La frode alla legge e il negozio indiretto

La frode alla legge e il negozio indiretto

L’ordinamento riconosce alle parti la libertà di porre in essere regolamenti negoziali attuativi di interessi personali meritevoli di tutela, ove non confliggenti con lo stesso.

Tale autonomia viene espressamente riconosciuta nell’art. 1322 c.c., che al comma secondo, amplia gli atti di autoregolamento privatistici attraverso la previsione di negozi atipici, le parti possono concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

L’atipicità deve essere riferita non solo allo strumento contrattuale, ma in base al richiamo contenuto nell’art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.

A fronte di un ampliamento della autonomia dei privati dal punto di vista astratto, con conseguente ammissibilità di negozi atipici, che perseguano interessi egoistici e individuali, non espressamente vietati dalla legge, emerge il problema del controllo concreto sul contenuto del singolo negozio posto in essere.

Ciò è tanto più vero alla luce della nuova nozione di causa del contratto.

Essa da iniziale funzione sociale e astratta del negozio è diventata scopo economico-individuale, finalità concretamente perseguibile attraverso lo strumento negoziale dalle stesse parti.

Il codice civile del 1942, risentendo dell’impostazione fascista, aveva previsto che la causa fosse tipica, individuata direttamente dalla legge per ogni categoria negoziale, coerentemente con il fine che doveva perseguire, l’utilità sociale, ex art. 41 Cost..

Atteso lo scopo ultrasoggettivo, l’attività economica privata doveva essere indirizzata e coordinata a fini sociali, la causa non poteva che essere uguale per tutti i tipi negozi appartenenti alla categoria prefissata dall’ordinamento.

Nella tipizzazione dello strumento contrattuale, il legislatore automaticamente tipizzava la causa che diveniva strumento diretto di controllo della autonomia negoziale.

Con la previsione di negozi atipici, espressione del potere di autoregolazione delle parti, che sono non più solo coloro che subiscono gli effetti del regolamento, ma anche coloro i quali fissano la norma, la causa non può più avere come scopo quello della utilità sociale, ma diviene variabile e atipica, avendo come fine la ragione concreta sottesa alla dinamica negoziale.

Essa non può che rappresentare la concreta finalità che le parti con quel programma posto in essere mirano ad attuare e l’individuazione dello scopo concretamente perseguito non può che essere rimesso ai singoli e non più alla legge.

La causa non più astratta acquista una dimensione concreta e dinamica, varia necessariamente a seconda del singolo contratto, essendo il risultato del perseguimento di specifici interessi individuali.

Se ne deduce che, anche se il contratto appartiene allo schema tipico che il legislatore ha dettato per quella categoria negoziale, la causa dello stesso non può che differenziarsi da altro regolamento appartenente alla medesima tipologia contrattuale, in funzione dell’interesse di volta in volta perseguito concretamente dai contraenti.

La causa diviene, pertanto, non solo atipica, ma, come esposto, anche variabile.

L’attenzione si focalizza sulla ‘ragione concreta della dinamica contrattuale’, la giustificazione egoistica del contratto, distinguendosi peraltro dal motivo, che rappresenta il mero scopo che spinge il soggetto a stipulare il negozio, e divenendo oggettiva si atteggia a requisito funzionale dell’atto, elemento della struttura del rapporto.

Va peraltro specificato, come già accennato, che nella veste di requisito funzionale la causa possiede un profilo dinamico, atteso che il venir meno dello scopo perseguito dalle parti attraverso lo strumento negoziale, e cioè dell’interesse del creditore, estingue il rapporto obbligatorio, non per impossibilità sopravvenuta della prestazione, che astrattamente potrebbe rimanere eseguibile, in toto o parzialmente, ma per impossibilità sopravvenuta dell’utilizzazione della stessa.

Ciò che viene meno e rende non più utilizzabile la prestazione per il perseguimento dello scopo voluto dal creditore attraverso la stipulazione del programma contrattuale

è proprio la causa concreta, il motivo individuale, l’operazione economica sottesa al negozio.

Pertanto, la causa qualifica il contratto, corrispondendo ” ad un interesse, anche non patrimoniale” del creditore, ex art. 1174 c.c., che lo ha originariamente determinato alla stipulazione del programma contrattuale e rilevano tutti gli eventi sopravvenuti che alterino la finalità concreta realizzabile attraverso il negozio, tanto che, venendo meno la causa, l’obbligazione si estingue.

Essa diviene l’essenza del negozio, essendo il nostro ordinamento un ordinamento causale che non ammette spostamenti patrimoniali privi di giustificazione, sulla base del divieto di arricchimento senza causa, ex art. 2041 c.c., ed essendo quella della causalità una regola inderogabile.

Neppure il legislatore fissa eccezioni in tal senso, prevedendo nella generalità dei casi, per i contratti tipici, la presunzione di causa e nelle ipotesi di cosiddetta astrazione, fissa solo temperamenti processuali al principio causale.

Invero, a volte prevede meri esoneri dal punto di vista probatorio, come per il caso del riconoscimento del debito, per il quale si dispensa il creditore dalla prova del credito che si presume esistente, astrazione processuale, o in altri casi in cui si parla di rilevanza ritardata della causa che è comunque presente, l’ordinamento richiede la causa come necessaria, ma neutralizza l’effetto prodotto, configurando una astrazione sostanziale di tipo relativo.

E’ il caso della fideiussione con clausola ‘solve et repete’, con la quale il garante si obbliga a non far valere le eccezioni relative al rapporto sottostante prima di aver adempiuto l’obbligazione assunta, la causa è sussistente e ad essere invertito è solo il rapporto tra adempimento e contestazione.

Se così è, la causa è sempre oggetto del contratto e non può che essere sottoposta ad un controllo giurisdizionale, anche al fine di delimitare l’ampiezza che viene riconosciuta alla autonomia privata, atteso che, sulla base di quanto premesso, la libertà negoziale è divenuta la regola e il divieto di conclusione di alcune tipologie di negozi l’eccezione.

A volte la libertà negoziale incontra limiti connessi ad un controllo sulla proporzionalità e adeguatezza dello scambio, all’interno del quale il giudice è chiamato a verificare se la causa concretamente perseguita dagli stipulanti sia adeguata e giusta.

Tale limite opera soprattutto nei contratti asimmetrici, sulla base di quanto elaborato dalla giurisprudenza prevalente, poiché la posizione non paritaria delle parti, impone un intervento di supplenza del giudice, per la tutela del contraente debole, al fine di evitare approfittamenti nella fase della trattativa.

In tali casi, l’ingiustizia è, pertanto, più che sostanziale, procedurale.

I limiti possono essere, altresì, di ordine convenzionale, nell’ambito dei quali sono le stesse parti a stabilire nel perseguimento di quel concreto scopo sotteso al negozio, la necessità di scelta di una particolare tipologia di controparte contrattuale, come succede nella prelazione.

E ancora, si possono avere limiti modali, atteso che la causa deve essere oggetto di verifica giurisdizionale anche dal punto di vista del concreto esercizio del diritto, delle modalità con le quali la parte utilizza il potere riconosciutole dall’ordinamento.

La sanzionabilità in suddette ipotesi è riferita pertanto all’utilizzo di strumenti abusivi, eccedenti i criteri fissati dal principio solidaristico di reciprocità e di buona fede ricavabile dall’art. 2 Cost..

Ma, ai fini della presente trattazione, ciò che rileva, con riguardo all’ampia libertà negoziale riconosciuta ai paciscenti, è il rapporto tra i limiti legali e quelli cosiddetti causali.

L’autonomia delle parti nel decidere la causa del negozio non può essere assoluta, ma deve sottostare a limiti che derivano dalla legge, è una libertà relativa.

L’art. 1322 comma 2 c.c. stabilisce, infatti, che gli interessi meritevoli di tutela che i contraenti perseguono devono essere tali secondo l’ordinamento giuridico.

La precisazione, seppure inclusa nell’ambito della previsione dei contratti atipici, è espressione di un principio generale che riguarda, come accennato, attraverso il collegamento con l’art. 1324 c.c., anche i negozi unilaterali.

La norma deve essere letta in combinato disposto con l’art. 1343 c.c., il quale sancisce la nullità della causa, quando la stessa è contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume.

La nozione che pertanto rileva ai fini di stabilire il concetto di “frode alla legge” è proprio quella di contrarietà a norma imperativa, espressione di un limite legale.

La violazione di una norma imperativa rappresenta l’espressa contrarietà del programma contrattuale posto in essere dalle parti ad una esplicita disposizione di legge e produce la nullità del negozio.

La Cassazione ha avuto modo al riguardo di precisare che, affinchè si abbia contrarietà ad una norma imperativa essa non deve limitarsi a fissare un comportamento, ma deve stabilire una regola “attizia” che riguardi il contratto in sé, dal punto di vista contenutistico o soggettivo, e non il mero procedimento di formazione dello stesso.

In tali casi, la nullità del negozio è prevista a prescindere dal fatto che la sanzione sia espressamente comminata, vigendo il principio nel nostro ordinamento della nullità virtuale ex art. 1418 comma 1 c.c, il contratto è nullo se è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga altrimenti.

Il legislatore presuppone in siffatte ipotesi una nullità automatica.

Tale illiceità è diretta, perché le parti espressamente prevedono che la causa, come requisito del contratto, sia ictu oculi confliggente con l’ordinamento giuridico.

Ci sono, tuttavia, casi nell’ambito dei quali, l’ampiezza della libertà concessa alle parti, espressione del citato comma 2 dell’art. 1322 c.c., potrebbe spingersi fino alla previsione di una causa del negozio giuridico che astrattamente considerata appaia lecita, ma che ad una più attenta analisi ” si reputa illecita, perché costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa“, ex art. 1344 c.c..

Il legislatore, con la disposizione ex art. 1344 c.c., detta una norma che costituisce una valvola di sicurezza, introducendo la possibilità di comminare una nullità nel caso in cui il concreto risultato delle parti confligga con un divieto di legge, ad onta della liceità astratta del mezzo utilizzato.

La causa non è allora illecita, perché accedendo ad un contratto che potrebbe essere tipico è posta e prevista dall’ordinamento, ma “si reputa” tale in chiave di un controllo funzionale della stessa.

Si parla al riguardo di illiceità indiretta della causa concreta e di negozio indiretto, utilizzato dalle parti per il perseguimento di uno scopo contrario ad una norma imperativa.

Il potere di autoregolazione dei paciscenti è, pertanto, in tali casi non solo perimetrato dal limite legale, ma anche da quello causale, con la conseguenza che il giudice è chiamato a effettuare un controllo sulla causa intesa come funzione concreta economico-individuale perseguita dalle parti.

A tal fine la giurisprudenza ha avuto modo di affermare, in specifico riferimento all’istituto del divieto del patto commissorio, previsto da una norma imperativa, l’ art. 2744 c.c., un generale divieto di “risultato”, al fine di scongiurare il pericolo di aggirare la disposizione.

La Cassazione facendo ricorso all’art. 1344 c.c., fa derivare la nullità di tutti gli accordi tra le parti, in grado di produrre un risultato simile a quello vietato dal patto commissorio, trasferimento della proprietà del bene dato in pegno o ipoteca all’inadempimento del debitore, dalla nullità della causa del contratto.

Ove infatti il contratto costituisca il mezzo per eludere l’applicazione di norme imperative, come quella ex art. 2744 c.c., esso si presume in frode alla legge, in base all’ art. 1344 c.c., perché avente causa illecita.

La causa è il trasferimento del bene dato in pegno o in ipoteca a scopo di garanzia e nel nostro ordinamento non sono ammessi trasferimenti della proprietà senza giusta causa, ex art. 2041 c.c..

Partendo da tale premessa, la Cassazione ha esteso la portata applicativa del divieto del patto, nonostante il dato letterale della norma si riferisca al solo accordo avente ad oggetto il pegno o l’ipoteca, a qualsiasi accordo tra le parti, anche non avente ad oggetto le suddette cause legittime di prelazione, il quale realizzi il medesimo risultato vietato dall’art. 2744 c.c.: il trasferimento della proprietà della cosa data in garanzia in caso di inadempimento del debitore.

Se ne deduce che qualunque patto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del bene a scopo di garanzia, sospensivamente o risolutivamente condizionato all’inadempimento dell’obbligazione da parte del debitore, è accordo in grado di eludere il divieto del patto commissorio, ed essendo in frode alla legge, il legislatore presume abbia causa illecita, idonea ad aggirare il limite ex art. 2744 c.c..

Il presupposto in base al quale la giurisprudenza fonda il ragionamento è il concetto di negozio indiretto, con esso le parti perseguono uno scopo che non è quello tipico e proprio del negozio posto in essere, ma uno addirittura ulteriore o diverso.

Lo schema di quella astratta categoria negoziale, e quindi il tipo, viene utilizzato strumentalmente al fine di pervenire ad un risultato economico difforme da quello tipico del contratto concluso e per di più vietato dalla legge.

Il negozio pertanto è non contra legem ma in fraudem legis, e quest’ultima non è violata direttamente, ma indirettamente attraverso una manovra di aggiramento.

Caso paradigmatico dell’utilizzo di tale categoria integrante ‘frode alla legge’ è rappresentato dal matrimonio contratto al solo scopo di assumere la nazionalità del coniuge, o nell’orbita dei negozi patrimoniali il mandato irrevocabile ad alienare un bene senza rendiconto, che consegue gli stessi risultati di una compravendita, ma presenta la realizzazione di concreti vantaggi in materia fiscale.

I negozi astrattamente hanno causa lecita, appartenendo al tipo previsto dal legislatore, ma nell’analisi della concreta finalità perseguita dalle parti viene in evidenza che gli stessi sono stati posti in essere per realizzare fini vietati dalla legge, e sono quindi idonei ad aggirare i divieti posti dall’ordinamento.

Nella prelazione legale, per esempio, il titolare pone in essere un negozio in frode alla legge ove eserciti la prelazione al solo scopo di acquistare e rivendere il bene per lucrare la differenza di prezzo.

A ciò aggiungasi che, i privati talvolta, al fine di aggirare il divieto imposto, utilizzano anche più negozi collegati tra loro.

E’ il caso del contratto di sale e lease back, in presenza di specifiche condizioni.

Questo è il risultato dell’unione di tre differenti negozi giuridici, il contratto di vendita, sale, quello di ritorno finanziario, lease back, e quello di opzione.

L’alienante trasferisce all’acquirente la proprietà di un bene che rimane nella disponibilità dello stesso alienante a titolo di locazione, verso il pagamento di un corrispettivo.

Alla scadenza del contratto di locazione, il patto di opzione consente all’alienante di tornare nella proprietà del bene con il pagamento di un prezzo finale predeterminato.

Tale contratto, da un lato, viene considerato dalla giurisprudenza lecito, attesa l’importanza dell’interesse meritevole di tutela sotteso allo stesso, il far fronte alla crisi di liquidità delle imprese e la conseguente possibilità per l’impresa di rimanere in possesso del bene appartenente al ciclo produttivo, necessario alla generazione di flussi di cassa; dall’altro, secondo la Cassazione, potrebbe celare un’alienazione a scopo di garanzia risolutivamente condizionata e vietata dal divieto del patto commissorio, perché produttiva di un ingiustificato arricchimento del creditore.

Bisognerà allora valutare caso per caso quando ci si trovi in presenza di indici sintomatici idonei a far presumere la nullità, ex art. 1344 c.c., del contratto per contrasto con l’art. 2744 c.c.: esistenza di un rapporto di debito-credito tra l’alienante e il creditore; la sussistenza di una difficoltà economica del debitore che lo espone al rischio dell’approfittamento del creditore; la sproporzione tra il valore del bene e il prezzo pagato per la vendita.

Il controllo del giudice diventa in tali casi essenziale, al fine di individuare le ipotesi in cui il divieto di arricchimento senza causa posto dall’art. 2041 c.c. si presenta aggirato e la verifica deve essere condotta sulla causa, interpretata come funzione concreta e individuale che le parti perseguono attraverso il negozio.

In tali casi il controllo è sulla proporzionalità, è una verifica di ragionevolezza, la causa deve essere non illecita e adeguata, sicché l’autonomia contrattuale incontra il limite del necessario perseguimento in positivo di interessi personali ragionevoli.

In siffatte ipotesi è importante correlare il profilo causale a quello oggettivo, perché il programma contrattuale potrebbe apparire di per sé ragionevole, ma in concreto la causa potrebbe ravvisarsi inesistente o illiceità, perché idonea ad aggirare scopi vietati dall’ordinamento con la previsione di norme imperative inderogabili.

La causa riguarda l’operazione economica di cui il negozio è lo strumento, ecco perché nel caso di negozi collegati per valutare la ragionevolezza e la liceità della stessa non bisogna valutare il singolo contratto finale, ma tutti i negozi posti in essere progressivamente dai contraenti, poiché la frode alla legge potrebbe ravvisarsi nel complessivo assetto del programma contrattuale, attuato attraverso i differenti negozi indiretti.

Riassumendo, deve evidenziarsi che la nuova nozione di causa del contratto, nel passaggio dalla funzione economico sociale astratta, tipizzata dal legislatore per la categoria negoziale di riferimento, alla funzione economico-individuale concreta, si è atteggiata a causa egoistica, atipica e variabile, che possiede anche una valenza dinamica e funzionale.

Dinamica in quanto evolve con l’intero assetto negoziale e si presenta funzionale al raggiungimento degli interessi individuali perseguiti dalle parti.

Tuttavia la libertà negoziale, che si traduce nella ampia variabilità della causa, deve sottostare a limiti legali e funzionali, atteso che il programma posto in essere dalle parti non deve costituire il mezzo per eludere divieti posti dall’ordinamento con la previsione di norme imperative, pericolo che si concretizzerebbe ogni qual volta la causa in astratto si presentasse come lecita, ma in concreto fosse utilizzata come strumento per frodare la legge.

E’ quanto sovente può accadere con il negozio indiretto, il quale, essendo un negozio tipizzato dal legislatore non può che avere causa lecita, ma la stessa ‘si reputa’ illecita, con conseguente previsione della sanzione della nullità ex art. 1418 c.c., se idonea ad aggirare, a seguito del controllo effettuato dal giudice sul concreto scopo perseguito dalle parti con il negozio giuridico posto in essere, i limiti inderogabili imposti dall’ordinamento.


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