La nullità della compravendita immobiliare a seguito di insanabili difformità edilizie ed urbanistiche

La nullità della compravendita immobiliare a seguito di insanabili difformità edilizie ed urbanistiche

Sommario: 1. La nullità contrattuale nel Codice Civile – 2. La nullità urbanistica – 3. Gli interventi successivi alla costruzione iniziale – 4. I fabbricati di costruzione anteriore al 1 settembre 1967

1. La nullità contrattuale nel Codice Civile 

Il presente scritto analizza il tema della nullità della compravendita immobiliare ai sensi dell’articolo 46 del D.P.R. 380/2001 anche alla luce della pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 8230 del 22 Marzo 2019 che, almeno per il momento, sembra comporre il vivacissimo dibattito intorno alla natura formale o sostanziale della nullità urbanistica comminata dall’articolo 46 del D.P.R. 380/2001; dibattito che è figlio di un altro annoso problema interpretativo, che riguarda l’esatta definizione della cosiddetta nullità “virtuale” di cui all’articolo 1418, comma I, c.c..

L’ordinamento prevede molteplici ipotesi di nullità e, in particolare, di nullità contrattuale. Il Codice Civile, all’articolo 1418 dispone in via generale la nullità del contratto quando esso «è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente», ovvero quando è carente di uno dei requisiti essenziali previsti dall’art. 1325 c.c., quando ha causa o motivi illeciti, quando ha un oggetto illecito, impossibile, non determinato o determinabile e, infine, in tutti gli altri casi specificamente previsti dalla legge.

Secondo il dettato normativo, quindi, la nullità può dipendere da diversi fattori:

– la comminatoria della nullità può essere espressamente sancita dalla legge (c.d. nullità testuale);

– può dipendere da un vizio formale e/o strutturale dell’atto (c.d. nullità strutturale);

– può derivare dalla contrarietà alle norme imperatrici (c.d. nullità virtuale). 

Risulta evidente come le nullità testuali siano di agevole identificazione, mentre altrettanto non può dirsi per le restanti ipotesi di nullità dal momento che, in alcuni casi, sembrerebbero addirittura sovrapporsi.

Più nel dettaglio, le ipotesi di nullità virtuale richiedono maggiori sforzi interpretativi per capire quando una norma che non sanziona espressamente in termini di nullità un atto con essa contrastante, debba qualificarsi come imperativa ai fini del comma 1 dell’articolo 1418 c.c. .

Pur non potendo compiutamente affrontare la questione in questa sede, basti rilevare che, tradizionalmente, le norme imperative si contrappongono alle norme dispositive: queste ultime, da un lato, sono derogabili (anche dette norme c.d. cedevoli) con l’accordo delle parti e, dall’altro, colmano eventuali lacune dell’accordo. Le norme imperative, al contrario, sono norme cogenti dell’ordinamento che contengono precetti non derogabili neanche con il consenso delle parti.

La questione è ben più complessa di quello che appare, perché non è sempre agevole individuare la natura imperativa di una norma, anche se la dottrina ha individuato diversi criteri per poterla individuare con maggiore facilità.

Ad ogni buon conto, l’elemento che accomuna tutte le norme che determinano la nullità del contratto, ivi comprese quelle imperative, non sta nella natura dell’interesse generale protetto, ma nelle modalità con cui questo è tutelato dall’ordinamento [1] e dalla complessa valutazione di tutti gli interessi disciplinati.

Ne deriva che l’imperatività non può ritenersi fondata su elementi che preesistono alla norma stessa, ma è una qualificazione che questa riceve «proprio in considerazione delle conseguenze previste in caso di violazione. Attraverso la nullità, del resto, l’ordinamento non soltanto nega valore vincolante al regolamento pattuito dai contraenti, ma prevede altresì una disciplina del contratto nullo, che è a sua volta sottratta al potere di disposizione delle parti, anche di quella a protezione della quale sia stata eventualmente stabilita» [2].

2. La nullità urbanistica

Con il presente scritto si vuole approfondire approfondire la più specifica tematica della nullità (e delle sue articolazioni di nullità virtuale, strutturale o testuale) di un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile con insanabili difformità edilizie ed urbanistiche.

La c.d. nullità urbanistica è una speciale ipotesi di nullità relativa agli atti aventi ad oggetto immobili irregolari dal punto di vista urbanistico.

Tale sanzione venne introdotta per la prima volta nell’ordinamento dall’art. 10 della legge n. 765 del 1967, che disponeva che «gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale sono nulli ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza di una lottizzazione autorizzata». Successivamente, l’art. 15, comma 7, della Legge n. 10 del 1977 (c.d. Legge Bucalossi) ampliò i casi di nullità estendendola a tutti gli atti aventi per oggetto immobili costruiti in assenza di coesione o di un titolo abilitativo, «ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione».

Oggi, l’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 — Testo unico in materia edilizia (nel prosieguo t.u.ed.) — sancisce la nullità degli atti tra vivi, in forma pubblica o privata, aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali, relativi a edifici o loro parti, dai quali non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione certificata di inizio attività.

Con questa norma il legislatore non ha disposto tout court l’incommerciabilità degli immobili abusivi, ma ha previsto, ai fini della validità dell’atto di compravendita dell’immobile, soltanto l’indicazione degli estremi del titolo abilitativo come requisito essenziale dell’atto.

In ragione della equivoca formulazione della disposizione, la sanzione della nullità degli atti di trasferimento di immobili abusivi ha visto tradizionalmente fronteggiarsi due orientamenti distinti, espressione di due contrapposte teorie che configurano diversamente la natura della nullità urbanistica, ossia la teoria c.d. formale versus la teoria c.d. sostanziale.

Secondo la tesi formale, la nullità del contratto si profilerebbe esclusivamente in assenza delle menzioni richieste dall’art. 46 t.u.ed., mentre saranno validi gli atti aventi ad oggetto beni immobili non conformi al titolo, che però ne contengano la menzione richiesta dalla legge.

Per la teoria sostanziale, al contrario, la nullità si dovrebbe ravvisare anche laddove l’immobile dedotto in contratto non sia conforme al progetto indicato nel titolo abilitativo. I fautori della teoria sostanziale, quindi, attribuiscono alla sanzione della nullità una funzione preventiva volta alla repressione dell’abusivismo edilizio. In questo senso, non sarebbe sufficiente la menzione in atti degli estremi del titolo abilitativo, ma occorrerebbe altresì la conformità dell’immobile al titolo stesso.

In tale ottica, la norma sarebbe da ricondurre alla categoria della nullità virtuale ex art. 1418, comma I, c.c., poiché l’articolo 46 del t.u.ed. costituirebbe norma imperativa che pone un generale divieto di circolazione di immobili abusivi.

In altra prospettiva, comunque, il fondamento della natura sostanziale dell’atto andrebbe rinvenuto nel combinato disposto degli artt. 1418, comma II, c.c. e 1346 c.c. e, precisamente, nell’illiceità dell’oggetto o nell’impossibilità giuridica dello stesso. L’abusivismo del bene renderebbe l’immobile stesso inidoneo ad essere dedotto come oggetto del contratto di compravendita.

La scelta dell’una o dell’altra soluzione, non è evidentemente semplice: se si predilige l’impostazione formale, le ipotesi di nullità sono drasticamente ridotte, mentre, prediligendo l’impostazione sostanziale, si tutele l’interesse pubblico del contrasto all’abusivismo edilizio.

Il contrasto è stato, di recente, dipanato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8230 del 22 Marzo 2019, affermando la natura testuale della nullità in questione ai sensi dell’articolo 1418 comma 3 c.c. . 

La Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “la nullità comminata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, e dalla L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell’àmbito dell’art. 1418 c.c., comma 3, di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile”.

Quindi, la conformità o la difformità della costruzione al titolo menzionato nel contratto non è rilevante ai fini della validità del contratto stesso, in quanto tale profilo non è previsto dalle disposizioni che comminano la nullità. Da ciò discende l’altro principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, per cui “in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato”.

Gli ermellini criticano l’equivocità della teoria sostanziale che dal contesto normativo desume l’intenzione del legislatore di rendere tout court incommerciabili gli immobili non in regola urbanisticamente. Nella sentenza de qua, infatti, la Corte pone l’accento sull’art. 12 disp. prel. al c.c., ove si afferma che, nell’applicare la legge, «non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», dovendo pertanto essere privilegiata l’interpretazione letterale della norma.

Ebbene, come anticipato, la norma sancisce la nullità degli atti da cui non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire, del permesso in sanatoria o gli estremi della segnalazione certificata di inizio attività.

La Suprema Corte, pur riconoscendo che l’orientamento sostanziale ha il pregio di contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio, sostiene che sanzionare con la nullità gli atti di trasferimento di immobili non conformi urbanisticamente costituisce una interpretazione che contrasta con l’articolo 12 delle preleggi, giacché “la lettera della norma costituisce un limite invalicabile dell’interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis”.

La Corte esclude, ancora, che la nullità urbanistica possa farsi rientrare tra le ipotesi di nullità virtuale, di cui al primo comma dell’art. 1418 c.c. “che presupporrebbe l’esistenza di una norma imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale divieto, non trova riscontro in seno allo jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche ipotesi di nullità”.

Nel senso della nullità cd. testuale a discapito di quella virtuale avallata dalla teoria sostanziale milita, come correttamente evidenziato dalla Suprema Corte, la “finalità di contrasto dell’abusivismo edilizio deve essere contemperata con l’esigenza di tutela dei traffici giuridici”, la quale risulterebbe irrimediabilmente compromessa ove si sanzionasse con la nullità anche la difformità della costruzione rispetto al titolo: le incertezze conseguenti alla spesso difficile definizione dei confini tra difformità totale, variazioni essenziali, difformità parziali renderebbe del tutto aleatoria e difficile la circolazione degli immobili.

Il legislatore ha inteso perseguire l’interesse pubblico del contrasto all’abusivismo prevedendo, con l’articolo 46 t.u.ed., ai fini della validità dell’atto, la menzione degli estremi del titolo abilitativo riferibile all’immobile dedotto in contratto.

La mancata applicazione della sanzione della nullità in caso di difformità non pregiudica la tutela dell’interesse pubblico, in quanto il contrasto all’abusivismo viene adeguatamente realizzato attraverso la previsione e l’irrogazione delle sanzioni di carattere amministrativo, oltre che mediante l’irrogazione di sanzioni penali, ma non a mezzo della sanzione civilistica della nullità.

La Corte, oltre a statuire che “in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e costruzione, l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità”, afferma anche che “in costanza di una dichiarazione reale e riferibile all’immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato”. Infatti, grazie alla dichiarazione dell’alienante, l’acquirente può svolgere tutte le indagini opportune per verificare la regolarità urbanistica dell’immobile e la conseguente convenienza dell’affare.

3. Gli interventi successivi alla costruzione iniziale 

Quid iuris in caso di intervento di ristrutturazione eseguito successivamente alla costruzione iniziale, per il quale sia stato rilasciato un regolare titolo abilitativo, i cui estremi non sono stati però indicati in atto?

Alla domanda si trova agevolmente risposta, esaminando il combinato disposto degli articoli 46, comma 5-bis, 23, comma 01 e 10, comma I, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, da cui si ricava che devono essere indicati nel contratto, a pena di nullità, anche gli estremi del titolo abilitativo edilizio (permesso di costruire, o SCIA), relativo a «interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni».

In altri termini, la legge impone l’indicazione nell’atto, a pena di nullità, non solamente degli estremi del titolo iniziale, ma anche di quelli del titolo successivamente rilasciato, ove si tratti di una ristrutturazione in base ai parametri di cui alle norme sopra citate.

Si tratta anche in questo caso, come affermato dalla Cassazione nella sentenza in esame, di una nullità testuale di cui all’art. 1418 comma I c.c.. 

4. I fabbricati di costruzione anteriore al 1 settembre 1967 

L’articolo 40 L. 47 del 1985, consente di stipulare validamente un atto anche con l’allegazione della relativa domanda e versamento delle prime rate di oblazione, o con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l’inizio della costruzione in epoca anteriore al 1 settembre 1967.

La norma supera le difficoltà di reperire licenze edilizie rilasciate in anni remoti, non richiedendo la menzione nell’atto di compravendita, essendo sufficiente dichiarare l’anteriorità dell’inizio dei lavori di costruzione alla suddetta data. L’unica condizione è che tale dichiarazione sia veritiera, altrimenti l’atto sarà nullo.

Nella pronuncia in esame, la Corte tratta le ipotesi dell’art. 46 t.u.d. e degli articoli 17 e 40 L. n. 47 del 1985 in maniera congiunta, perciò anche in caso di immobili di remota costruzione (ante 1967) nonostante qualsivoglia abuso, di qualsivoglia genere e gravità, in presenza di una dichiarazione (veritiera) di inizio lavori anteriormente alla suddetta data, l’atto rimane sempre valido. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui siano realizzate, inizialmente o successivamente (purché entro il 31 agosto 1967) unità immobiliari autonome completamente abusive.

Le uniche sanzioni applicabili saranno quelle penali e amministrative, ricorrendone i presupposti. A tal fine la Corte afferma: “il dettato normativo indica, quindi, che il titolo deve realmente esistere e, quale corollario a valle, che l’informazione che lo riguarda, oggetto della dichiarazione, deve esser veritiera”.

 

 

 

 


[1] A. Albanese, Non tutto ciò che è «virtuale» è razionale: riflessioni sulla nullità del contratto,  in Europa e dir. priv., fasc. 2, 2012, pag. 503;
[2] Ibid.

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