sia biologicamente che intellettualmente e di conseguenza ogni rivendicazione in materia di diritti non trovava alcuna giustificazione; il movimento femminista rispose con critiche ferme alle affermazioni da questa sostenute, reputandole prive di valide basi scientifiche e fondate per la maggior parte su antichi pregiudizi.

Tuttavia, prive del diritto di voto e della possibilità di presiedere in Parlamento con cariche tali da poter influire su leggi in loro favore, era difficoltoso controbattere alle critiche.  Nonostante ciò, alcune femministe borghesi confutarono le proprie affermazioni positive con prove di spessore scientifico: l’inferiorità delle donne non poteva essere ridotta ai soli caratteri biologici in quanto il contesto sociale ricopriva un ruolo determinante nello sviluppo personale di ogni donna. Il dibattito aveva una portata tale da alimentare numerose pagine di scritti femministi e non solo.  Tra le posizioni delle femministe socialiste non vi era piena omogeneità; sul tema dei diritti civili, invece, vi erano posizioni divergenti tra gli stessi oppositori. Sebbene l’opinione preponderante ritenesse la donna inferiore all’uomo, vi era chi le riconosceva diritti “equivalenti” a quelli della controparte maschile. Riconoscere diritti equivalenti significava accordare alle donne diritti conformi alla loro personalità.  Le femministe riponevano speranze negli atteggiamenti più illuminati, fiduciose dell’influenza socialista su molti positivisti.

Più tardi, l’attenzione delle femministe si posò sulla regolamentazione della prostituzione, ritendendo il trattamento conferito alla donna di pressante controllo sociale poiché riduceva le prostitute a cittadine di seconda classe. La lotta all’emancipazione femminile si scontrava con un sistema legalizzato e difeso dalle ideologie positiviste.

La regolamentazione della prostituzione, fin dai primi momenti della sua istituzione, suscitò numerose reazioni di dissenso.  Gli aspetti maggiormente attaccati dalle femministe attenevano invece alla dignità della donna, totalmente demolita nel momento in cui questa veniva registrata come prostituta nelle liste di polizia: il movimento femminista accusava lo Stato di sostenere la prostituzione con la giustificazione, vana, della sua necessità quale “male minore”, mentre in realtà non era altro che un ulteriore modo per sottoporre un gruppo di donne ad una forma di schiavitù.

Tra le italiane più attive nella lotta alla prostituzione regolamentata, vi fu, senza dubbio, Anna Maria Mozzoni, la quale sostenne che una delle cause principali della prostituzione fosse l’inopportuna condizione lavorativa e sociale che assoggettava la donna in una posizione arretrata rispetto all’uomo e per questo più soggetta alla necessità economica.  La Mozzoni riteneva che un miglioramento delle condizioni occupazionali ed economiche avrebbe comportato una diminuzione della prostituzione. L’attacco più violento venne sferrato nei confronti del regolamento allora vigente, palesemente inefficace, tale da ignorare la reale situazione.  Il Regolamento si presentava come una “misura parziale” che nella società si traduceva in “un sistema di arbitri vessatori e uggiose violenze dirette ad un obiettivo che sfugge continuamente”.  Come la Mozzoni anche altre si schierarono apertamente contro il sistema, tra i nomi più rilevanti si ricorda Sara Nathan, Giorgina Crawford Saffi, Alaide Gualberda Beccari e Jessie White Mario; ad esse si unirono anche esponenti dei movimenti femminili di Inghilterra e Irlanda.  I toni usati da Jessie Mario, che non era una femminista servente come la Mozzoni, definì la regolamentazione un delitto messo in atto con “leggi ideate e formulate da soli uomini tali da soddisfare i più brutali istinti dell’uomo”. Per la Mozzoni, la regolamentazione doveva avvenire in modo cosciente iniziando dal riconoscimento delle sue cause.

Quest’ultima reputava la regolamentazione una misura tale da privare la prostituta della sua dignità, definendola “indegna schiavitù”, poiché il sistema trattava quelle donne alla stregua degli schiavi.  Con la sua forte personalità, la Mozzoni riuscì a influenzare anche uomini politici tra i quali il deputato Salvatore Morelli, il quale propose, invano, al Parlamento la chiusura dei sifilicomi fin dal 1868, ritenendoli un’istituzione utile solo ad aumentare le entrate statali e tali da recare un’offesa alla dignità “non solo della donna ma anche del paese”. Il Parlamento giustificò le tasse derivanti dalla prostituzione ai fini della sicurezza pubblica. Quello della sicurezza, tuttavia, era un altro aspetto che le abolizioniste attaccavano criticando il modo in cui essa veniva perseguita: la gestione della prostituzione era affidata alla polizia dei costumi la quale avrebbe dovuto riservare il suo intervento ai casi in cui la sicurezza e la decenza pubblica sarebbero state messe in pericolo. La Mozzoni dichiarava pubblicamente l’abuso che veniva fatto di tale potere da parte della polizia.  Il sistema presentato come mezzo di profilassi sanitaria si traduceva nella pratica in un controllo sanitario illimitato, che sottoponeva le donne ad un trattamento discriminatorio; da una simile constatazione si desumeva una conferma della subordinazione femminile e una vasta discrezionalità impiegata dagli agenti di polizia nell’applicazione del regolamento. La libertà, l’onore e la dignità di una donna erano “esposte al giudizio di un basso funzionario”.  La regolamentazione, quindi, comportava alle donne un maggior disonore più che la prostituzione in sé. L’intensità della protesta femminista si andò sempre di più a consolidarsi e venne sostenuta anche da esponenti dell’opposizione al governo che chiedevano la revisione del regolamento e da membri della classe proletaria riuniti in società operaie.  Il movimento abolizionista arrivò, nel settembre del 1877, a riunirsi a Ginevra per il primo congresso internazionale contro la prostituzione cui aderirono numerosi partecipanti da tutta l’Europa.

L’affluenza elevata può essere ricondotta alla risonanza delle conferenze che la Butler aveva tenuto in varie città, a partire dal 1874, per sensibilizzare il problema della prostituzione regolamentata.  Il congresso affrontò la questione della regolamentazione attraverso un approccio plurimo tale da valutare qualsiasi aspetto, dall’etico al medico, passando per quello giuridico, ma non trascurando nemmeno l’aspetto assistenziale e socioeconomico. Uno degli aspetti criticati, fin dalle prime battute del congresso, era l’insensata gestione delle visite mediche. La prostituzione era una piaga che riguardava tutti, sebbene colpisse maggiormente la classe popolare; era per le donne più povere una necessità di sopravvivenza che però il regolamento trasformava in una condizione permanente.

Dai dibattiti emerse la necessità di coinvolgere le donne in misura maggiore. Gli esiti del congresso furono senza dubbio positivi. Tra i risultati più brillanti si ricorda l’istituzione, da parte di Anna Maria Mozzoni, di un movimento comune che riunisse tutte le associazioni femminili a tre anni di distanza dalla fondazione della Lega promotrice degli interessi femminili. La Mozzoni proseguì instancabile negli anni la sua campagna di emancipazione attraverso comizi e conferenze; il movimento raggiunse parte dei suoi obiettivi già dal 1888, con il Regolamento Crispi e la riforma sanitaria.


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Dott.ssa Luana Leo

La dottoressa Luana Leo è dottoranda di ricerca in "Teoria generale del processo" presso l'Università LUM Jean Monnet. È cultrice di Diritto pubblico generale e Diritto costituzionale nell'Università del Salento. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso il medesimo ateneo discutendo una tesi in Diritto Processuale Civile dal titolo ”Famiglie al collasso: nuovi approcci alla gestione della crisi coniugale”. È co-autrice dell'opera "Il Presidente di tutti". Ha compiuto un percorso di perfezionamento in Diritto costituzionale presso l´Università di Firenze. Ha preso parte al Congresso annuale DPCE con una relazione intitolata ”La scalata delle ordinanze sindacali ”. Ha presentato una relazione intitolata ”La crisi del costituzionalismo italiano. Verso il tramonto?” al Global Summit ”The International Forum on the Future of Constitutionalism”. È stata borsista del Corso di Alta Formazione in Diritto costituzionale 2020 (“Tutela dell’ambiente: diritti e politiche”) presso l´Università del Piemonte Orientale. È autore di molteplici pubblicazioni sulle più importanti riviste scientifiche in materia. Si occupa principalmente di tematiche legate alla sfera familiare, ai diritti fondamentali, alle dinamiche istituzionali, al meretricio, alla figura della donna e dello straniero.

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