La motivazione del provvedimento amministrativo

La motivazione del provvedimento amministrativo

Sommario: 1. Premessa – 2. Le funzioni della motivazione – 3. L’obbligo di motivazione: evoluzione e disciplina – 4. La diversa intensità della motivazione: applicazioni giurisprudenziali – 5. Sull’applicabilità degli artt. 21 septies e 21 octies L. 241/90 al difetto di motivazione – 6. La problematica della motivazione postuma

 

1. Premessa

È noto che l’esercizio del potere amministrativo deve essere legittimato dalla legge (principio di legalità[1]), al fine non solo di limitare l’azione dell’Autorità pubblica, ma anche per esigenze di garanzia dei destinatari dei provvedimenti amministrativi.

Inoltre, il potere amministrativo deve essere esercitato sempre in maniera conforme ai principi di imparzialità, ragionevolezza e proporzionalità.

Ebbene, in tale contesto, la motivazione del provvedimento rappresenta l’attestazione dell’avvenuto rispetto di tali principi.

Con la motivazione, infatti, l’Amministrazione procedente rende noto l’iter logico-giuridico dalla stessa seguito nell’esercizio del potere amministrativo. Più in particolare, la motivazione dell’atto amministrativo è lo strumento mediante il quale la Pubblica Amministrazione esplicita i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a fondamento del provvedimento adottato.

I presupposti di fatto non sono altro che gli elementi ed i dati fattuali emersi in sede istruttoria e valutati ai fini dell’adozione del provvedimento finale. Le ragioni giuridiche, invece, sono le argomentazioni di diritto poste a base del provvedimento, ossia le norme e i principi ritenuti applicabili al caso di specie.

In realtà, la dottrina propone una bipartizione, sostenendo che la motivazione si componga della giustificazione, consistente nell’elencazione dei presupposti di fatto e delle norme poste a base del provvedimento, e dei motivi, i quali chiariscono il perché la P.a. sia pervenuta all’adozione di un provvedimento con quel determinato contenuto piuttosto che un altro.

Tuttavia, appare necessario specificare come la motivazione non si limiti ad esternare le ragioni del provvedimento, ma testimoni altresì il regolare svolgimento del procedimento amministrativo, in quanto da essa deve risultare che il provvedimento finale è il frutto del corretto bilanciamento di tutti gli interessi, pubblici e privati, emersi nel corso del procedimento[2].

Infatti, la motivazione è uno dei modi attraverso cui trova concretizzazione il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, nonché il principio di democraticità della stessa, in quanto la lettura della motivazione permette di accertare la correttezza o meno dell’operato della P.a.

Le poche informazioni fin qui fornite consentono già di comprendere la complessità e l’importanza dell’istituto della motivazione. L’obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare più da vicino la tematica, sottolineandone alcuni degli aspetti problematici, seppure senza pretese di esaustività.

2. Le funzioni della motivazione

Un’indagine che abbia l’obiettivo di cogliere i tratti essenziali dell’istituto della motivazione non può che partire dall’osservare quelle che sono le sue funzioni.

La motivazione del provvedimento amministrativo si rivolge a diversi soggetti – i destinatari diretti del provvedimento, la generalità dei cittadini, il giudice – ed in riferimento a ciascuno di essi svolge una funzione diversa.

In particolare, nel rivolgersi ai soggetti che potrebbero essere incisi dal provvedimento, può dirsi che la motivazione svolga una funzione garantistica in un duplice senso: innanzitutto, perché attraverso di essa il soggetto può convincersi della legittimità del provvedimento; in secondo luogo, perché la motivazione fornisce al destinatario dell’atto tutte quelle conoscenze necessarie per permettergli di valutare se attivare i rimedi giurisdizionali avverso il provvedimento e quali potrebbero essere i motivi di ricorso[3].

Nel rivolgersi al giudice, invece, la motivazione svolge una funzione interpretativa, in quanto gli consente di conoscere le ragioni del provvedimento, nonché l’iter logico-giuridico che ha portato l’Amministrazione procedente alla sua adozione, in modo da metterlo nelle condizioni di valutare la correttezza o meno dell’operato della P.a. e/o la sussistenza di vizi.

In riferimento alla generalità dei consociati – seppure sul punto non tutti siano d’accordo – la motivazione svolgerebbe una funzione di controllo democratico, poiché permetterebbe il formarsi di una opinione pubblica sul provvedimento.

In ultimo, come già anticipato, la motivazione garantisce la trasparenza dell’azione amministrativa, rendendola controllabile da parte dell’opinione pubblica. La trasparenza, come effetto riflesso, dovrebbe comportare una responsabilizzazione degli organi delle pp.aa., stimolandoli al rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.)[4].

3. L’obbligo di motivazione: evoluzione e disciplina

Prima della L. 241/90, nel nostro ordinamento non vi era una disciplina di carattere generale che prevedesse l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi.

Tuttavia, l’importanza dell’istituto era avvertita anche in assenza di una norma ad hoc.

Il Consiglio di Stato, infatti, già in una pronuncia del 1907, affermava che la motivazione è la ragione del giudizio, rende noto per quale motivo si adotta una soluzione anziché un’altra. La motivazione è la forma intrinseca dell’atto.

Con parere del 3 febbraio 1908, poi, l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato espressamente sosteneva che la motivazione è necessaria alla legittimità del provvedimento, in quanto evita l’arbitrio[5].

Anche la dottrina era attenta alla problematica e, per colmare il vuoto normativo, cercava di individuare, in varie norme di copertura, il fondamento di un obbligo generale di motivazione, facendo riferimento alla legge di abolizione del contenzioso amministrativo, la quale prevede l’obbligo di motivazione per le decisioni sui ricorsi amministrativi, nonché all’art. 111 Cost. che prevede l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali[6].

Nonostante tali affermazioni, però, l’obbligo generalizzato di motivare i provvedimenti amministrativi tardava ad essere previsto e tale situazione portava con sé una serie di conseguenze negative.

Innanzitutto, veniva fortemente compromesso il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, in quanto – in assenza dell’indicazione dell’iter logico-giuridico seguito per assumere la decisione – non era possibile accertare la correttezza dell’operato della P.a.

Strettamente connessa a questa vi era un’altra conseguenza negativa: senza conoscere le argomentazioni giuridiche e gli elementi di fatto posti a sostegno della decisione assunta, il destinatario dell’atto non poteva comprendere appieno gli elementi di illegittimità dello stesso ed era costretto ad articolare un ricorso “al buio”.

Allo stesso tempo risultava depotenziato il controllo giurisdizionale, poiché il giudice non aveva la possibilità di verificare la correttezza o meno dell’operato della P.a.

Al fine di limitare tali effetti negativi, la giurisprudenza aveva enucleato alcune tipologie di provvedimenti amministrativi, i quali, in caso di motivazione assente o insufficiente, venivano ritenuti viziati da eccesso di potere.

In particolare, la motivazione veniva richiesta per gli atti discrezionali, per i pareri, per gli atti destinati ad incidere sfavorevolmente sulla sfera del destinatario, per gli atti di diniego di istanze presentate dai privati.

Non vi era, però, una visione unitaria sulla motivazione, in quanto si fronteggiavano due teorie: quella formale che considerava la motivazione come mero complesso di segni linguistici attraverso cui l’Amministrazione esplicitava l’iter logico-giuridico seguito per l’adozione del provvedimento; quella sostanziale che, invece, intendeva la motivazione come sufficienza del materiale giustificativo prodotto nel procedimento ed idoneo a sorreggere il provvedimento.

In tale contesto si innesta la L. 241/1990, che all’art. 3 prevede espressamente l’obbligo generale di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei concorsi ed il personale, con la sola eccezione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale.

Pertanto, oggi il provvedimento amministrativo privo di motivazione o non sufficientemente motivato è annullabile per violazione di legge, rectius per violazione dell’art. 3 L. 241/90.

La norma in menzione – secondo le distinzioni fatte poc’anzi – sembra aver qualificato come motivazione quella che tradizionalmente viene definita “giustificazione”, mentre non sancisce l’obbligo di enunciare i “motivi” del provvedimento e sembra, altresì, aver accolto la nozione formale di motivazione[7].

Successivamente, la Legge 11 febbraio 2005, n. 15 ha apportato rilevanti modifiche ed integrazioni alla L. 241/90 e tali modifiche hanno ampliato l’obbligo di motivazione dei provvedimenti.

Più in particolare, la citata legge ha aggiunto un nuovo periodo all’art. 6, comma 1 lett. e) L. 241/90, prevedendo che l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, nel caso in cui sia diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria senza indicarne le motivazioni nel provvedimento finale.

Tale previsione testimonia quel ruolo di “cerniera” che la motivazione svolge tra la fase istruttoria del procedimento amministrativo e la decisione contenuta nel provvedimento finale[8].

Inoltre, con la L. 15/2005 è stato aggiunto alla L. 241/90 l’art. 10 bis, il quale prevede che, nei procedimenti instaurati ad istanza di parte, il responsabile del procedimento – prima di adottare un provvedimento negativo – debba comunicare anticipatamente all’istante i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza dallo stesso presentata.

A seguito di tale comunicazione, nota come preavviso di rigetto, il privato può presentare osservazioni e documenti. Tali osservazioni devono essere attentamente valutate dalla P.a. procedente, la quale, nel caso in cui non intenda accoglierle, deve darne adeguato conto nella motivazione del provvedimento finale.

È evidente, quindi, come il legislatore abbia colto l’importanza dell’istituto della motivazione e stia riservando allo stesso sempre maggiore spazio ed attenzione.

4. La diversa intensità della motivazione: applicazioni giurisprudenziali

L’obbligo di motivazione descritto non risponde ad uno standard fisso ed immutabile, ma varia in base a tre fattori: tipo di potere esercitato dalla P.a.; tipo si situazione vantata dal soggetto inciso; grado di prevalenza di un determinato interesse pubblico rispetto agli altri interessi, pubblici e privati, in gioco.

In generale, può dirsi che il contenuto della motivazione è più ampio e rafforzato in relazione ad alcuni tipi di provvedimenti, meno ampio rispetto ad altri e quasi del tutto assente in ipotesi speciali[9].

Una motivazione più intensa ed articolata è certamente richiesta a corredo di provvedimenti discrezionali, mentre nei provvedimenti vincolati la motivazione può essere meno intensa senza inficiare la legittimità dell’atto.

La bontà di tale assunto viene confermata quotidianamente in riferimento, ad esempio, ai provvedimenti di diniego/revoca del porto d’armi, tipici provvedimenti discrezionali, nonché in riferimento ai provvedimenti di demolizione, provvedimenti al contrario di natura vincolata.

In particolare, la giurisprudenza amministrativa, con orientamento consolidato, ritiene che – seppure in tema di rilascio di autorizzazioni di polizia, ricorra un’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nella valutazione relativa all’affidabilità di un soggetto al porto delle armi – è necessario che siffatta discrezionalità venga esercitata correttamente, ossia con adeguata istruttoria, valutazione dei presupposti e con idonea motivazione. Il pericolo di abuso delle armi, che costituisce comprensibile preoccupazione per le Autorità di Pubblica Sicurezza, non solo deve essere comprovato, ma richiede alla P.a. una adeguata valutazione prognostica sulla personalità del soggetto, dando adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento di tutte le circostanze dalle quali abbia tratto elementi sfavorevoli all’accoglimento dell’istanza.

Dunque, è illegittimo il provvedimento di rigetto dell’istanza di rilascio/rinnovo della licenza di porto d’armi, disposto dall’Amministrazione, se il diniego non è motivato in questi termini, in quanto non può ritenersi sufficiente una motivazione scarna, apodittica, fondata su un singolo elemento non corroborato da ulteriori indizi[10].

In riferimento ai provvedimenti di demolizione, al contrario, l’orientamento ermeneutico consolidato ritiene che – essendo i provvedimenti di demolizione atti vincolati, il cui presupposto è costituito esclusivamente dalla realizzazione di opere in assenza del titolo edilizio – per l’adozione di tali atti non è richiesta una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla demolizione, in quanto, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, la P.a. ha il dovere di adottare il provvedimento, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore[11].

5. Sull’applicabilità degli artt. 21 septies e 21 octies 241/90 al difetto di motivazione

La già citata Legge 11 febbraio 2005, n. 15, intervenendo sulla legge regolatrice del procedimento amministrativo (L. 241/90), oltre alle novità già evidenziate, ha introdotto anche due norme che, indirettamente, potrebbero incidere sulla motivazione dei provvedimenti amministrativi.

La prima di tali norme è l’art. 21 septies, il quale prevede espressamente: “È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

Ebbene, innanzi a tale norma, l’interrogativo che ci si pone è se la motivazione, richiesta espressamente dall’art. 3 L. 241/90, sia o meno un elemento essenziale del provvedimento.

Dalla risposta che si dà a tale interrogativo dipende, in caso di mancanza della motivazione, la nullità o meno del provvedimento sulla scorta della disposizione in esame.

Secondo l’idea della dottrina classica la motivazione non è un elemento essenziale dell’atto, ma un requisito di validità dello stesso che ne condiziona la legittimità.

Pertanto, in base a tale visione, l’assenza di motivazione sarebbe motivo di annullabilità e non di nullità del provvedimento e l’art. 21 septies non troverebbe applicazione.

In tal senso risulta orientato anche il diritto comunitario, il quale inquadra il vizio di motivazione tra i vizi formali e non tra quelli sostanziali.

Secondo un’altra ricostruzione – minoritaria, ma attenta alla ratio garantista dell’obbligo di motivazione – la motivazione costituirebbe elemento essenziale del provvedimento, la cui assenza implicherebbe la nullità strutturale del provvedimento, poiché renderebbe del tutto incerto e non individuabile l’iter logico seguito dalla P.a. [12].

Di conseguenza, in base a tale lettura l’art. 21 septies troverebbe applicazione in assenza di motivazione.

Altra disposizione che potrebbe avere effetti indiretti sulla motivazione è quella contenuta nell’art. 21 octies, comma 2, in base al quale l’atto non può essere annullato per violazione di norme sul procedimento e/o sulla forma, quando per la natura vincolata dello stesso risulti evidente che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Orbene, quando il vizio consiste nel difetto di motivazione non è pacifica l’applicazione della norma in parola, poiché non è certo che si tratti di un vizio di forma o di procedimento.

Se si qualificasse la motivazione quale requisito formale del provvedimento, infatti, sarebbe possibile includere senza problemi la sua assenza o insufficienza tra i vizi non invalidanti, ai sensi dell’art. 21 octies, comma 2 L. 241/90.

Tuttavia, sembra preferibile adottare soluzioni diverse a seconda del provvedimento in concreto posto in essere dalla P.a. In altre parole, sembra ragionevole ritenere che la motivazione assuma valenza formale o sostanziale a seconda del tipo di attività, discrezionale o vincolata, esercitata dall’Amministrazione[13].

Invero, se in riferimento all’attività discrezionale della P.a. si tende a ritenere che i vizi della motivazione, sintomatici di un eccesso di potere, siano vizi sostanziali e non formali, lo stesso non può dirsi in riferimento all’attività vincolata della P.a.

Nei provvedimenti espressione di attività vincolata, secondo la tesi preferibile, il difetto di motivazione è un vizio formale che rientra nella categoria della violazione di legge.

Pertanto, non c’è alcuna preclusione all’applicazione dell’art. 21 octies, comma 2 ai provvedimenti vincolati che presentino vizi di motivazione. In ogni caso, la P.a. nel corso del giudizio dovrà dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[14].

Del resto, la stessa norma in parola consente la conservazione degli effetti solo di atti espressione di attività vincolata, in quanto espressamente dispone: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

6. La problematica della motivazione postuma

Il presente lavoro non può concludersi senza un breve cenno alla problematica avente ad oggetto l’ammissibilità ed i limiti della c.d. motivazione postuma.

Quando si parla di motivazione postuma si fa riferimento alla possibilità da parte della P.a. di integrare ex post, ossia in corso di giudizio, la motivazione del provvedimento impugnato, il quale ab origine presenta una motivazione del tutto scarna ed insufficiente oppure ne è addirittura privo.

Ebbene, l’ammissibilità della motivazione postuma non è mai stata pacifica, infatti, al riguardo si registra un forte contrasto di opinioni.

La tesi tradizionale nega la possibilità della motivazione postuma sulla base di una serie di argomentazioni.

La prima argomentazione, che potrebbe ritenersi ormai superata, è di ordine processuale: il processo amministrativo è un giudizio sull’atto, nel quale si valuta non tanto la pretesa sostanziale del privato, quanto la conformità dell’atto amministrativo alla legge. Pertanto, il provvedimento non motivato è ex se illegittimo per violazione dell’art. 3 L. 241/90 ed il giudice, nel corso del giudizio, deve rilevare la ricorrenza di tale vizio, non potendo ricavare aliunde elementi che integrino o colmino lacune dell’elemento motivazionale di fatto mancante.

Ancora, l’avversione nei confronti dell’istituto de quo viene motivata in base all’argomento secondo il quale, la motivazione postuma violerebbe il principio costituzionale della parità delle parti nell’ambito del processo. In particolare, verrebbe violato il diritto di difesa del privato inciso dal provvedimento e, allo stesso tempo, l’Amministrazione godrebbe di un ingiustificato privilegio.

Inoltre, la motivazione postuma vanificherebbe la riforma posta in essere, sul piano della trasparenza, con l’introduzione dell’art. 3 L. 241/90 e si porrebbe in violazione a tale norma, avallando la degradazione della motivazione da requisito sostanziale del provvedimento ad elemento formale[15].

In ultimo, poiché la motivazione assolve alla funzione di rendere intellegibile l’operato
della P.a., secondo tale impostazione essa deve costituire un “prius” e non un “post” dell’atto cui si riferisce, anche e soprattutto per il fatto che il processo dovrebbe rimanere un’indagine avente ad oggetto la realtà fattuale “fotografata” dall’atto al momento della sua impugnazione da parte del privato.

Dunque, l’inammissibilità della motivazione postuma deriverebbe anche dal divieto di ampliare
il thema decidendum originario e di rispettare il principio della domanda e della corrispondenza
tra chiesto e pronunciato (ex art. 112 cpc)[16].

Accanto a tale impostazione se ne registra un’altra che, al contrario, ritiene ammissibile l’integrazione in giudizio della motivazione dell’atto amministrativo da parte della P.a. e giunge a tale conclusione confutando le singole argomentazioni prospettate dalla tesi opposta.

Innanzitutto, per quanto riguarda l’oggetto del giudizio, secondo tale impostazione il giudizio amministrativo non è più un giudizio sull’atto, ma è divenuto un giudizio sul rapporto, nel quale il sindacato del giudice non si limita più al singolo atto impugnato, ma investe la giustizia sostanziale dell’attività complessiva posta in essere dall’Amministrazione e la spettanza del bene della vita.

Pertanto, se il giudizio ha ad oggetto il rapporto, la P.a. deve necessariamente poter integrare la motivazione in giudizio, altrimenti perde l’occasione di farlo, non potendo più riesercitare il potere con l’ampiezza originaria, in quanto ciò potrebbe esserle precluso dalla sentenza sfavorevole[17].

All’obiezione circa la violazione del principio di parità delle parti del processo, la teoria favorevole in parola obietta che le conseguenze che il privato potrebbe subire, non consentendo l’integrazione della motivazione del provvedimento, potrebbero paradossalmente essere deteriori.

Invero, l’annullamento dell’atto per carenza di motivazione rappresenta, per così dire, una “vittoria di Pirro” per il privato, ossia rappresenta solo una vittoria processuale, poiché la P.a. potrebbe riadottare lo stesso provvedimento sfavorevole, integrando la motivazione. Il privato, per contestare quest’altro provvedimento, sarebbe costretto ad instaurare un nuovo giudizio.

Se, invece, si consente la motivazione postuma, tutte le questioni possono essere concentrate in un unico giudizio, il quale si chiude con una pronuncia di cessazione della materia del contendere.

Inoltre, l’attribuzione alla P.a. del potere di integrare in giudizio la motivazione non viola il principio di parità delle armi processuali, in quanto il privato – che effettivamente in un primo momento ha impugnato “al buio” – ha sempre la possibilità di proporre ricorso per motivi aggiunti.

All’affermazione secondo cui la possibilità di integrazione postuma della motivazione andrebbe a collidere con l’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3 L. 241/90, favorendo la “dequotazione” della motivazione, i fautori della teoria favorevole rispondono sostenendo che la disposizione citata è in ogni caso rispettata, poiché la motivazione c’è, anche se è a formazione progressiva. Infatti, l’ammissibilità della motivazione a formazione successiva non mette in discussione, anzi, presuppone l’obbligo di motivazione sancito dalla legge[18].

 

 

 

 

 


[1] Si discute sul fondamento normativo di tale principio. Si registra una sostanziale convergenza di vedute nel ritenerlo desumibile dagli artt. 24, 97 e 113 Cost. Ma, nel novero delle norme poste a fondamento del principio di legalità, potrebbero rientrare anche gli artt. 23 e 42 Cost. A livello di legge ordinaria, il principio in parola risulta positivizzato dall’art. 1 L. 241/90, il quale, al comma 1, così recita: “L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai princípi dell’ordinamento comunitario”.
[2] Cfr. sul punto, F. Caringella, “Manuale di diritto amministrativo”, X Edizione, Dike, Roma, 2016, pagg. 1449-1450.
[3] Infatti, l’art. 3 L. 241/90 prevede che la P.a. indichi al soggetto inciso dal provvedimento l’Autorità alla quale può ricorrere ed entro quale termine può farlo.
[4] Per approfondimenti, M. Santise, “Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo”, Giappichelli, Torino, 2018, pagg. 316-317.
[5] Cfr. M. Santise, opera cit., pagg. 318 s.s.
[6] Cfr. F. Caringella, opera cit., pag. 1450.
[7] Per approfondimenti sul punto v. M. Santise, opera cit., pag. 321.
[8] V. I. Rossi, “La motivazione del provvedimento amministrativo: evoluzione storica dell’istituto, sua disciplina positiva e possibilità di integrazione postuma”, in www.ildirittoamministrativo.it, pag. 5.
[9] Cfr. M. Santise, opera cit., pag. 324.
[10] Cfr. ex multis TAR Campobasso, Sez. I, 20.04.2021, n. 153; TAR Perugia, Sez. I, 06.11.2020, n. 495; Consiglio di Stato, Sez. III, 20.05.2020, n. 3199.
[11] Cfr. in tal senso Consiglio di Stato, Sez. II, 23 luglio 2020, n. 4704; Consiglio di stato, Sez. VI, 30 aprile 2019, n. 2821; TAR Salerno, Sez. II, 21 gennaio 2021, n. 193.
[12] Cfr. F. S. Martucci di Scarfizzi, “L’integrazione postuma della motivazione alla luce dell’art.21 octies comma 2 della Legge n.241 del 1990. Profili di incidenza sugli atti regolatori adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti”, in Diritto Mercato Tecnologia, n. 3, 2015, pagg. 14-15.
[13] Cfr. F. Caringella, opera cit., pag. 1471.
[14] Cfr. M. Santise, opera cit., pagg. 332-333.
[15] Cfr. F. Caringella, opera cit., pag. 1475.
[16] V. I. Rossi, opera cit., pag. 9.
[17] V. M. Santise, opera cit., pag. 329.
[18] V. M. Santise, opera cit., pagg. 328-329 e F. Caringella, opera cit., pagg. 1476-1477.

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