La funzione economico-individuale della causa contrattuale e il Covid-19

La funzione economico-individuale della causa contrattuale e il Covid-19

Le misure restrittive con cui il Governo ha imposto da marzo a maggio 2020 la sospensione della maggior parte delle attività imprenditoriali hanno sollevato numerose problematiche in ambito giuridico, concernenti anzitutto la sorte di diverse tipologie di contratti rimaste ineseguibili, da cui è derivata in molti casi la necessità di adire l’autorità giudiziaria (con conseguente aumento dei carichi gravanti sulla giustizia italiana nei mesi post-lockdown).

Non essendovi alcuna disposizione normativa specifica, la necessità di trovare una soluzione giuridica alle vicende contrattuali sorte durante il periodo più buio della pandemia impone il richiamo dei principi generali in tema di contratti. In particolare, occorre concentrare l’attenzione sui principi relativi alla causa del contratto.

La dimensione della causa del contratto ha subito un incontrovertibile mutamento a seguito di una nota sentenza del 2006 della Corte di Cassazione (Cass. Civ., sentenza n. 10490 del 2006): da tale pronuncia, infatti, è stata recepita nel nostro ordinamento la teoria della causa in concreto – altrimenti conosciuta come teoria economico-individuale della causa contrattuale – che ha affibbiato alla causa del contratto l’accezione di “concreto e dinamico assetto degli interessi in gioco tra le parti”.

La causa è quindi divenuta la matrice che spinge le parti a stipulare il contratto, la ragione pratica del contratto. La causa e lo scopo concreto del contratto si conformano, diventano inscindibili. E’ in questo modo che hanno acquisito assoluta preponderanza i motivi sottesi alla stipulazione del contratto: ora, come si è visto, questi integrano la causa contrattuale, a differenza della fase antecedente alla richiamata pronuncia della Cassazione ove la teoria economico-sociale li considerava irrilevanti, in quanto la legge veniva considerata espressione della funzione tipica del negozio e non delle ragioni pratiche che di volta in volta potevano caratterizzare il contratto.

Il portato applicativo di tale concezione, in primis, consiste nella possibilità di risolvere il contratto qualora gli interessi dei contraenti siano venuti meno durante l’esecuzione dello stesso per ragioni indipendenti dalla loro volontà. Si tratta evidentemente di una deviazione fondamentale rispetto all’originario assetto della causa contrattuale: prima della richiamata pronuncia della Cassazione, infatti, la causa si cristallizzava con la stipulazione del contratto; ne derivava quindi che, nel caso in cui le prestazioni dei contraenti rimanessero astrattamente eseguibili ma venivano meno gli interessi delle parti, il contratto non poteva essere oggetto di risoluzione e doveva comunque essere onorato fino in fondo.

Ora, invece, la causa può venir meno anche in corso d’opera, con conseguente risolubilità del contratto per impossibilità sopravvenuta (artt. 1463 e 1256 c.c.): è infatti questo il rimedio esperibile da chi intenda svincolarsi dal contratto in cui è venuta meno la causa, essendo la nullità circoscritta ai casi in cui la causa difetti ab origine e non successivamente alla conclusione del contratto. Si comprende allora come si sia ampliata l’operatività del rimedio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, esperibile ora anche ai casi in cui le obbligazioni sorte con la sottoscrizione del contratto siano ancora possibili ma risultino invece compromesse le ragioni che hanno spinto le parti a contrarre.

Per fornire un esempio concreto funzionale a comprendere la ricostruzione appena delineata, è certamente opportuno far specifico riferimento alle locazioni ad uso commerciale,  una tipologia di contratto estremamente ricorrente nella realtà nostrana. Con riguardo alla situazione emergenziale, infatti, o contratti di locazione stipulati antecedentemente alle misure di contenimento del contagio hanno subito un’irrimediabile frustrazione della causa. Tuttavia, a ben vedere, le obbligazioni sorte dal contratto rimangono eseguibili nonostante i provvedimenti restrittivi: la corresponsione del canone da parte del conduttore rimane infatti possibile e, del pari, le prestazioni dovute dal locatore rimangono passibili di esecuzione (quali quelle di cui all’art. 1575 c.c. tra cui, tra le altre, il dovere di mantenere la res in modo da servire all’uso convenuto). Ciononostante, la teoria della causa in concreto recepita da ormai quasi quindici anni consente ai contraenti di fruire di rimedi volti alla piena tutela dei propri interessi concreti. È come se l’avvento della nuova concezione della causa contrattuale avesse mutato le fondamenta del contratto di locazione: se prima poteva ricondursi meramente all’obbligo per il locatore di far godere al conduttore un bene dietro corrispettivo, ora viene privilegiata l’effettiva utilizzabilità del bene oggetto del contratto.

Diventa così preminente non tanto l’impossibilità di svolgere la prestazione, bensì la sopravvenuta impossibilità di usufruire di quella della controparte: in poche parole, la prestazione della controparte è diventata inutile, con conseguente venir meno dell’interesse del contraente e possibilità di risolvere il contratto per sopraggiunta mancanza del contratto.

E’ opportuno però ricordare che la risoluzione del contratto non costituisce un rimedio percorribile in caso di impossibilità sopravvenuta avente natura eminentemente temporanea: ai sensi dell’art. 1256, comma II, c.c. infatti, se “il titolo dell’obbligazione o la natura del contratto” non compromettono gli interessi delle parti nonostante il periodo di restrizioni, il contratto non può venire risolto e l’esecuzione dovrà riprendere dopo la fine dell’evento che ne ha determinato l’impossibilità di onorarlo. Il debitore può quindi non esser tenuto ad eseguire la prestazione richiestagli in relazione all’arco temporale pregiudizievole o, in alternativa, come si evince dalle prime pronunce di merito, il canone di locazione può subire una riduzione ai sensi dell’art. 1464 c.c.: si comprende come tale ultima soluzione sia vista con favore dalla giurisprudenza, in quanto costituisce il “male minore” idoneo ad accontentare entrambe le parti.


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