La prelazione nell’ambito dell’impresa familiare

La prelazione nell’ambito dell’impresa familiare

L’art. 230 bis c.c. disciplina l’istituto dell’impresa familiare riconoscendo ai compartecipi  una serie di prerogative, tra le quali un diritto di prelazione nell’acquisizione dell’azienda, esercitabile in caso di divisione ereditaria o di trasferimento della stessa.

Si definisce prelazione, in particolare, il diritto di essere preferiti ad altri, a parità di condizioni, nella stipulazione di un futuro ed eventuale contratto.

Il diritto di prelazione può avere fonte convenzionale, ed assumere così carattere volontario, ovvero trovare il proprio fondamento nella legge, acquisendo natura legale.

Le due differenti forme di prelazione si distinguono in ordine all’efficacia, l’una meramente obbligatoria e legittimamente esclusivamente il risarcimento del danno, l’altra, al contrario, avente carattere reale, consentendo l’esercizio del retratto, ovvero il diritto del prelazionario di riscattare il bene nei confronti di colui il quale lo ha acquistato in violazione del diritto di prelazione.

In dottrina è sorto un dibattito in ordine alla qualificazione giuridica della prelazione volontaria, ossia della prelazione che trae origine dal consenso delle parti, le quali addivengono alla conclusone di uno specifico accordo in tal senso.

In primo luogo, deve ritenersi come evidenti siano le differenze tra la prelazione volontaria e l’opzione, la quale, differentemente dalla prelazione, non consiste nell’attribuzione del diritto ad essere preferito nella stipulazione di un eventuale e futuro negozio, ma conferisce il diritto di  decidere se accettare o meno una proposta contrattuale.

D’altra parte, sulla base di considerazioni analoghe la prelazione volontaria non può nemmeno considerarsi, al contrario di quanto ritenuto da parte della dottrina, come un preliminare unilaterale, il quale impegnerebbe il promittente a consentire l’esercizio della prelazione, pervenendo alla stipulazione del contratto definitivo con il prelazionario e contravvenendo così alla natura stessa dell’istituto.

Ciò considerato, parte della dottrina definisce la prelazione volontaria come un contratto “sui generis”, ossia come un negozio che si distingue dalle altre fattispecie tipiche per via di sue peculiari caratteristiche, le quali appaiono non facilmente definibili.

L’orientamento preferibile, in realtà, sembra quello che considera la prelazione volontaria come un patto “de non contrahendo”, ossia come un accordo con il quale un soggetto, il promittente, si impegna a non concludere un contratto con un terzo se non dopo che il prelazionario, debitamente interpellato, dichiari di non voler acquistare alle medesime condizioni.

A differenza del preliminare unilaterale, infatti, dal quale discende l’immediata e definitiva assunzione dell’obbligazione di prestare il consenso per la conclusione del definitivo, il patto di prelazione genera a carico del promittente un’immediata obbligazione negativa, consistente nel non vendere, nonché un’obbligazione positiva, essendo il promittente tenuto ad informare il prelazionario delle condizioni offerte dal terzo e a preferirlo a quest’ultimo nella stipulazione del nuovo contratto qualora il prelazionario medesimo avesse manifestato la volontà di esercitare la prelazione.

In presenza di un diritto di prelazione, dunque, il promittente, prima di procedere alla conclusione del contratto con il terzo, è tenuto ad effettuare una specifica comunicazione al prelazionario, la quale nel linguaggio giuridico viene definita “denuntiatio”, e con la quale informa quest’ultimo del contenuto dell’offerta del terzo, permettendo così al prelazionario di esercitare la prelazione, e di essere così preferito al terzo stesso a parità di condizioni.

In dottrina e giurisprudenza, tuttavia, non vi è unanimità di vedute in ordine alla natura, al contenuto e agli effetti di tale informativa.

Secondo alcuni, in particolare, la “denuntiatio” avrebbe il valore di vera e propria proposta contrattuale, dovendo dunque presentare tutti gli elementi necessari per poter essere considerata come tale. Ne consegue che la risposta positiva del prelazionario dovrebbe intendersi alla stregua di una vera e propria accettazione, consentendo la conclusione del negozio senza la necessità di un’ulteriore manifestazione di volontà da parte del promittente.

Per un’altra concezione, invece, la “denuntiatio” non può essere interpretata come una proposta contrattuale e, pertanto, la risposta positiva del prelazionario non può certo identificarsi in un’accettazione e determinare così la conclusione del negozio.

Tale informativa, al contrario, deve essere considerata come un mero atto di interpello preparatorio, sul quale potrebbe innestarsi la risposta positiva del promissario, determinando così un impegno a contrarre, ex art. 2932 c.c., in capo al promittente.

Secondo tale impostazione, in particolare, la denuncia rivestirebbe il carattere di atto formale di interpello vincolato nella forma e nel contenuto, ma non di proposta contrattuale, cosicché la conseguente dichiarazione del conduttore di esercizio della prelazione non comporterebbe l’immediato acquisto dell’immobile, determinando, per converso, la nascita dell’obbligo, a carico di entrambe le parti, di addivenire alla stipula del negozio di alienazione con contestuale pagamento del prezzo.

Altri autori, ancora, hanno ricondotto la “denuntiatio” tra gli atti di interpello non aventi natura negoziale, come tale incapace di manifestare una volontà diretta alla conclusione del negozio, ma avente una funzione meramente informativa del prelazionario, permettendogli di venire a conoscenza delle condizioni offerte dal terzo e di esercitare così la prelazione. Ne consegue che una risposta positiva da parte del prelazionario medesimo dovrebbe essere intesa come una proposta contrattuale, che il promittente avrebbe la possibilità di accettare o meno, restando a suo carico, in caso di mancata accettazione, solo l’obbligo di risarcimento del danno per responsabilità contrattuale.

Tanto premesso, come di recente ritenuto dalla S.C. la “denuntiatio” può certamente concretizzarsi in una proposta contrattuale qualora contenga tutti gli elementi utili al prelazionario per la conclusione del negozio e manifesti inequivocabilmente la volontà del promittente di stipulare il contratto; diversamente, la stessa può assumere forme differenti ed estrinsecarsi in un atto avente finalità meramente informativa, come tale inidoneo ad impegnare il promittente alla conclusione del negozio.

La “denuntiatio”, in particolare, assume di norma la valenza di un mero atto di interpello a forma libera, con la quale si comunica la volontà di stipulare un contratto a certe condizioni, e dalla quale non deriva per il beneficiario il diritto alla conclusione del negozio, ma solo quello di essere preferito ad altro contraente.

Ciò posto, osserva la Corte, la funzione necessaria e sufficiente dell’interpellanza non è quella di una proposta contrattuale, ma soltanto quella di stabilire se al promittente rimane o meno via libera per contrattare con il terzo, essendo all’uopo necessario che egli sappia se il beneficiario intenda o meno avvalersi del diritto di preferenza.

Accogliendo tale concezione, in particolare, laddove nel patto di prelazione non sia prevista specificatamente la forma scritta, la “denuntiatio” potrebbe avvenire anche oralmente, ancorché il contratto al quale si riferisce abbia ad oggetto un bene immobile.

Detto questo, è chiaro come la prelazione spettante ai partecipanti all’impresa familiare abbia carattere legale, in quanto prevista espressamente dalla legge all’art. 230 bis c.c.; ciò nonostante, si discute se essa abbia natura reale od obbligatoria e quindi se operi o meno il retratto.

Secondo una prima impostazione, la prelazione in questione avrebbe carattere reale in quanto mutuata dalla prelazione del coerede ex art. 732 c.c., la quale prevede espressamente il retratto, ossia la possibilità per il familiare titolare del diritto di prelazione di riscattare l’azienda dall’acquirente e da ogni suo avente causa; d’altra parte, si dice, la natura reale sarebbe una conseguenza inevitabile della natura legale della prelazione.

Di diverso avviso è invece un’altra concezione, per la quale il retratto opererebbe solo nel caso di trasferimento di azienda, in quanto nella divisione ereditaria i prelazionari partecipano all’atto divisionale e compiuta la divisione, pertanto, costoro non avrebbero più alcuna ragione di reclamare.

Per tale interpretazione, in particolare, posto che il termine finale per l’esercizio del retratto non può essere individuato facendo riferimento all’art. 732 c.c. – il quale, ammettendone l’esercizio fino a quando permane la comunione ereditaria, è certamente incompatibile con l’ipotesi del trasferimento di azienda – si deve ritenere che sia nel momento della liquidazione in denaro della partecipazione nell’impresa familiare che il partecipante all’impresa debba scegliere se accettare la liquidazione, rinunciando al riscatto dell’azienda, oppure esercitare il retratto.

La mancata previsione da parte dell’art. 230 bis c.c. di un termine per l’esercizio del retratto fa invece propendere altri autori a negare la natura reale della prelazione in materia di impresa familiare, escludendo che l’interprete possa ritenersi legittimato a stabilirlo.

D’altra parte, a sostengo di tale tesi si osserva che nella prelazione ereditaria il retratto è collegato allo stato di comunione, elemento non rinvenibile in tema di impresa familiare anche nell’ipotesi in cui venga in considerazione la divisione ereditaria dell’azienda, posto che la prelazione è qui accordata per il momento dello scioglimento della comunione e non durante la sua permanenza, come invece previsto dall’art. 732 c.c.

Tale interpretazione si fonda inoltre su di un’esigenza di salvaguardia dell’affidamento dei terzi, in considerazione del fatto che il legislatore non ha previsto alcuna pubblicità per l’impresa familiare e, pertanto, il terzo acquirente dell’azienda si troverebbe nella condizione di non conoscere la sussistenza della prelazione, rimanendo del tutto sprovvisto di tutela nel caso in cui questa venisse esercitata.

Tanto premesso, per effetto dello specifico richiamo all’art. 732 c.c. – contenuto nel comma 5 dell’art. 230 bis c.c. – in caso di trasferimento dell’azienda la prelazione si esercita analogamente a quanto avviene in materia di comunione ereditaria nel caso di vendita della quota di eredità da parte di uno dei coeredi. Ne deriva, dunque, la necessità dell’imprenditore di notificare la proposta di alienazione ai familiari partecipanti, ai quali è concesso di esercitare la prelazione nei successivi due mesi dall’ultima delle notificazioni.

Più problematico è invece l’esercizio della prelazione nel caso di divisione ereditaria: secondo l’orientamento prevalente, infatti, non si tratta di una prelazione in senso tecnico del termine, quanto di un criterio ordinante finalizzato a garantire la composizione delle quote dei singoli coeredi.

Il legislatore, si osserva, analogamente a quanto previsto negli artt. 720 e 722 c.c. – secondo i quali gli immobili non divisibili devono essere ricompresi per intero nella porzione del coerede con la quota maggiore – non avrebbe sancito una vera e propria prelazione, quanto piuttosto un criterio di preferenza nella formazione delle porzioni ereditarie, in base al quale nell’assegnazione dell’azienda a seguito di divisione devono essere preferiti, qualora ne facciano espressa richiesta, i collaboratori dell’imprenditore.

Sulla base di tale concezione, dunque, nell’ipotesi di divisione ereditaria non è applicabile l’art. 732 c.c., in quanto non vi è prelazione, e pertanto non è necessario procedere alla notifica della proposta di divisione.

Di diversa opinione è invece un’impostazione minoritaria, la quale, traendo spunto dalla lettera dell’art. 230 bis c.c., parla di vera e propria prelazione.

L’accoglimento di tale tesi, tuttavia, comporta alcune problematiche in ordine all’individuazione del soggetto legittimato ad esercitare la prelazione: se da un lato vi è  infatti chi ha sostenuto la necessità che il familiare esercente il diritto di preferenza sia anche coerede, dall’altro vi è invece chi ha ritenuto che la qualità di coerede in capo al familiare compartecipe nell’impresa familiare non sia imprescindibile per l’esercizio della prelazione, in considerazione della ratio protettiva dell’art. 230 bis c.c., con il quale il legislatore avrebbe sacrificato le norme in materia di successione in ragione della salvaguardia dell’interesse alla destinazione dell’azienda.

Quest’ultima interpretazione è in realtà difficilmente accoglibile in quanto sembra porsi in contrasto con la lettera della legge e con la natura stessa della divisione ereditaria: in primo luogo, rilevanti problemi deriverebbero dal far partecipare alla divisione ereditaria soggetti estranei alla comunione, quali appunto i familiari non coeredi; d’altronde, lo stesso art. 230 bis c.c. richiama espressamente l’art. 732 c.c., il quale disciplina la prelazione tra coeredi. Infine, si osserva, nel disciplinare gli effetti della divisione ereditaria, l’art. 757 c.c. prevede che ogni coerede è reputato solo ed immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, con la conseguenza che la divisione può acquisire efficacia solo con riguardo ai coeredi, gli unici verso i quali si realizza la successione.

Posto che per esplicita indicazione legislativa, la prelazione in ambito di impresa familiare sembra poter operare solo nelle ipotesi di trasferimento dell’azienda e di divisione ereditaria, ci si interroga in ordine alla possibilità di estendere l’operatività dell’istituto anche a fattispecie differenti.

La dottrina prevalente ammette la possibilità di esercitare la prelazione anche in caso di vendita forzata dell’azienda, sostenendo che l’interesse del prelazionario non possa essere soddisfatto solo accordandogli il diritto di partecipare alla gara indetta susseguentemente all’autorizzazione alla vendita. Si afferma, inoltre, che la mancata espressa esclusione della vendita forzata dall’ambito di applicazione della prelazione, differentemente da quanto avviene in tema di prelazione agraria dove il legislatore prevede esplicitamente la suddetta esclusione, dovrebbe far propendere, sulla base di un’interpretazione coordinata delle norme, per l’ammissibilità della prelazione in materia di impresa familiare anche nell’ipotesi di vendita forzata dell’azienda.

Per contro, però, si richiama la lettera dell’art. 230 bis c.c., il quale parla di “voler alienare”, con ciò escludendo la costrizione tipica che caratterizza la vendita forzata; d’altra parte, si osserva, così ragionando si finisce per accordare un’eccessiva protezione al familiare partecipante all’impresa, il quale risulta già ampiamente avvantaggiato dalla  previsione nei suoi confronti di una responsabilità limitata per le obbligazioni contratte nell’esercizio dell’azienda.

Non si riscontrano opinioni unanimi nemmeno con riferimento alla divisione ordinaria: la tesi positiva fa leva sull’art. 1116 c.c., il quale richiama le norme in tema di divisione ereditaria; l’opinione negativa, invece, si fonda sulla lettera dell’art. 230 bis c.c., la quale menziona esclusivamente la divisione tra coeredi.

La tesi prevalente esclude inoltre che la prelazione possa operare nell’ipotesi di donazione d’azienda, non accogliendo le censure di chi ha ritenuto che nel termine generico “trasferimento” possano essere ricondotte tutte le ipotesi di cessione, comprese anche quelle compiute per mero spirito di liberalità.

Si afferma, in particolare, l’incompatibilità della prelazione con la spontaneità e con la personalità che caratterizza il contratto di donazione; inoltre, mancherebbe un requisito imprescindibile per aversi prelazione, essendo il prelazionario impossibilitato ad offrire un corrispettivo equivalente al donatario in considerazione della natura gratuita dell’atto donativo.

Sempre con riferimento agli atti a titolo gratuito, l’opinione preferibile esclude l’operatività della prelazione anche nell’ipotesi di trasferimento mortis causa dell’azienda: anche in questo caso, infatti, non è possibile accordare una preferenza nell’acquisto e, d’altra parte, la successione per causa di morte non può certo rientrare nel concetto di “trasferimento” di cui all’art. 230 bis c.c.

L’impostazione prevalente, d’altronde, esclude la prelazione in caso di transazione, in relazione alla quale i familiari partecipanti all’impresa non sono certo nella condizione di poter offrire condizioni analoghe a quelle del terzo, non essendo parti del rapporto litigioso.

In caso di permuta, invece, la dottrina prevalente distingue a seconda che la stessa sia attuata con riferimento ad un bene infungibile, nella quale non potrebbe operare la prelazione per mancanza della possibilità di offrire la parità di condizioni, e permuta di un bene fungibile, nella quale non vi sarebbe invece alcuna ragione per escludere la prelazione.

Con riferimento alla concessione dell’azienda in usufrutto, favorevole all’applicazione della prelazione è la dottrina prevalente, la quale riconduce la fattispecie nell’ampia categoria dei “trasferimenti”; per converso, però, si evidenziano gli aspetti personalistici dell’usufrutto, tra i quali certamente quello inerente alla sua durata, i quali farebbero propendere per l’esclusione della prelazione.

Per quanto concerne, infine, il conferimento dell’azienda in società, sembra preferibile l’opinione che esclude l’operatività della prelazione in considerazione del carattere infungibile della controprestazione, la quale consiste nell’acquisizione da parte del conferente del diritto alla partecipazione societaria.

Secondo alcuni, poi, ammettere la prelazione in tale ambito comporterebbe un inevitabile pregiudizio per la libertà di iniziativa economica, così come garantita dall’art. 41 della Carta fondamentale.


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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo. L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile. Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale. Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori. Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.

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