La giurisdizione contabile sul danno erariale nelle società c.d. in house providing. Natura formale e sostanziale, alla luce delle Sezioni Unite n. 16741/2019

La giurisdizione contabile sul danno erariale nelle società c.d. in house providing. Natura formale e sostanziale, alla luce delle Sezioni Unite n. 16741/2019

Sommario: Premessa – 1. La vicenda – 2. Problemi connessi e considerazioni

 

Premessa

Le società c.d. in house (identificate per la prima volta, in sede europea, nel “libro bianco” sugli appalti del 1998[1]) hanno da subito destato diverse perplessità per la loro difficoltà di individuazione e di differenziazione con altri fenomeni similari (quali, per esempio, i meri organi interni della P.A. da un lato, o le società a partecipazione pubblico-privata dall’altro).

Queste società si sostanziano, in realtà, in una sorta di “appendice”[2] dell’Amministrazione, finalizzata all’autoproduzione – insourcing – di beni o servizi ad essa indirizzati, così da evitare il ricorso a soggetti esterni per l’approvvigionamento e il relativo costo a carico della stessa P.A.

Queste, insieme alle società c.d. miste (a partecipazione pubblico-privata), costituiscono le due forme principali di società a partecipazione pubblica, prevista dall’art. 1, co.3, del d.lgs. n.50/2016, conformemente a quanto già indicato dall’art. 32, co.1, lett. e) del codice degli appalti pubblici previgente. Esse, pur avendo struttura privatistica, presentano un regime peculiare[3]: da un lato per i poteri di cui è titolare il socio pubblico, finalizzati al rafforzamento della propria posizione, ex art. 11, co.9, d.lgs n.175/2016; dall’altro per i differenti rapporti con le procedure di evidenza pubblica imposte dall’Ordinamento europeo.

1. La vicenda

La problematica frequente che attiene alla loro natura concerne, in verità, l’esclusione delle stesse dalla procedura di evidenza pubblica prevista dal d.lgs. n.50/2016, nonché le collaterali questioni di trasparenza nella procedura di affidamento degli appalti. Tuttavia, la questione che ci si appresta ad affrontare in questa sede verte, per contro, sui limiti della giurisdizione contabile in materia di responsabilità degli organi sociali apicali: ovverosia l’interpretazione dell’art.12, co.1, d.lgs. n.175/2016 (T.u.s.p.).

Nel caso di specie, affrontato dapprima dalla Corte dei Conti e in seguito dalla Corte di Cassazione, si discuteva della sussistenza di una responsabilità erariale in capo agli amministratori di una società, la Trambus s.p.a. (poi A.T.A.C. s.p.a.) che, solo formalmente, appariva in qualità di soggetto di diritto privato ma che, sostanzialmente, era controllata in toto da un soggetto pubblico, Roma Capitale. Il problema verteva, specialmente, nell’esistenza, all’interno dello statuto, di una clausola di apertura che consentiva a qualunque soggetto privato, oltre che pubblico, la possibilità di acquistare una o più azioni della società stessa; di fatto, tuttavia, questa clausola era rimasta “silente” non avendo avuto alcuna concretizzazione nella vita societaria, al punto da garantire il mantenimento del controllo pubblico da parte del Comune nella gestione sociale.

In particolare, i componenti del C. d. A. della società, rinviati a giudizio di fronte alla Corte dei Conti, per rispondere dei danni provocati alla stessa partecipata, avevano rilevato il difetto di giurisdizione portando a sostegno della propria tesi due decisioni a Sezioni Unite della Cassazione (cfr. Cass. n.26809/2009 e n.4309/2010); in queste sentenze, specialmente, la Corte aveva escluso la giurisdizione contabile laddove il danno fosse legato a scelte strategiche imprenditoriali non connesse alla qualifica di socio pubblico. Disattendendo tali eccezioni, il giudice contabile si era pronunciato definitivamente per la propria giurisdizione, insistendo sulla sostanziale identificazione tra società ed ente pubblico partecipante, in virtù della totalità delle quote in mano a quest’ultimo. Secondo l’opinione del giudice adito, inoltre, l’esistenza della clausola statutaria di cui sopra doveva ritenersi il mero adempimento all’obbligo normativo, allora vigente, di disincentivare gli assetti monopolistici come previsto dagli artt.18 e 19 del d.lgs. 422/1997.

Contro tale decisione, quindi, era stato sollevato il ricorso di cui agli artt.111, co.8, Cost. e 362 c.p.c. sul quale la Cassazione, con la sentenza in epigrafe, ha inteso definire il discrimen tra le due forme di partecipazione pubblica – formale e sostanziale – e la rilevanza delle stesse ai fini dell’individuazione della giurisdizione ordinaria o contabile.

La Corte Suprema, in via preliminare, ha enucleato i requisiti della qualità in house come sancito da pacifica giurisprudenza[4], vale a dire: 1) che il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) che la società svolga la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) che la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, con modalità e intensità di comando non riconducibili alle facoltà spettanti al socio ai sensi del codice civile.

Rispetto al “controllo analogo”, è da evidenziare, inoltre, che anche l’ANAC, con le linee guida adottate dalle deliberazioni nn. 235 e 236 del 2017, ha introdotto alcune precisazioni. Questo, infatti, andrebbe configurato temporalmente in due fasi distinte[5]: una ex ante, attraverso, per esempio, la previsione degli obiettivi da perseguire con l’in house nella programmazione dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure con controlli ispettivi; una ex post attraverso il potere di approvazione del rendiconto o fornendo indicazioni sugli obiettivi per la programmazione successiva.

In secondo luogo, la Corte si è occupata di stabilire la sussistenza di un difetto di giurisdizione del giudice contabile, come previsto dall’art.103 Cost., evidenziando come “La soggezione alla responsabilità contabile presuppone in definitiva un rapporto di immedesimazione e dipendenza gerarchica della società in house dalla pubblica amministrazione e tale rapporto è cosa del tutto diversa da un rapporto di influenza di fatto che può mutare per effetto dell’ingresso di nuovi soci o può essere contrastato dagli organi sociali in ragione dell’autonomia soggettiva della società”[6]. L’astratta possibilità, quindi, di un’entrata da parte di azionisti privati diviene, nell’intendimento del giudice di legittimità, da sola sufficiente a escludere il rapporto di immedesimazione, ancorché la partecipazione dei privati fosse, di fatto, al tempo assente: la qualifica formale, allora, risulta in definitiva prevalere su quella sostanziale.

2. Problemi connessi e considerazioni

In verità, il principio espresso dalla Corte non dovrebbe portare l’interprete a qualificare queste società con un eccessivo formalismo: questa interpretazione giudiziale deve, infatti, essere mitigata con i recenti approdi eurounitari, consolidatisi anche con il d.lgs. n.50/2016. In un primo momento, difatti, la giurisprudenza europea[7] aveva affermato la necessità – ai fini della qualifica della natura in house – di una partecipazione pubblica “totalitaria”, con la conseguente esclusione di ogni minoranza privata tra il pubblico di azionisti; circostanza accolta inizialmente anche dalla giurisprudenza nazionale[8]. Successivamente, con le direttive del 2014 in materia di appalti[9], è stata ammessa anche una partecipazione di soggetti privati nella compagine societaria, purché privi di poteri di veto o di controllo connessi all’azione acquisita.

Alla luce dei principi europei, allora, il mero fatto di una partecipazione privata, ancorché prevista attraverso una clausola “aperta” statutaria (come nel caso di specie), non dovrebbe far venir meno – sic et simpliciter – la qualifica pubblicistica della società; al contrario, sarebbe necessario che agli stessi soci privati fossero attribuiti anche i poteri, ulteriori, di veto nelle decisioni assembleari o altri strumenti di ingerenza, per escludere il presupposto del “controllo analogo”. Tuttavia, la previsione europea, di un’apertura anche a soci non pubblici, è rimasta disattesa, sia dalla giurisprudenza successiva, sia dallo stesso legislatore. Nel Testo unico delle società pubbliche[10], difatti, è contenuta una netta distinzione tra queste società (art.16) e quelle a composizione mista (art.17). Per le prime è previsto il divieto di partecipazione privata al capitale sociale, salvo eventuali deroghe nei casi prescritti dalla legge; mentre per le seconde è consentita una soglia minima del 30% di capitale privato, con alcune restrizioni.

Originariamente, quest’ultime avrebbero dovuto avere, tra l’altro, un periodo vitale limitato e cessare, dunque, a date determinate, in base all’art. 23-bis d.l. n.112/2008; dovevano poi essere sostituite, infatti, da imprese – private o pubbliche – attraverso procedimenti ad evidenza pubblica. Tuttavia, dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Corte Cost. n.199/2012) che ha investito il citato articolo, tali società restano ad oggi in vita sine die[11].

L’eccessivo rigore, comunque, cui sembra improntato questo Testo, ha portato, peraltro, il Consiglio di Stato a sollevare dinnanzi alla Corte di Giustizia Europea la questione della legittimità delle previsioni in esso contenute, rispetto al contenuto delle direttive[12]. Lo stesso Giudice, del resto, aveva già evidenziato alcune perplessità in sede di parere, evidenziando che si sarebbe potuto ammettere il socio solo “finanziatore” attraverso una gara ad evidenza pubblica, ed escludere invece quello anche “operativo”[13].

Tuttavia, in dottrina si è ritenuto che, ammettendo l’ingresso di questi soci con procedure di gara, si rischierebbe di privare di utilità l’istituto della società in house: poichè, laddove vi fosse una selezione a evidenza pubblica, sussisterebbe una semplice società mista[14]. La caratteristica della prima, infatti, è la possibilità di affidare in via diretta, e dunque agevolmente, la produzione di beni e servizi; se fosse gravata, invece, dall’obbligo di indizione di una gara opererebbe, di fatto, come una società mista. Né secondo tale tesi si potrebbe addurre un pericolo per la concorrenza rispetto agli affidamenti diretti che possono essere attribuiti alle in house, considerando che è la stessa normativa europea ad ammettere la partecipazione privata laddove prescritta dalla legge nazionale e ove conforme ai Trattati.

Allora la differenza tra tali società e quelle “miste” potrebbe risiedere nella soglia minima del 30% della partecipazione privata al capitale sociale, ex art.17 T.u.s.p.: se inferiore, si tratterebbe pur sempre di una in house o altrimenti di una mista.

Inoltre, attenta dottrina ha osservato che la previsione di cui all’art. 16 T.u.s.p., derogando il divieto di cui sopra ai “casi prescritti” dalla legge, sembra non conciliarsi con la deroga di differente tenore indicata dall’art.5, co.1, lett.c), d.lgs. n.50/2016, riferita ai “casi previsti” dalla legislazione nazionale. Con il primo termine, infatti, si indicherebbe che la partecipazione privata debba essere imposta dal diritto nazionale mentre con il secondo, meramente consentita[15] .

Comunque, neppure la qualifica di “organismo di diritto pubblico” potrebbe essere di rilievo, secondo la giurisprudenza, ai fini della possibile individuazione di una giurisdizione contabile, atteso che tale nozione rileva esclusivamente sul piano delle direttive europee in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici[16]. Tale soggetto, infatti, è equiparato a una pubblica amministrazione quanto alla scelta di potenziali contraenti privati (con la conseguenza dell’obbligo di indizione di una pubblica gara), mentre è assimilato invece a un soggetto privato per tutte le altre circostanze; per questo particolare “polimorfismo” degli organismi di diritto pubblico, non a caso da autorevole dottrina (Giovagnoli) definiti come «soggetti cangianti», risulta evidente, quindi, come alcuno spazio residui per la giurisdizione contabile, pur essendo tali soggetti sottoposti a un’influenza pubblica dominante: anche in questo caso, dunque, il lato formale finisce, come per le società in house, per prevalere su quello sostanziale.

In conclusione, il rapporto di immedesimazione necessario ai fini della giurisdizione del giudice contabile, prescinde dalla qualifica formale di società in house, potendo quest’ultima prevedere, nei casi prescritti dalla legge, anche forme di partecipazione privata. La dicotomia in sostanza espressa dalla Cassazione, allora, tra “immedesimazione – in house” e “influenza di fatto – società mista” non sembra più – a opinione dello scrivente – poter essere applicabile: poiché da un lato la responsabilità erariale pare esclusa, dalle Sezioni Unite in commento, in caso di clausola di apertura statutaria ai privati; dall’altro, con le direttive menzionate del 2014 e le timide aperture della legislazione nazionale, sembra poter mancare il presupposto del capitale sociale necessariamente in mano pubblica.


[1] Libro bianco COM (98) 143 def., 1.3.1998, punto 2.1.3, p. 11, nt. 10
[2] Una “longa manus” della p.a. per il Consiglio di Stato, ad. plen., n.1/2008
[3] Cianflone, Giovannini, Lopilato, L’appalto di opere pubbliche, Tomo I, Giuffré, 2018, pag. 427
[4] delineati per la prima volta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., 9 sett. 1999, C-108/98 (sent. Teckal).
[5] Cianflone, Giovannini, Lopilato, Op. cit., pagg. 444-445
[6] cfr. Cass., sez. un., n.16741/2019
[7] da ultimo: Corte giustizia, Sez. I, sent. 19 giugno 2014, C-574/12.
[8] Cons. di Stato, ad. plen., n.1/2008
[9] direttive UE nn. 23-24-25/ 2014
[10] D.lgs. n. 175/2016
[11] Cerulli-Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Giappichelli, 2012, p.152
[12] Cons. di Stato, Sez. V, ordinanze nn. 138 – 293 – 296/2019
[13] Cons. di Stato, parere n.638/2017
[14] Sandulli, De Nictolis, Affidamenti in house, in “Trattato sui contratti pubblici”, tomo I, Giuffré-Lefebvre, 2019, pagg.853-854
[15] così Giovagnoli, Chieppa, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, 2018, pag. 321; lo si dedurrebbe, in particolare, dalla versione inglese del considerando n.32 per i settori ordinari, che parla di compulsory membership, ossia partecipazione obbligatoria.
[16] così, Cass., sez. un., n.3692/2012

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Avvocato Amministrativista. Già tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tar Lazio, sede di Roma. Laureato in Giurisprudenza presso l'università La Sapienza di Roma, ove ha conseguito anche il diploma di specializzazione per le professioni legali.

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