La gestione delle sopravvenienze e l’obbligo di rinegoziazione del contratto

La gestione delle sopravvenienze e l’obbligo di rinegoziazione del contratto

Nei rapporti contrattuali a prestazione periodica, continuativa o differita, il solenne principio pacta sunt servanda può subire delle limitazioni in ragione delle c.d. “sopravvenienze contrattuali”, cioè di circostanze intervenute dopo la stipulazione del contratto o prima della completa esecuzione dello stesso, che determinano a carico della prestazione, inizialmente aderente alla volontà delle parti, una eccessiva onerosità ovvero la rendono inidonea al soddisfacimento degli interessi in vista dei quali era stata convenuta[1].

La necessità di gestire il rischio di un’alterazione dell’equilibrio contrattuale inizialmente concordato dalle parti è fortemente sentita dai contraenti, soprattutto recentemente, tenuto conto del rapido mutamento delle circostanze in cui è stato perfezionato l’accordo[2], dell’assenza di una disciplina comune a livello europeo e dei tempi non brevi della giustizia ordinaria[3].

Tale complicata questione è stata affrontata soprattutto nell’ambito del commercio internazionale, che da alcuni decenni ha inserito all’interno degli accordi transfrontalieri le c.d. hardship clauses; queste clausole sono dirette a disciplinare la rinegoziazione del contratto nel caso di particolari sopravvenienze, spesso individuate dalle parti al momento del perfezionamento del negozio[4]. Gli operatori economici, infatti, hanno avvertito l’esigenza di individuare tecniche funzionali alla gestione ed al controllo dei rischi derivanti dalla contrattazione, tra le quali la “clausola rinegoziativa”, diretta a formalizzare la volontà dei contraenti di estendere la propria “collaborazione” non solo nella fase redazionale dell’assetto di interessi, ma anche ai momenti eventualmente critici dell’esecuzione[5].

La descritta esigenza è stata avvertita anche nell’ordinamento interno, ma con approcci differenti relativamente al periodo storico nei quali questi erano vigenti. Il codice civile del 1865 infatti, influenzato dalla matrice liberal-volontarista, individuava il contenuto del negozio nel regolamento di interessi “cristallizzato” nell’accordo contrattuale, senza che eventuali circostanze successive e modificative dell’originario rapporto di proporzione tra le prestazioni potessero incidere su di esso[6].

Il codice civile vigente, invece, indica l’attività (dotata di funzione “adeguatrice”) mediante la quale le parti ridefiniscono l’assetto d’interessi inizialmente stabilito, in ragione di sopravvenienze giuridicamente rilevanti[7]. È opportuno ricordare che la rinegoziazione contrattuale, pur essendo concepita quale veicolo per ricondurre ad equità il contratto “affetto da squilibrio”, tuttavia, è limitato ad una serie tipizzata di casi[8] diretti a rimuovere o attenuare gli effetti negativi di eventuali sopravvenienze[9].

In tale ottica è collocato l’art. 1467 c.c., il quale prevede il principio della risolubilità dell’originario accordo nell’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta, determinata da avvenimenti straordinari e imprevedibili non riconducibili alla normale alea del contratto. Il terzo comma del citato articolo prevede la possibilità che il contraente, contro il quale è domandata la risoluzione, riconduca ad equità il contratto, come ipotesi alternativa alla risoluzione dello stesso[10]. Al riguardo, sono opportune delle precisazioni: intanto, l’istituto in esame non è finalizzato a sindacare il rapporto di proporzionalità oggettiva ab initio intercorrente tra le prestazioni convenute, bensì a sciogliere o a ridurre ad equità un contratto non più aderente al soddisfacimento degli interessi originariamente manifestati dai contraenti[11]; in secondo luogo, il rimedio dell’adeguamento del contratto si sostanzia nell’esercizio di un potere assolutamente unilaterale poiché la parte svantaggiata dall’eccessiva onerosità sopravvenuta non può invocare la modifica del regolamento contrattuale, considerando che la parte avvantaggiata potrebbe anche non disporre di quanto necessario per soddisfare l’adeguamento[12].  Dunque, in ossequio al principio dell’autodeterminazione dei contraenti, viene affermato che “il medesimo valore del consenso, che, sotto determinate condizioni, impedisce che una parte possa ritenersi vincolata ad un equilibrio da essa fin dall’inizio non acconsentito, imponga di esigere, con la medesima perentorietà, che non si possa vincolare la controparte ad una prestazione diversa da quella da essa all’inizio accettata”[13].

Quanto prospettato in precedenza potrebbe indurre a ritenere che la disciplina codicistica voglia prediligere il rimedio caducatorio a quello della conservazione del contratto. A tal proposito, autorevole dottrina ha osservato che nei contratti a lunga durata “ciò che ragionevolmente occorre è che il contratto prosegua: con gli aggiustamenti necessari per superare i problemi e le difficoltà che si sono presentati. Occorrono dunque rimedi non ablativi, e in particolare non risolutori: bensì rimedi [..] manutentivi perché puntano a mantenere in vita il contratto; o di adeguamento, perché salvano il contratto adeguandolo alle circostanze ed esigenze sopravvenute”[14].

L’incidenza sul contratto delle sopravvenienze che superano l’alea normale (art. 1467 c.c.) si risolve dunque nell’alternativa tra scioglimento, intangibilità e adattamento alle nuove circostanze. Qualora i contraenti intendano ovviare al sopravvenuto mutamento di circostanze, le clausole da essi previste possono essere di adeguamento automatico o demandato a un terzo oppure clausole di rinegoziazione, le quali presentano aspetti di problematicità, soprattutto quando sono rimesse alle parti[15]. Si pensi al potere unilaterale di modifica dell’iniziale contenuto negoziale (c.d. ius variandi). Talvolta l’attività di rinegoziazione richiede tempi non aderenti all’urgenza delle modifiche del contratto; ecco perché la prassi ha ovviato a tale problematica mediante l’attribuzione pattizia ad una delle parti del potere di modificare il regolamento contrattuale, qualora però, come ha sottolineato la dottrina, essa si realizzi nell’interesse comune dei contraenti e avuto riguardo a criteri prestabiliti[16].

Le sopravvenienze contrattuali evidenziano quindi la naturale insufficienza della capacità predittiva delle parti e la conseguente opportunità di introdurre nel regolamento negoziale criteri di adeguamento: i quali si risolvono “nell’integrazione ed anche nella rideterminazione dell’oggetto in vista della conservazione del vincolo per come le parti l’avevano configurato”[17].

Parte della dottrina ha ritenuto di poter giungere in via interpretativa, mediante l’ipotesi del mutamento di circostanze, alla configurazione di un obbligo legale di rinegoziazione in capo ad entrambi i contraenti, invocando le clausole generali della buona fede ed equità[18].

La dottrina che ha elaborato questa teoria ha ritenuto, anche alla luce delle recenti pronunce della Suprema Corte[19], che “la rinegoziazione è retta dal dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.): il parametro della buona fede è concretizzato dall’interesse della parte svantaggiata dalla sopravvenienza dedotta quale evento condizionante. Qui la buona fede ha un ruolo integrativo fondamentale in quanto impone di commisurare l’adempimento dell’obbligo di rinegoziare agli interessi rivelati dal contratto e dal contesto in cui esso è destinato ad operare, rendendo, dunque, inadempimento ogni disponibilità a rinegoziare”[20].

La buona fede quindi rileva come “fonte primaria d’integrazione del rapporto, prevalente anche sulle determinazioni contrattuali [..]. La tesi riduttiva secondo la quale la buona fede non integrerebbe il rapporto ma verrebbe solo a correggere il rigoroso giudizio di formale conformità del comportamento alla legge, non può essere condivisa. Anche se applicata nella fase di attuazione del contrato, la buona fede è pur sempre una regola obiettiva che concorre a determinare il comportamento dovuto. A differenza di altre regole la buona fede non impone tuttavia un comportamento a contenuto prestabilito”[21].

D’altro canto, mentre la risoluzione “uccide il rapporto contrattuale, la rinegoziazione dovrebbe servire a curarlo. In questo settore, gli italiani partono favoriti in virtù degli artt. 1366, 1375, e, soprattutto, in virtù dell’art. 1374. L’analisi dei costi e benefici potrà suggerire che una rinegoziazione non ha bisogno di essere sponsorizzata dal diritto cogente: essa è nell’interesse di entrambe le parti, e perciò verrà certamente a perfezione”[22]. L’art. 1374 c.c. stabilisce infatti che le parti sono obbligate non solo a quanto stabilito nel proprio accordo, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o in mancanza secondo gli usi o l’equità; ciò consente l’applicazione di “rimedi equitativi ulteriori”[23].

Esiste allora l’obbligo di rinegoziare? Negare l’esistenza di un obbligo legale di rinegoziare in virtù di una rigorosa applicazione del principio dell’obbligatorietà del contratto (pacta sunt servanda) vorrebbe dire limitarlo a “ratificare i rapporti di forza consumati nel mercato” quando invece “deve farsi carico di una gerarchia di valori intorno ai quali ruota l’equilibrio stesso della convivenza civile”[24].

Questione diversa riguarda la possibilità o meno per le parti di escludere, con apposite clausole, l’obbligo di rinegoziazione del contratto. A questo proposito è stato osservato che “sebbene il principio di buona fede (art. 1375 c.c.) sia generalmente considerato di ordine pubblico, e quindi inderogabile, nel caso di specie non può escludersi che le parti manifestino la loro volontà di ritenersi in ogni caso vincolate al contratto, così come originariamente concluso; in generale le clausole di assunzione del rischio sono infatti consentite; basti per esempio pensare all’appalto a forfait, con conseguente esclusione del ricorso ai rimedi previsti in caso di sopravvenienza”[25].

Per quanto riguarda le conseguenze derivanti dall’inadempimento dell’obbligo di rinegoziare, diverse sono le correnti dottrinali. Secondo una prima elaborazione, si renderebbe necessaria l’attività correttiva del giudice (ex art. 1374 c.c.) diretta a ricondurre ad equità il complessivo assetto d’interessi[26].

Un’altra autorevole ricostruzione configura l’obbligo di rinegoziazione come interpretazione evolutiva dell’art. 1467 c.c. in combinato disposto con l’art. 1375 c.c., in base al quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede[27]. Il diniego di addivenire alla rinegoziazione darebbe luogo, secondo tale impostazione, all’insorgenza di una obbligazione risarcitoria in favore della parte pregiudicata e a due soluzioni tra loro alternative: eterointegrazione giudiziale ex art. 1374 c.c. ovvero la risoluzione del contratto[28].

Una ulteriore corrente di pensiero, invece, ritiene di potersi ammettere l’esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. per fronteggiare il rifiuto di rinegoziare.


[1] C. CASTRONOVO-S. MAZZAMUTO, Manuale di diritto privato europeo, Vol. II, Giuffrè, Milano 2007, cit., p. 521.

[2] S. ANSUINI, Presupposizione e rinegoziazione del contratto, Roma, 2011, cit., p. 93.

[3] C. CASTRONOVO-S. MAZZAMUTO, Op. cit., p. 538; A. FRIGNANI, Le clausole di hardship, in Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologia dei contratti e rimedi, Milano, 1992.

[4] S. ANSUINI, Ibidem.

[5] M. V. CESARO, Clausola di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, cit., p. 42 ss.

[6] V. FERRARI-P. LAGHI, Diritto europeo dei contratti, Giuffrè, 2012, cit., p. 170.

[7] P. PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, Edizioni Scientifiche Italiane, Quinta Ed., 2005, cit., p. 467.

[8] L. CASTELLI, L’obbligo di rinegoziazione, in I Contratti, 2 / 2016, cit., p. 185. L’autore fa riferimento, a titolo esemplificativo, alle disposizioni in materia di clausola penale (art. 1384 c.c.), contratto con obbligazioni di una sola parte (art. 1468 c.c.), affitto (art. 1623 c.c.), appalto (art. 1664 c.c.), assicurazione (artt. 1897, 1898 c.c.).

[9] P. PERLINGIERI, Ibidem.

[10] V. FERRARI-P. LAGHI, Op. cit., p. 171; P. GALLO, Voce Eccessiva onerosità sopravvenuta, in Dig. It-sez. priv., Torino, 2008 rist., cit., p. 241.

[11] V. FERRARI-P. LAGHI, Ibidem; C. G. TERRANOVA, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Comm. Cod. civ., diretto da P. Schelinger, Milano, 1995.

[12] C. CASTRONOVO-S. MAZZAMUTO, Op. cit., p. 529.

[13] Ibidem.

[14] V. ROPPO, Il Contratto, in Trattato di diritto privato (a cura di G. Iudica-P. Zatti), Milano, 2001, cit., p. 1042.

[15] E. DEL PRATO, Sulle clausole di rinegoziazione del contratto, in Riv. Dir. Civ., 3 / 2016, cit., p. 801.

[16] P. PERLINGIERI, Op. cit., p. 468. L’autore fa riferimento, a titolo esemplificativo, alle convenzioni per la costruzione di opere complesse, nelle quali spesso si concede “alla parte, che affida l’esecuzione dei lavori, la facoltà di intervenire per modificare l’entità della prestazione dovuta dall’affidatario”.

[17] E. DEL PRATO, Ibidem.

[18] C. CASTRONOVO-S. MAZZAMUTO, Op. cit., p. 524.

[19] Si veda ad esempio: Cass. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. 19 marzo 2013, n. 6773; Cass. 14 maggio 2014, n. 10428.

[20] E. DEL PRATO, Op. cit., p. 804.

[21] C. M. BIANCA, Diritto civile, Il contratto, Milano, 2000, cit., p. 501-502.

[22] R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, in Trattato di Diritto Civile (a cura di R. Sacco), Torino, 2004, II, cit., p. 723.

[23] F. GAMBINO, Problemi del rinegoziare, Giuffrè Editore, Milano 2004.

[24] N. LIPARI, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, cit., p.736.

[25] P. GALLO, Trattato del Contratto, 3, Torino, 2010, cit., p.2363.

[26] V. FERRARI-P. LAGHI, Op. cit., p. 175.

[27] F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, cit., p. 147; G. SICCHIERO, Voce Rinegoziazione, in Dig. Disc. Priv., Torino, 2008 rist., cit., p. 1210 ss.

[28] V. FERRARI-P. LAGHI, Ibidem; F. MACARIO, Ibidem.


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