La libera manifestazione del pensiero tra liceità e discriminazione razziale e sessuale

La libera manifestazione del pensiero tra liceità e discriminazione razziale e sessuale

L’attuale clima socio-politico impone una riflessione sui reati commessi per odio razziale ed omofobico, alla luce del delicato equilibrio tra la libertà di manifestare il proprio pensiero e la tutela della dignità umana. In questo modo sarà, altresì, possibile delineare la funzione connaturata al diritto penale, evidenziando i limiti di una sovraesposizione del medesimo a discapito di un’opera complessiva di educazione culturale.

Sommario: 1. Razzismo e omofobia: quando la libertà azzera la dignità – 2. La discriminazione razziale tra diritto vigente… – 2.1. …e diritto vivente – 3. I crimini basati sul pregiudizio sessuale: lo stato attuale della tutela giuridica – 4. Riflessioni conclusive: il ruolo del diritto penale in una società senza morale.

 

1. Razzismo e omofobia: quando la libertà azzera la dignità

Le rilevazioni statistiche fotografano l’immagine di un’Italia in lenta crescita. Lungi dal condurre un’analisi sulla vitalità del sistema produttivo nazionale, è notorio che le condizioni economiche di un Paese influiscono sul tessuto sociale e culturale della popolazione, conformandone la dimensione propriamente umana. La povertà e, in generale, i disagi materiali rinsaldano pulsioni latenti e, a volte, generano insospettabili avversioni, alimentando divisioni ed un clima di ostilità verso il cosiddetto diverso, ossia il soggetto che non riflette le caratteristiche comuni alla maggioranza degli individui che compongono uno specifico nucleo collettivo.

È in questo contesto che le cronache quotidiane sottopongono all’attenzione pubblica plurimi episodi di criminalità basati sul pregiudizio. Sul punto, giova ricordare che il tessuto giuridico nazionale è monco di una definizione che conferisca alla condotta discriminatoria una rilevanza normativa ad ampio respiro. Tuttavia, l’ostacolo dommatico è facilmente sormontabile, considerata l’accezione comunemente attribuita al comportamento de quo. Invero, la discriminazione indica un atteggiamento teso a negare condizioni di parità sociale in danno di persone che possiedono specifici connotati riferibili ad una presunta razza, all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’origine etnica, allo schieramento politico. Tutti questi fattori denoterebbero una pretesa inferiorità ontologica del soggetto discriminato, la cui vita sarebbe macchiata dall’onta del mancato conformismo.

Nel dettaglio, il contegno discriminatorio può assumere due forme. Da una parte, si collocano gli atteggiamenti più o meno espliciti di rifiuto e insofferenza, che, per quanto fonte di disagio per il destinatario, non assumono rilevanza giuridica. Dall’altra,  risiedono le aggressioni fisiche e verbali, idonee ad integrare singole fattispecie criminose, quali a titolo esemplificativo la diffamazione, le lesioni personali, le percosse, le minacce, fino a giungere all’omicidio. A tal proposito, è illuminante la classificazione elaborata nel 2003 dall’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che distingue tra i cd. “hate crimes” e i cd. “hate speeches“. Con i primi (letteralmente “crimini d’odio”) vengono identificati i reati accomunati dalla matrice del pregiudizio; la seconda categoria, invece, include le manifestazioni di pensiero che esprimono ripugnanza nei confronti di individui appartenenti a categorie ritenute infime, ossia i “discorsi d’odio”.

Tuttavia, se la perseguibilità dei reati di cui alla prima fattispecie non pone particolari questioni di compatibilità ordinamentale, meno pacifico è il riconoscimento di autonomi titoli delittuosi con riferimento alle espressioni del pensiero: invero la consacrazione del diritto di manifestare liberamente la propria opinione risale al 1948, quando venne promulgata dalle Nazioni Unite la Dichiarazione Universale dei diritti umani e, attualmente, riceve una copertura tanto costituzionale quanto sovrannazionale. In primo luogo, nella Costituzione rilevano sia l’esplicito disposto dell’art. 21 e sia l’interpretazione evolutiva, attraverso cui colorare di significato l’art. 2, il quale, laddove riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non può che offrire garanzia altresì alla facoltà in questione. Parallelamente, in sede europea, dipanano forza programmatica l’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo e l’art. 11 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. Carta di Nizza).

Eppure, la libertà di espressione sarebbe esercitata in modo anomalo e non conforme allo spirito normativo, qualora fungesse da strumento per denigrare l’altrui dignità. Invero l’art. 3 della Costituzione eleva a rango supremo il rispetto della dignità sociale e, in virtù dell’art 2 del Trattato sull’Unione Europea, la dignità umana costituisce uno dei valori sui quali pone le fondamenta lo stesso tessuto comunitario. Si impone, pertanto, una lettura coordinata dei principi basilari del sistema, in omaggio alla quale ciascuno può esprimere liberamente il proprio pensiero entro i limiti del rispetto dell’altrui personalità. Sotto questo punto di vista, la pacifica convivenza tra gli individui poggia sul delicato equilibrio tra la libertà individuale e la dignità umana, l’individuazione del quale viene rimessa tanto al tassativizzante potere legislativo quanto al prudente apprezzamento dell’autorità giudiziaria, istituzionalmente deputata a tradurre l’astrattezza della legge nella concretezza del vivere quotidiano. 

2. La discriminazione razziale tra diritto vigente…

Per quanto il diritto positivo non riconosca vocazione universale alla condotta discriminatoria, un particolare settore nel quale l’ordinamento giuridico mostra la sua cogente sensibilità inerisce al pregiudizio basato sulla razza. Nell’ottantesimo anno dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia, il razzismo continua a rappresentare una delle più biasimevoli piaghe che affliggono la società.

Sul punto, è importante ricordare che la normativa nazionale tesa a reprimere il fenomeno de quo trae origine dalla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, il cui art. 1 chiarisce il rilievo giuridico della discriminazione, identificandola come qualsiasi atto orientato ad ostacolare l’altrui esercizio dei diritti politici, economici, sociali e culturali per idee legate alla razza, al colore della pelle o all’ascendenza etnica. L’accordo internazionale richiamato è stato successivamente ratificato dallo Stato italiano con la legge n. 654 del 1975, la quale assurge a primo tassello del tracciato normativo domestico, da ultimo culminato con la trasfusione nel codice penale degli artt. 604-bis e 604-ter, a seguito dell’adesione del legislatore al principio della riserva di codice nella materia penale.

Ambedue le norme riproducono l’assetto legislativo elaborato con la citata legge del 1975 e modificato dapprima con la legge 205/1993 (cd. “legge Mancino”, dal nome del ministro proponente) e successivamente con la legge 85/2006. In particolare, per quanto di interesse in questa sede, l’art. 604-bis condanna sia la propaganda di idee basate sull’odio razziale e sia l’istigazione a commettere atti discriminatori o aggressioni fisiche per motivi legati al pregiudizio legato alla razza. Parallelamente l’art. 604-ter prevede una circostanza aggravante avente carattere generico, in quanto applicabile a tutti i reati puniti con sanzione diversa dall’ergastolo e posti in essere per finalità di avversione razziale.

Ai fini di una migliore comprensione della disciplina positiva, giova approfondire alcune considerazioni. In primo luogo, la circostanza che il primo testo normativo in materia è stato licenziato decenni fa sta a dimostrare che il razzismo delinea un fenomeno ben radicato nella compagine sociale, che l’ordinamento ha inteso contrastare mediante l’ausilio dello strumento repressivo, data la pregnanza dei valori in gioco. Tuttavia, comportando una restrizione della libertà individuale, la sanzione penale può essere comminata solo all’esito di una delicata operazione esegetica, mediante la quale il giudice accerti contro ogni ragionevole dubbio l’offesa ad un bene giuridicamente rilevante. Nel caso, però, delle violenze perpetrate in nome di un’ideologia, non si può non considerare che sono coinvolti due interessi fondamentali suscettibili di entrare in conflitto tra loro, ossia la libertà di manifestare il proprio pensiero da una parte e la dignità dell’essere umano dall’altra.

È stato, precipuamente, il rischio di una frizione col dettato costituzionale ad aver suggerito al legislatore del 2006 di modificare l’impianto della normativa, sostituendo alle originarie fattispecie di diffusione di idee razziste e di incitamento alla discriminazione le vigenti ipotesi di propaganda e di istigazione. Per vero, lungi dal rappresentare un mero esercizio di stile, la differente terminologia sottende un rinnovato approccio contenutistico. Infatti, mentre la diffusione rinvia ad una generica divulgazione di opinioni, l’attività propagandistica assume una connotazione più marcata, in quanto presuppone l’idoneità della condotta ad influenzare l’altrui psiche e ad ottenere, dunque, l’approvazione da parte del soggetto che ascolta. Allo stesso modo, chi incita si limita, in realtà, ad esortare; al contrario, l’istigazione implica un quid pluris rispetto alla mera sollecitazione verbale e cioè la concreta possibilità che il destinatario recepisca e attui il messaggio suggerito.

2.1. …e diritto vivente

La legge ha, quindi, inteso tracciare dei confini ben definiti lungo l’area del penalmente rilevante, in un’ottica che privilegia il contemperamento tra due valori particolarmente sentiti in una società pluralistica e democratica, quale quella nazionale: la libertà di espressione e il rispetto della persona in quanto tale. Eppure, è evidente che le norme vivano nella realtà attraverso l’attività interpositiva del giudice, il quale le interpreta e le applica, dando sostanza alla funzione ordinatrice che è in esse congenita. Di conseguenza, per quanto specifico possa essere il dettato normativo, è compito dell’autorità giusdicente definire la portata applicativa del precetto.

Al riguardo, l’orientamento che domina le aule di giustizia sottende un rigore prudenziale di fondo, teso a garantire sia l’equilibrio tra i due principi richiamati e sia il dogma dell’offensività in concreto del reato, atteso che la funzione rieducatrice della sanzione penale di cui all’art. 27 Cost. non potrebbe essere assolta, qualora il reo ritenesse di espiare una pena inflitta per un reato che, sostanzialmente, non ha determinato alcuna lesione all’interesse protetto. Siffatta tendenza esegetica emerge soprattutto con riferimento all’individuazione dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale. Invero, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, per valutare la sussistenza della circostanza de qua, non è necessario l’esplicito riferimento all’inferiorità della razza, purché l’espressione utilizzata dal reo riveli, in maniera univoca, la volontà di rendere percepibile all’esterno e di suscitare in altri il sentimento di avversione razziale, tenuto conto delle modalità di realizzazione della condotta e del contesto in cui essa è posta in essere.

Trattasi di una posizione ermeneutica a cui il giudice nomofilattico ha mostrato di aderire recentemente con le sentenze n. 7859 del 19 febbraio 2018 e n. 32028 del 12 luglio 2018, con le quali la Quinta Sezione della Cassazione ha applicato l’aggravante del razzismo ai reati contestati. Nel dettaglio, nelle rispettive sentenze citate, gli imputati avevano utilizzato nei confronti di soggetti di colore espressioni quali “tornatene nella giungla” e “dovete andare via”, alle quali la sensibilità collettiva accosta un’idea di disprezzo legato alla razza. Conducendo, dunque, un giudizio basato sul comune sentire e sull’analisi delle circostanze di fatto, il collegio ha sancito che il linguaggio utilizzato fosse, in realtà, strumentale al compimento di un’aggressione verbale, intrinsecamente rivelatrice di un sentimento di repulsione verso persone considerate di razza negletta.

3. I crimini basati sul pregiudizio sessuale: lo stato attuale della tutela giuridica.

Nella vita quotidiana il pregiudizio non assume soltanto contorni razziali. Per vero, i mass-media rendono costantemente noti episodi di delinquenza a matrice omofobica, ossia di ripugnanza nei confronti delle persone omosessuali. Il pregiudizio fondato sull’orientamento sessuale non costituisce un fenomeno recente, bensì ha radici ataviche, storicamente collocabili nel IV secolo d.C., quando il Cristianesimo divenne religione dell’Impero romano e, attraverso una lettura ortodossa delle Sacre Scritture, venne superata la concezione dell’omoerotismo come libera espressione della propria sfera intima, risalente al periodo delle civiltà antiche.

Giova sottolineare che, nonostante l’espresso ripudio di qualsiasi forma di discriminazione a sfondo sessuale da parte dell’ordinamento europeo, l’Italia non ha, ad oggi, dato forma legislativa allo spirito programmatico che permea gli artt. 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e 21 della Carta di Nizza, contrariamente alla maggior parte degli Stati membri, i quali sanzionano penalmente gli atti discriminatori fondati sull’orientamento sessuale.

Segnatamente, il più recente intervento legislativo di contrasto all’omofobia è il disegno di legge n. 1052 presentato dal deputato Ivan Scalfarotto, che, approvato alla Camera nel settembre 2013, è attualmente fermo in Commissione Giustizia al Senato. La principale ragione di questa paralisi risiede nel paventato rischio di un’incompatibilità tra la disciplina positiva e il diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero. Sulla scia, infatti, di una valorizzazione della tutela della dignità umana, il testo stabilisce la parziale estensione dell’ambito di operatività dell’impianto normativo già plasmato con riferimento ai reati motivati dallo stigma razziale. Nel dettaglio, da una parte, si propone l’introduzione del reato di istigazione a commettere atti discriminatori basati sul pregiudizio sessuale e, dall’altra, si promuove l’applicabilità dell’aggravante di odio altresì alle fattispecie connotate dalla finalità di omofobia. Inoltre, l’equilibrio tra le antitetiche istanze repressive e garantistiche poggia sulla clausola di garanzia, in nome della quale sono prive di rilevanza penale sia la libera manifestazione di opinioni conforme al pluralismo delle idee, purché non trasmodi nell’esortazione all’odio e alla violenza e sia le condotte conformi al diritto vigente.

Sennonché, al lettore attento non possono sfuggire l’indeterminatezza sostanziale e la conseguente ambiguità, che caratterizzano l’architettura normativa descritto. Da una parte, infatti, il generico riferimento all’odio omofobico costituisce terreno fertile per il progressivo rafforzamento del potere discrezionale del giudice, alla cui mera sensibilità viene rimesso l’accertamento concreto del reato e dell’aggravante. Dall’altra parte, invece, rilevano tanto il concetto di pluralismo ideologico quanto il richiamo al diritto vigente: in particolare, il primo non brilla di precisione e implica delucidazioni di carattere sociale e, quindi, mutevole; il rinvio al diritto vigente e non alla legge, poi, assume un respiro così ampio da consentire di scriminare qualsiasi comportamento astrattamente sanzionabile, in nome della libertà costituzionale di espressione. Del resto, a conferma dell’astratta pericolosità e fragilità dell’apparato normativo de quo si pone la stessa previsione di una norma di salvaguardia, che non sarebbe stata necessaria, laddove non si fosse avvertito il rischio concreto di compromettere una libertà fondamentale dell’ordinamento giuridico.

4. Riflessioni conclusive: il ruolo del diritto penale in una società senza morale.

In virtù delle coordinate giuridiche tracciate, è doveroso fornire degli spunti di riflessione, che possano rappresentare per il lettore utili chiavi di comprensione del sistema. Invero, sia la fonte costituzionale che il diritto sovrannazionale garantiscono la libera manifestazione del pensiero, in quanto espressione imprescindibile della personalità del singolo. Tuttavia l’esercizio di questo diritto, come di ogni forma di libertà individuale, trova come limite immanente il rispetto degli altrui diritti fondamentali. Di conseguenza esso rappresenta un canone che l’ordinamento tutela non in modo assoluto, ma in un’ottica di contemperamento con principi di pari rango, tra i quali è pacificamente enucleabile la dignità, connotato che tinge di valore la vita dell’essere umano. Sebbene, in linea astratta, siffatto bilanciamento possa essere realizzato mediante diverse tecniche di tutela, non dev’essere sottaciuta la funzione di extrema ratio congenita al diritto penale, in forza della quale il legislatore deve prevedere i reati e le relative pene solo quando è strettamente necessario, poiché la sanzione repressiva limita il bene della libertà personale, costituzionalmente protetto dall’art. 13.

Appurata tale premessa, è necessario, tuttavia, distinguere la fattispecie di odio razziale dall’ipotesi di avversione omofobica. Nel primo caso, infatti, si deve riconoscere la necessità dell’intervento penale, considerata l’inidoneità degli altri istituti giuridici a respingere la promozione di farneticanti teorie tese a vanificare l’uguaglianza tra le persone, in ragione dell’opinabile appartenenza ad una specifica razza. Nell’ambito, invece, degli atti di discriminazione fondati sull’omofobia, il confine tra esigenza ed opportunità è quanto mai labile, in quanto entrano in gioco tanto il valore della diversità ideologica quanto la sfera della morale.

Nel dettaglio, l’eventuale previsione di autonome fattispecie criminose a sfondo omofobico produrrebbe almeno due effetti sconvenienti. In primo luogo, emergerebbe un vistoso deficit democratico: invero, la distinzione tra il lecito e il sanzionabile è nebulosa e, di conseguenza, nessun consociato si sentirebbe più libero di esprimere idee antitetiche all’omosessualità o mere perplessità su tematiche quali il matrimonio o l’adozione tra persone del medesimo sesso, poiché le stesse sarebbero suscettibili di integrare reato. In secundis, giova evidenziare che in uno Stato laico, il diritto e la morale si collocano su due piani autonomi: infatti, lo scopo precipuo del diritto penale è quello di presidiare interessi giuridici di rilievo primario e non di condurre la collettività in una nuova dimensione culturale. Qualora ciò accadesse, si assisterebbe ad uno snaturamento della sanzione punitiva, che da mezzo di controllo sociale diventerebbe strumento di direzione educativa, con conseguenti derive paternalistiche dell’intero ordinamento penale.

Del resto, qualora gli atteggiamenti di insofferenza nei confronti degli omosessuali trasmodassero in attacchi fisici e verbali, soccorrerebbero fattispecie incriminatrici già presenti nell’ordinamento, quali a titolo dimostrativo la diffamazione, le lesioni personali, l’omicidio. Alle stesse, inoltre, potrebbe essere applicata la vigente circostanza aggravante di carattere comune, prevista dall’art. 61, comma 1 del codice penale e incentrata sui motivi abietti: per vero, la discriminazione sessuale costituisce una ripugnante negazione dei principi di uguaglianza e pari dignità e, come tale, è idonea a caricare di disvalore la condotta delittuosa posta in essere.

Dunque, poiché l’omofobia implica una patologia di natura sociale, il contrasto alla medesima non può che fondarsi sull’attivazione e sull’incremento degli strumenti culturali e pedagogici di cui la società dispone, come la famiglia, la scuola, le varie associazioni educativo-ricreative. Peraltro, la minaccia della pena rappresenta un valido deterrente rispetto alla commissione degli illeciti, ma, allo stesso tempo, non garantisce l’avvio di un reale processo di integrazione sociale: al contrario, potrebbe acuire il clima di intolleranza, perché i consociati sarebbero indotti a pensare che lo Stato (anti)democratico abbia abbattuto la scure della censura sulle opinioni individuali.

In conclusione, attribuire alla pena un’eccentrica funzione di correzione sociale si rivela un’operazione alquanto inutile, se la società resta priva di adeguati stimoli, capaci di rinnovarne lo spirito e di elevarne il paradigma culturale. Al contrario, l’enfasi e l’idolatria del diritto penale occultano il fallimento connesso ad un progresso formativo mancato, ad una rivoluzione sociale incompiuta, alla rinuncia da parte delle istituzioni all’assolvimento del loro compito educativo, finalizzato alla promozione del rispetto delle diversità.


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Mauro Giuseppe Cilardi

Pratica forense in diritto penale e diritto civile presso l'Ordine degli Avvocati di Bari; Tirocinio formativo ai sensi dell'art. 73 D.L. 69/2013 presso la Procura Generale presso la Corte di Appello di Bari; Laurea Magistrale a Ciclo Unico in Giurisprudenza con votazione 110/110 e lode con plauso della commissione presso l'Università degli Studi di Bari Aldo Moro

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