La libertà di non credere

La libertà di non credere

Tra i principi costituzionali sui quali si fonda il nostro ordinamento campeggia quello della libertà di religione, sancito dall’art. 19 Cost., il quale statuisce che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.

Ma cosa deve intendersi per “religione”? Tale interrogativo ha dato origine ad un vivace dibattito giurisprudenziale, che nel tempo ha portato ad un’evoluzione della nozione in esame, complice il sempre maggior spazio riservato alla materia dalla normativa internazionale ed europea.

L’ultimo approdo di tale percorso è rappresentato dalla recentissima ordinanza n. 7893/2020, pubblicata lo scorso 17 aprile, con la quale la Corte di Cassazione ha tracciato un’approfondita disamina della questione.

Il caso sottoposto all’attenzione degli Ermellini risale al mese di luglio 2013, allorquando l’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) chiedeva al Comune di Verona di essere autorizzata all’affissione di alcuni manifesti – sui quali era impresso il logo e la denominazione dell’associazione richiedente – riportanti la scritta “Dio”, con la lettera “D” sbarrata, seguita dalla frase “10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati, c’è l’UAAR al loro fianco”. A fronte di tale richiesta, la Giunta Comunale esprimeva il proprio diniego, ritenendo il manifesto “potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione”.

L’UAAR proponeva allora ricorso avanti il Tribunale di Roma – essendo ivi collocata la propria sede – chiedendo che, previo accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto posto dal Comune, quest’ultimo venisse condannato alla cessazione della condotta de qua, nonché al risarcimento del danno. Il ricorso veniva, però, rigettato e la decisione di primo grado veniva confermata dalla Corte d’Appello. Pertanto, l’UAAR decideva di impugnare la sentenza avanti la Corte di Cassazione.

Il quadro giurisprudenziale

L’art. 19 Cost. riconosce espressamente ai fedeli la libertà di professione, culto e propaganda, dovendosi quest’ultima intendere quale forma di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 Cost.. Tali libertà incontrano il proprio unico limite nella contrarietà al buon costume, ovverosia con il comune sentire della collettività sotto il profilo morale in un determinato periodo storico.

Sulla base del combinato delle due norme sopracitate, la Corte Costituzionale si è fatta a lungo portavoce di un’interpretazione che limitava il contenuto della libertà di religione al suo “profilo positivo” e, dunque, alla circostanza di avere un credo, ritenendo che l’ateismo fosse del tutto estraneo al principio di cui all’art. 19 Cost. (“l’ateismo comincia dove finisce la fede religiosa”, Corte Costituzionale, sentenza n. 58/1960).

In seguito, tuttavia, sulla base della valorizzazione del dettato degli artt. 2 e 3 Cost. in relazione alle disposizioni in esame, ha preso piede una lettura diversa e più ampia del concetto de quo. In particolare, si è cominciato a pensare che la libertà religiosa rientri nel novero della più ampia libertà di coscienza – da intendersi quale libertà di scegliere il proprio credo, scegliere di modificarlo e scegliere di non averne alcuno – e che, pertanto, oggetto di tutela sia tanto il diritto di credere quanto quello di non credere. La libertà di coscienza in ambito religioso rappresenta uno dei diritti inviolabili dell’uomo, a presidio dei quali è posto l’art. 2 Cost., e deve essere riconosciuta indistintamente a chiunque – credente, ateo o agnostico – poiché il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. non tollera alcuna discriminazione (riconoscendo a tutti i cittadini “pari dignità sociale, senza distinzione […] di religione […]”). Da ciò discende che a nessuno può essere imposto alcun atto, attinente alla sfera religiosa, che sia in contrasto con il proprio sentire (Corte Costituzionale, sentenze nn. 334/1996; 149/1995; 117/1979). Questo principio è posto a fondamento della scelta di eliminare qualsivoglia riferimento sacrale ad un’entità divina dalla formula del giuramento del testimone avanti all’Autorità giudiziaria, poiché l’imposizione di vincolarsi nei confronti di una divinità è stata ritenuta una violazione della libertà di coscienza di un soggetto ateo.

Alla medesima conclusione circa la necessaria parità di trattamento e tutela da riservare a credenti e non credenti si giunge volgendo lo sguardo alla normativa europea e internazionale. Invero, sia l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo sia l’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sanciscono espressamente il “diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”.

Con particolare riferimento all’ultima delle disposizioni citate, si precisa che il “Commento Generale n. 22” dell’ufficio dell’Alto Commissario ONU per i diritti umani ha esplicitato che essa è posta a presidio non solo di credenze teistiche, bensì anche di credenze non-teistiche e a-teistiche.

Tale principio è ribadito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale in più occasioni ha ribadito che la libertà in esame debba essere riconosciuta ad atei, agnostici, scettici e indifferenti, assicurando a costoro piena parità di trattamento rispetto ai credenti (cfr. Corte EDU, sentenza Spampinato c. Italia, 2007; sentenza Buscarini e altri c. San Marino, 1999).

Affinché tale caposaldo venga rispettato, è necessario evitare qualsiasi forma di discriminazione: tanto in forma diretta, che si configura qualora venga posto in essere un trattamento diversificato nei confronti di due categorie di individui, con l’intento di favorirne una e svantaggiare l’altra; quanto in forma indiretta, quale conseguenza di un comportamento apparentemente neutro ma in realtà idoneo ad avere ricadute negative su una determinata categoria, a vantaggio di un’altra (cfr. art. 2 Direttiva 2000/78 UE e art. 43 D.Lgs. n. 286/1998). Ciò vale anche sotto il profilo diacronico, ben potendosi ritenere configurata una discriminazione anche laddove l’atteggiamento favorevole e quello sfavorevole vengano posti in essere nell’ambito di contesti temporali diversi.

Il naturale corollario di questa equiparazione del pensiero religioso negativo e di quello positivo è una rilettura del principio di laicità dello Stato, di cui agli artt. 7 e 8 Cost.: esso si traduce, dunque, in una posizione di neutralità e di imparzialità da parte dei pubblici poteri nei confronti di qualsivoglia confessione religiosa, ivi comprese quelle di natura ateistica o agnostica, nell’ottica di salvaguardare un regime di pluralismo.

Una volta identificato il contenuto della libertà di religione e della libertà di coscienza, risulta opportuno individuarne i limiti. Ebbene, la linea di confine di tali libertà è rappresentata dal rispetto della sensibilità religiosa altrui, che non deve mai subire un pregiudizio in conseguenza di un atto di professione o diffusione di un diverso credo (o non-credo). Invero, la pratica e la propaganda religiosa non devono mai sfociare in condotte tali da integrare il reato di vilipendio, previsto e punito dall’art. 403 c.p., che si concreta in un atteggiamento di disprezzo gratuito, in un’offesa chiara e diretta, fine a se stessa, nei confronti degli appartenenti a confessioni diverse.

La decisione della Corte di Cassazione

Sulla base della ricostruzione suesposta, nel caso di specie la Corte ha ritenuto configurata una discriminazione ai danni della UAAR (e, in generale, dei soggetti da questa rappresentati), in quanto: il contenuto dei manifesti riproduceva esclusivamente il convincimento spirituale degli appartenenti all’associazione, senza che ciò si traducesse in un attacco diretto a screditare le diverse confessioni religiose e, pertanto, senza che venissero oltrepassati i confini della libertà di propaganda; il Tribunale – prima – e la Corte d’Appello – poi – si erano limitati a verificare che, nel medesimo orizzonte temporale in cui era stata negata l’autorizzazione di affiggere i manifesti oggetto di contestazione, il Comune non avesse concesso una simile opportunità ai seguaci di confessioni religiose portatrici di un credo positivo, senza invece tenere in adeguata considerazione la circostanza che in passato il diritto di propaganda di questi ultimi non avesse mai subito limitazioni e che, di fatto, tutti gli spazi risultavano ad essi riservati.

Pertanto, poiché il diniego appariva sorretto esclusivamente dalla finalità di impedire la diffusione, peraltro lecita, di un pensiero religioso negativo, la Corte di Cassazione, ribadito il principio di laicità dello Stato nonché il riconoscimento del diritto alla libertà di coscienza, religione e pensiero anche ad atei e agnostici, nell’ottica di una parità di trattamento e tutela, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.


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