La lesione dei beni giuridici fondamentali della persona tra pericolo e offensività

La lesione dei beni giuridici fondamentali della persona tra pericolo e offensività

Il compito essenziale del diritto penale è quello di perseguire i reati, intesi come fatti a cui la legge riconduce una risposta sanzionatoria. Per far in modo che siano tali, i delitti, secondo il principio di legalità misto, non solo è necessario che essi siano previsti espressamente da parte del Parlamento, ma è indispensabile che la potestà punitiva che appartiene allo stesso sia esercitata in ossequio a particolari principi, che possono essere elencati in questo modo: il principio di materialità, il principio di colpevolezza e quello di offensività. Per ciò che riguarda il primo, che trova il suo referente normativo nell’art. 25, co. 2, Cost., sancisce l’assenza del fatto criminoso, se esso non si estrinseca in un comportamento umano, derivandone l’assunto secondo cui nessuno è punibile se la sua azione non sia percepibile coi sensi.

Il principio di colpevolezza, invece, non fa altro che ricalcare quanto contemplato nell’art. 27. co. 1, Cost., secondo cui, da un punto di vista soggettivo, la responsabilità penale è personale.

In buona sostanza, per l’applicazione della pena, è necessario che un fatto sia rimproverabile al soggetto agente secondo i criteri di imputazione previsti dall’art. 43 c.p., ossia il dolo, la colpa e, in due particolari casi espressamente previsti dal Legislatore, la preterintenzione.

In ordine, infine, al principio di offensività, va detto che, in un’ottica garantista, ai fini della rilevanza penale di un fatto, è necessario che esso leda un bene in maniera significativa.

A titolo esemplificativo, appare chiaro che, posto il reato di furto di cui all’art. 624 c.p., il soggetto che ruba un acino d’uva in un vigneto non arreca alcuna lesione determinante al proprietario dello stesso.

Diversamente, se lo stesso soggetto agente si appropriasse di una quantità ingente d’uva, verrebbe in rilievo l’offensività della condotta, con la conseguente necessità di applicare la pena prevista per il reato suindicato.

Come accade per gli altri principi appena affrontati, anche quello in esame ha copertura costituzionale, come riconosciuto, a più riprese, dalla Corte Costituzionale.

Quanto detto, si può desumere dalle seguenti norme: l’art. 13 Cost, che disciplinando l’inviolabilità della libertà personale, ammette l’irrogazione di una sanzione penale esclusivamente a fronte di una condotta che offenda un bene di pari rango; l’art. 25, co.2, Cost., che subordina la pena alla commissione di condotte materiali ed offensive e non alla mera disobbedienza; gli artt. 25 e 27 Cost., i quali, con relativa distinzione tra pena e misure di sicurezza, tendono ad evitare di sanzionare un atto di mera disobbedienza che, seppur sia indice di possibili futuri reati, non ha carattere materialmente offensivo; l’art. 27, co. 2, Cost., che, essendo presupposto della rieducazione del condannato, sottintende che le mere violazioni di doveri, non offensive di alcun bene, frustrerebbero la funzione rieducativa della pena.

Tale valenza costituzionale del principio in oggetto è stata, come anticipato, avallata dalla Consulta, che, a tal proposito, ha attribuito al criterio di offensività una duplice funzione, distinguendolo in concreto e astratto. Nel primo caso, il principio in esame è rivolto al giudice, che, in forza di esso, è tenuto ad emanare una condanna in relazione a fatti concretamente offensivi; nel secondo caso, i giudici della Corte Costituzionale si rivolgono al Legislatore che è chiamato a creare norme incriminatrici che puniscano le sole condotte lesive di beni giuridici meritevoli di tutela.

Ora, se quanto finora affermato è vero, appare doveroso, ai fini della completezza dell’analisi, porre in evidenza che l’attuale sistema penale attribuisce rilevanza non solo alle condotte produttive di effetti lesivi, ma anche a quelle caratterizzate da una lesività potenziale.

Più semplicemente, nell’ambito del diritto penale italiano, è, dunque, possibile delineare una prima distinzione tra reati di danno, per la cui consumazione è richiesta la lesione del bene tutelato, e i reati di pericolo, consistenti in condotte di mera esposizione a rischio di lesione del bene.

Da ciò si può notare che il legislatore, in questo caso, abbia volutamente anticipare la soglia di punibilità per due ordini di ragioni: in primo luogo, per la continua evoluzione tecnologica che, determinando un incremento delle attività rischiose, induce alla creazione di norme con finalità preventive; in secondo luogo, vi è l’assunzione da parte dello Stato di particolari compiti di natura solidaristica che impongono la predisposizione di una protezione anticipata di beni di particolare rilevanza e sprovvisti di un titolare in grado di provvedere con efficacia alla loro tutela.

Evidenziata in questo modo la ratio di questa peculiare categoria di reati, appare doveroso procedere alla loro classificazione. Tradizionalmente, i reati di pericolo si distinguono in reati di pericolo concreto e quelli di pericolo astratto. I primi si caratterizzano per la loro sussistenza subordinata alla effettiva presenza del pericolo, che è da accertare in concreto da parte del giudice. All’interno dei reati de quibus, è possibile tracciare un’ulteriore differenziazione tra: reati di condotta pericolosa, nei quali il pericolo è solo una qualificazione o un presupposto della condotta, come nel caso dell’omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina; reati di condotta di evento, in cui il pericolo è l’evento della condotta, come avviene nella fattispecie di incendio di cosa propria.

Nell’ambito di queste figure giuridiche, assume centralità il giudizio di pericolo, il quale presenta due profili problematici, ossia quello del momento temporale in cui operare l’accertamento e quello del grado di pericolosità penalmente rilevante.

Quanto al primo profilo, si ritiene che il giudizio debba svolgersi ricorrendo al criterio ex ante della prognosi postuma, in base al quale il giudizio si compone delle circostanze esistenti al momento del fatto, conosciute dall’autore e conoscibili secondo la migliore scienza ed esperienza.

Quanto al grado del pericolo penalmente rilevante, è necessario far riferimento alle nozioni di possibilità e probabilità: la prima rappresenta la possibilità rilevante che l’evento lesivo si verifichi; la seconda, invece, consiste nella verificabilità dell’evento superiore alla media.

All’opposto, sono reati di pericolo astratto quelli in cui il pericolo è insito nella stessa condotta ritenuta pericolosa per comune esperienza, derivandone che la sussistenza del pericolo non va accertata in concreto.

In questo caso, ogni indagine è superflua, in quanto la minaccia all’interesse tutelato si considera avverata con la realizzazione del fatto tipico, presumendosi la pericolosità iure et de iure.

In buona sostanza, il legislatore, a differenza di quello che accade per i reati di pericolo concreto, non inserisce il pericolo tra i requisiti espliciti della fattispecie e si limita a tipizzare una condotta al cui compimento, generalmente, si accompagna la messa in pericolo di un determinato bene.

Stante questa bipartizione tradizionale, altra parte della dottrina si fa portatrice, al contrario, di una tripartizione, aggiungendo al pericolo concreto e astratto anche quello presunto, in cui il pericolo non è necessariamente implicito nella condotta, poiché, nel momento in cui la stessa viene posta in essere è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il verificarsi dell’evento lesivo.

Viene, tuttavia, presunto in via assoluta, conseguendone che non è ammessa neppure prova contraria della sua concreta insussistenza.

Occorre, infine, richiamare i reati di pericolo indiretto, in presenza dei quali il legislatore anticipa ulteriormente la soglia di punibilità, arretrandola al pericolo del pericolo di lesione di un bene giuridico.

Terminata la rassegna selle varie tipologie con cui può estrinsecarsi il reato di pericolo, va posta in rilievo, in ultimo, una particolare questione da cui ha, poi, preso le mosse una pronuncia della Corte Costituzionale.

Invero, in dottrina, ci si è chiesti se, alla luce del principio di offensività che, come detto, i reati di pericolo astratto possano avere cittadinanza nell’ordinamento, data la punibilità anticipata, a prescindere della verifica circa l’effettiva presenza del pericolo stesso.

La Consulta, con buona pace della dottrina prevalente, ha circoscritto la legittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto alle ipotesi in cui l’incriminazione è tesa a proteggere beni di rango elevato, quali possono essere la vita, o, anche l’integrità fisica.

Nello specifico, si è detto che è impossibile prescindere dal ricorso alla tecnica dei reati in oggetto allorchè non vi sia altra possibilità di proteggere determinati beni giuridici, soprattutto quando la qualificazione del reato come fattispecie di pericolo concreto impedisca la prova dell’effettiva pericolosità di una condotta, essendovi, però, il fondato sospetto che essa minacci un determinato bene di carattere primario.

A tali ipotesi di configurazione di pericolo astratto devono aggiungersi anche quelli in cui emergono beni collettivi, come quelli ambientali, che, per le loro dimensioni, salvo ipotesi eccezionali quali il disastro ambientale, non possono essere lesi da una condotta singola, ma dal cumularsi di una molteplicità di condotte.

Questa apertura verso l’istituto di cui si sta trattando ha dato ingresso, sia in ambito interno che europeo, al c.d. principio di precauzione, che realizza un’anticipazione della tutela diversa da quella che si attua coi reati di pericolo. Infatti, in questi ultimi chi fa le leggi anticipa la punibilità sulla base sulla conoscenza delle leggi scientifiche che governano processi causali pericolosi, in maniera tale che, muovendo da una situazione di fatto definita dal legislatore o rimessa parzialmente alla individuazione del giudice, sia possibile formulare un giudizio relativamente certo di pericolosità.

Diversamente, il principio di precauzione è subordinato a due condizioni: in primo luogo, a quando le conoscenze scientifiche sono ancora incerte sullo stato di pericolosità di determinate cose o attività; in secondo luogo, quando entra in gioco la possibilità di un danno catastrofico e irreversibile.

Dall’impianto strutturale di detto principio, dunque, si può affermare che esso ben si attaglia al rischio che, se è inafferrabile in ordine al grado di probabilità, è di straordinaria consistenza per quel che riguarda la gravità dell’evento infausto.


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