La proprietà eterna: analisi e decadimento di un dogma assoluto

La proprietà eterna: analisi e decadimento di un dogma assoluto

Sommario: 1. Premessa – 2. Il diritto di proprietà e i diritti reali minori: dall’età liberale all’art.42 Cost. – 3. La funzionalizzazione della proprietà: dall’utilità sociale al potere d’esproprio – 4. Le interferenze anomale tra diritti assoluti e diritti relativi: la fragilità dei criteri di differenziazione, in particolare la dubbia natura delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali – 5. Il numerus clausus e il principio di tipicità dei diritti reali: il sopravvento della manipolazione negoziale – 6. Verso nuove forme di proprietà: negozi di destinazione e il trust

 

1. Premessa

Non v’è dubbio, sin dai tempi della classicità, che la massima espressione del diritto soggettivo, fonte e ragione del suo esercizio, è la proprietà privata.

Quella stessa proprietà che nei secoli concepita come potere o dominio sulla cosa, come possesso avallato da un titolo che ne rafforza gli effetti, come capacità d’opposizione verso la generalità dei consociati.

Essa ha rappresentato, ad un tempo, il paradigma di tutto ciò che si pone in termini d’assolutezza e d’incorporazione sulla res, nonché l’antitesi rispetto ai diritti c.d. relativi, che vivono all’interno del rapporto e in esso si esauriscono.

Storicamente concepito come fulcro della proprietà fondiaria, il diritto reale assoluto sui beni immobili si correda di un sistema di tutele individuali, riconosciute dalla legge al titolare, onde consentirgli di tutelare il proprio bene in maniera diretta da qualunque forma di aggressione esterna, a prescindere da un rapporto personale con l’aggressore.

Questa tradizione giuridica, che colloca il diritto al vertice della scala dei valori, si implementa, come vedremo, nella culla dell’età liberale, ovvero in una fase storico-giuridica ove il negozio è visto come un mero strumento ancillare di trasferimento della proprietà, i diritti della personalità sono pressoché assenti e la famiglia partecipa dello stesso assetto patriarcale che ispira il sistema del possesso.

L’analisi che s’intende condurre è mirata alla ricostruzione storica, dogmatica e sistematica del diritto per eccellenza, la cui evoluzione si lega a un mutamento giuridico pregno del secolare susseguirsi delle fasi storiche nazionali e sovranazionali.

Senza alcuna pretesa d’esaustività nella trattazione basti qui premettere che la storia e la giurisprudenza, plasmando i tratti essenziali della res, ne hanno gradualmente inciso le fondamenta in maniera sempre più radicale, tanto che, ad oggi, non è più scontato per l’interprete avere una visione chiara ed esaustiva della materia.

Siffatta evoluzione trova il suo esito in un apparente dissesto degli elementi strutturali del diritto di proprietà e ancor più dei diritti reali minori, in particolare con riferimento ai criteri di identificazione rispetto ai diritti di credito.

Pregevoli tesi dottrinarie hanno portato alla luce, come vedremo, la debolezza sistematico-argomentativa dei tre elementi tradizionali ovvero “assolutezza, immediatezza e inerenza”, evidenziando la desuetudine degli stessi nel costituire un idoneo strumento distintivo tra le due categorie di diritti.

Del pari, una vulnerabilità altrettanto significativa si è avvertita nei principi di tipicità e numerus clausus dei diritti reali, entrambi espressione della certezza dei traffici giuridici, ma messi in discussione dall’avvento di nuove figure atipiche, della cui natura giuridica ci si interroga.

Ciò, in particolare, a causa della capacità dell’autonomia negoziale, ormai forte di una causa potenzialmente atipica, di poter manipolare la trama essenziale dei diritti reali in conformità alla ragion pratica, o funzione economico-individuale, perseguita dalle parti.

Il problema è però stabilire fino a che punto questa priorità accordata dalla giurisprudenza agli interessi concreti possa incidere sull’assetto tipico dei diritti reali stabilito dalla legge.

In termini diversi è opportuno domandarsi, dapprima ricercando la vera natura delle nuove proprietà in cui viene a scindersi la titolarità sostanziale e formale, se si possa legittimamente parlare di un decadimento definitivo del dogma.

2. Il diritto di proprietà e i diritti reali minori: dall’età liberale all’art.42 Cost.

Si è già accennato in apertura come la proprietà privata, nell’alveo dell’ispirazione liberale che mosse il Codice del Regno del 1865, costituiva il pilastro dell’ordinamento civile, la somma e la sintesi dei poteri, per essa intendendosi la proprietà fondiaria e latifondista, allora espressione della massima espressione della ricchezza economica e sociale.

Allo scopo l’art. 436 c.c. del Codice 1865, opportunamente definito il “Codice della proprietà”, ricalcando quanto previsto dal Codè Napoleon del 1804, sanciva: “La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”.

Già dalla locuzione normativa spicca sugli altri il concetto di assolutezza, ad evidenziare l’illimitatezza interna ed esterna dell’istituto che si staglia attraverso la non comprimibilità, se non nei casi stabiliti dalla legge o dai regolamenti.

In tale fase è più che evidente come il dogma della proprietà sia nel plenum della sua grandezza, poiché esprime un diritto inviolabile della persona, piuttosto che un diritto economico-patrimoniale, sul quale, l’interferenza da parte dell’ordinamento costituisce un extrema ratio che piega il diritto assoluto all’interesse generale.

Non a caso, la summenzionata ideologia trova conferma nell’inesistenza di limiti dal carattere elastico, che avessero potuto in qualche modo incidere sul contenuto del diritto, attraverso l’attribuzione al giudice di un sindacato discrezionale in contrasto con un’idea d’assolutezza tendenzialmente senza limiti, ove l’eccezionale e rigido intervento della legge costituiva un mero ausilio ad eventuali specificazioni dell’istituto.

In ciò si spiega, altresì, il netto disfavore al “vincolo” che potesse in qualche misura rievocare reminiscenze feudali, non solo da parte del potere pubblicistico, bensì da parte dello stesso proprietario, dovendosi egli attenere strettamente agli esigui schemi posti dal legislatore.

Da codesta moderna, pur statica, concezione di proprietà senza vincoli si dipana un primo fondamentale principio che tutt’ora permea l’istituto: il numerus clausus dei diritti reali.

Come si avrà modo di vedere nel prosieguo della trattazione, il principio in questione, insieme a quello di tipicità, ha avuto la funzione di cristallizzare i diritti reali in una struttura pressoché immutabile, sottratta a qualunque manipolazione, anche negoziale, che ne potesse mettere in discussione l’“assolutezza” dogmatica.

Differentemente il negozio, rectius il contratto, si collocava in questo impianto normativo in maniera del tutto ancillare, tanto che nel Codice civile del 1865 non era presente una sua puntuale disciplina, rinvenibile esiguamente solo nel Codice di commercio e ciò anche in ragione di una staticità nella circolazione dei beni immobili.

Il contratto, oggi pilastro assoluto del codice vigente, assumeva così una dimensione strettamente funzionale al trasferimento del diritto di proprietà, ponendo in second’ordine l’esigenza di certezza e tutela dei traffici giuridici commerciali, all’epoca certamente di minore impatto dato il contesto a prevalenza agricola.

Con l’affermarsi dell’industrializzazione, e soprattutto del regime fascista, queste caratteristiche, in cui trovano la propria culla i tre requisiti essenziali di assolutezza, immediatezza e inerenza, iniziano ad accarezzare i primi effetti di cambiamento.

Il Codice civile del 1942, all’art.832 c.c., utilizza una nuova formulazione per descrivere il contenuto del diritto: “la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

Il primo aspetto che esalta agli occhi è l’utilizzo del termine “pienezza” in luogo di “assolutezza”, accompagnato da un chiaro favor per l’implementazione degli statuti proprietari che non consentono più di parlare della proprietà, ma delle proprietà.

E ciò non tanto e non solo attraverso una differenziazione tra proprietà pubblica e privata, quanto mediante l’affermazione di una pluralità di discipline speciali volte a creare regimi differenziati a seconda delle tipologie e delle funzioni attribuite al diritto reale, fondiario, edificabile, commerciale, rustico ecc.

Il diritto di proprietà e in generale i diritti reali vengono ad assumere un carattere dinamico e funzionalizzato, ove patrimonio fondiario non è più il focus dell’impianto normativo, ma ne diviene una parte, la cui regolamentazione si sviluppa essenzialmente attraverso le dinamiche e gli effetti dell’autonomia negoziale.

È quindi il potere dispositivo, il contratto, la regolamentazione d’interessi privati ad assumere una nuova centralità che si coniuga all’ormai differente assetto economico-sociale, proiettato alla grandezza nazionale, ove l’interesse individuale regredisce, pur tuttavia, a mera sintesi di quello sociale.

Almeno in questa prima fase di vita del Codice la proprietà e i diritti reali mantengono tuttavia quell’alea di compostezza ereditata dal passato e ciò lo si desume dall’art.922 c.c. il quale enuncia i modi di acquisto dei diritti reali secondo un elenco che chiude con il principio di riserva di legge: “La proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per specificazione, per unione o commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di morte e negli altri modi stabiliti dalla legge”.

Non di meno, che vi sia una differente prospettiva rispetto al passato lo si evince dai seguenti aspetti di innovazione che vanno ad accompagnare il concetto di pienezza.

Fanno la loro comparsa agli artt.833-844 c.c. rispettivamente disciplinanti il divieto di atti emulativi e le immissioni, due limiti elastici che si di imprimono sull’ampiezza del diritto, attribuendo al giudice un significativo potere discrezionale d’intervento, dinnanzi ad atti di disposizione del bene in contrasto con i principi di buona fede e correttezza.

A ciò si accompagna la tipizzazione di una serie di diritti reali minori del tutto sconosciuti nel Codice del 1865, quali ad esempio la superficie e l’enfiteusi, che si impongono sulla proprietà attraverso un assetto particolarmente limitativo, che sovente mette in discussione la stessa unitarietà del diritto assoluto per eccellenza.

La logica del legislatore fascista è quella di conformare il diritto di proprietà, mediante un taglio che si discosta dall’intangibilità assoluta, per rendersi funzionale a una nuova utilità sociale, proiettata verso il potenziamento dell’economia nazionale e dell’autarchia. Di talché, nella ratio del sistema, anche la proprietà diviene, dopo il contratto, uno dei peculiari strumenti di realizzazione della grandezza economica.

La fase di svolta si ha tuttavia con l’avvento della Carta costituzionale del 1948, il cui riassetto organico dei valori umani, sociali ed economici viene a toccare anche il diritto in questione.

Il diritto di proprietà trova il suo spazio all’interno dell’art.42 Cost., non quindi tra i diritti fondamentali e inderogabili, bensì nel capo dedicato ai rapporti economici e patrimoniali.

La soluzione adottata dall’Assemblea Costituente, a ben vedere, intende distanziarsi definitivamente da una concezione di proprietà liberal-individualistica, affinché il carattere personale e inviolabile del diritto lasci spazio al riconoscimento di una funzione sociale-solidaristica di beni patrimoniali.

La disposizione, conformandosi al sistema di pluralità degli statuti proprietari, parla di proprietà pubblica e privata, e mette in risalto la funzione sociale della stessa, non più intesa né come fonte di reddito del proprietario latifondista né come strumento dell’economia dirigista, ma opportunità di lavoro accessibile alla collettività.

L’art.42 al comma 2 Cost. così recita: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti”.

Il contenuto della norma, lungi dall’essere una qualitas della persona, pone una riserva di legge assoluta per ciò che concerne la determinazione dei modi d’acquisto della proprietà e i limiti ad essa, non potendosi ammettere che tale determinazione sia rimessa alla libertà convenzionale delle parti, o di fonti diverse dalla legge dello Stato.

Accanto a una consolidazione della pluralità degli statuti proprietari [La proprietà è pubblica o privata] si collocano i limiti ad essa, concernenti la accessibilità da parte del titolare del diritto e la funzione sociale.

Il limite dell’accessibilità è stato da taluni letto come un limite positivo, ossia espressione di una giustizia distributiva di ispirazione socialista, da altri, come un limite negativo concernente il divieto di forme di preclusione che non siano previste dalla legge.

Più complessa si è resa l’interpretazione della “funzione sociale” la quale può essere vista sia come un limite esterno ove è la legge a stabilire le restrizioni con norme puntuali, sia come un limite interno che prescindendo da una previsione puntuale assume il carattere di una tensione solidaristica tra l’interesse individuale e sociale.

Accanto a questi limiti positivi si collocano quelli c.d. negativi che possono riassumersi nel divieto di uso dannoso della proprietà, il quale già trova espressione negli artt.833 e 844 c.c., rispettivamente dedicati al divieto di atti emulativi e alle immissioni.

Questa forza conformativa, incidente su un diritto di proprietà non più completamente assoluto e illimitato, dimostra come, pur non ammettendosi un intervento del legislatore assolutamente conformativo, tale diritto assuma un carattere “larvato”, ad esempio nella disciplina degli espropri.

È proprio con riferimento al potere d’esproprio che emergono con forza i limiti derivanti da una concezione del diritto di proprietà differente da quella contemplata del diritto sovranazionale e pattizio.

Il diritto in questione nasce nell’ordinamento della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) ispirandosi a quella concezione liberale di fine ‘800 che muoveva da un’idea soggettiva-individuale della proprietà.

Proprietà, dunque, non come diritto economico-patrimoniale, bensì come diritto fondamentale dell’individuo, come qualitas o estensione dello stesso.

In tal senso si pone l’art.1 Prot. add. 1 CEDU ove sancisce che “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale

Dal tenore letterale della norma appare evidente la distonia rispetto alla portata dell’art.42 Cost., non solo per ciò che concerne la natura del diritto sotteso, quanto per le ricadute applicative in tema di espropriazione per pubblica utilità, la cui disciplina interna ha posto significativi problemi di frizione rispetto a quelle convenzionale. Per tale ragione, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto di dover censurare la normativa interne in materia d’esproprio, con particolare riguardo all’indennizzo e all’accesso acquisitivo, quante volte questa eludeva il contenuto dell’art.1 prot. 1 CEDU.

3. La funzionalizzazione della proprietà: dall’utilità sociale al potere d’esproprio

Nell’art.42 Cost. è contenuto il principio posto a fondamento dell’esproprio: l’utilità sociale della proprietà privata.

Il concetto di utilità sociale, sul quale non si ha necessità di tornare, va letto in combinato disposto con il precedente art.834 c.c., rubricato “espropriazione per pubblico interesse”.

Nelle norme in questione vengono affermati i tre presupposti del potere pubblico d’esproprio: la ragione di pubblico interesse, l’assoggettamento principio di legalità e la corresponsione di un indennizzo, a cui il codice, ma non la Costituzione appone l’aggettivo “giusto”.

Per quanto sia d’interesse ripercorrere l’evoluzione storico-giuridica del potere d’esproprio a partire dalla Legge Espropri del 1865, passando per la Legge sul risanamento della città di Napoli del 1889, appare opportuno, ai fini della trattazione, rileva in prima battuta l’effetto funzionalizzante e limitativo che l’istituto esercita sulla proprietà privata.

Una tale funzionalizzazione, espressa attraverso il limite dell’utilità sociale, deve trovare la sua realizzazione primaria attraverso la sussistenza di una dichiarazione di pubblica utilità.

In disparte i contrasti dottrinali volti a ricercare la pubblica utilità chi nella dichiarazione espressa di legge, chi nell’automatismo della Costituzione, si può in ogni caso ritenere che la stessa sia requisito imprescindibile al potere d’esproprio, sua essenza e ragion d’essere, a prescindere dal fatto che si pervenga alla conclusione del procedimento con l’adozione del decreto ablatorio.

Tanto ciò è vero che la mancanza di siffatta qualitas rende l’amministrazione carente di potere in concreto, o secondo altri soggetta a un cattivo uso del potere.

Ferma l’imprescindibilità del requisito costituzionale, occorre però soffermarsi sulla dialettica giurisprudenziale intercorsa tra il diritto interno e sovranazionale, volta a imporre la massima forma di tutela della proprietà privata, avverso istanze che, come pocanzi si vedrà, hanno avuto sulla stessa un effetto eccessivamente svuotante.

È indubbio che il potere d’esproprio, sebbene preordinato all’utilità sociale, rappresenti la massima ingerenza sulla posizione del proprietario, poiché più d’ogni altra causa esso investe il diritto nella sua totalità e unitarietà determinandone la cessazione.

Attraverso tale potere, invero, la pubblica amministrazione esercita sul bene un’ingerenza di carattere ablatorio, a prescindere dal consenso del titolare del bene espropriato.

Richiamando la terminologia amministrativistica, si può affermare che il potere d’esproprio rechi in sé quel carattere dell’esecutorietà di cui all’art.21 ter L.241/1990, secondo cui la p.a. può portare ad esecuzione coattiva un provvedimento amministrativo senza ricorso al potere giurisdizionale.

Tale peculiarità impone che l’esproprio sia strettamente soggetto ad una rigida procedimentalizzazione, scandita da una serie di fasi che, pur dovendo iniziare con la dichiarazione di pubblica utilità, dovranno necessariamente concludersi coll’emanazione del decreto d’esproprio.

Una tale procedura richiede la presenza cumulativa dei tre requisiti sanciti dagli artt.42 Cost. e 834 c.c., secondo la disciplina di cui al D.P.R. 8 giugno 2001 n.327.

Solo un procedimento, le cui fasi sono scandite dal principio di legalità, consente di tutelare al massimo le ragioni di un proprietario, che altrimenti verrebbe illegittimamente leso nella sua sfera giuridica e privato del proprio bene.

È proprio l’esigenza di rigore procedimentale ad aver rappresentato il terreno di scontro tra un sistema nazionale sempre più svincolato dalla legge formale e quella concezione individualistica di proprietà privata contemplata dalla CEDU, per la quale non basta una legalità forte, bensì “fortissima” che scandisca questo genere di potere.

Con la legalità fortissima, intesa come predeterminazione normativa del fine pubblico, è possibile stabilire lo scopo che giustifichi un tale sacrificio del privato e quindi quantificare quel giusto indennizzo che rappresenta l’elemento risolutore del contrasto tra interessi pubblici e privati.

La tendenza interna verso un eccessivo svuotamento del diritto di proprietà si è avuta infatti su due aspetti fondamentali.

Il primo aspetto concerne l’istituto di matrice pretoria definito espropriazione acquisitiva o invertita, il cui meccanismo si fonda sull’istituto civilistico di cui all’art.934 c.c., del c.d. “accesso invertito”.

Il secondo aspetto attiene il criterio di quantificazione dell’indennizzo, dalla Corte EDU ritenuto in più occasioni non adeguatamente ristorativo degli interessi del proprietario.

La prassi dell’espropriazione acquisitiva si è affermata per la prima volta negli anni ’80, quando la giurisprudenza (in particolare cfr. Cass. “Bile” n.1464/1983) ha iniziato a porre rimedio alle frequenti situazioni ove la p.a., dopo aver dichiarato la pubblica utilità, occupava un terreno privato e lo trasformava in maniera irreversibile, senza mai pervenire all’adozione di un formale decreto d’esproprio.

Siffatta condotta andava a creare una situazione di fatto che, pur in carenza del titolo legittimante, avrebbe in ogni caso consentito alla p.a. di avocare a sé la superficie trasformata, in deroga al principio generale dell’accesso ex art.934 c.c., secondo cui tutto ciò che è costruito sul suolo accede ad esso (superficies solo cedit).

In tale contesto, una sorta di parvenza formale veniva recuperata sulla base di un principio meramente giurisprudenziale, individuato nella “trasformazione irreversibile del bene”, preceduta da una dichiarazione di pubblica utilità, a fronte di un risarcimento del danno da illecito aquiliano.

È evidente come un tale sistema acquisitivo de facto non potesse ritenersi conforme al principio di legalità, né interna né tantomeno comunitaria.

Per tale ragione, la Corte EDU è più volte intervenuta nel censurare questo meccanismo ritenuto in contrasto con non solo con l’art.42 comma 3 Cost. ma anche con l’art.1 Prot. 1 CEDU per il tramite dell’art.117 Cost. che, già si è detto, concepisce la proprietà privata come un diritto individuale, prolungamento della personalità del privato.

Il punto nevralgico individuato dalla giurisprudenza era quello di premiare l’autore dell’illecito, creando un nuovo ed atipico diritto sul bene in contrasto con il principio del numero chiuso dei diritti reali, privo del necessario fondamento legislativo.

In secondo luogo si è evidenziata l’irragionevolezza di un sistema ove il pubblico interesse verrebbe ad essere imposto attraverso un procedimento illegittimo che preclude tutte le garanzie partecipative in capo al cittadino.

Si può dunque asserire che questa forma di sanatoria, realizzata per mezzo di un principio a carattere giurisprudenziale privo di certezza, determinatezza e conoscibilità, non può dirsi idonea a regolarizzare una procedura di fatto assente, che conduce altresì a un risarcimento non corrispondente al valore venale del bene acquisito.

Un primo tentativo di conformazione alle censure della giurisprudenza europea si è avuto con l’introduzione di un art.43 in seno al T.U. Espropri, poi dichiarato incostituzionale, del quale si è di nuovo eccepita la violazione della convenzione per il tramite dell’art.117 Cost.

Solo con l’introduzione dell’art.42 bis il processo di conformazione, pur non senza critiche, ha iniziato a dare più efficaci risultati.

La norma ha introdotto un procedimento amministrativo snello in cui, secondo i piani del legislatore, si sarebbe dovuta recuperare quella legalità formale e quelle garanzie minime di partecipazione che erano del tutto assenti nelle fasi antecedenti.

Tale procedimento, istaurandosi a seguito di un’occupazione sine titulo ma provvista di dichiarazione di pubblica utilità, conduce all’adozione di un provvedimento amministrativo con efficacia non retroattiva che sana l’occupazione disponendo l’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile della p.a.

All’acquisizione sanante segue il riconoscimento sia di un indennizzo in favore del proprietario del bene occupato, corrispondente al valore venale del bene, che di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito liquidato forfettariamente nella misura del 10% del valore venale del bene.

Al comma 4 della norma è possibile osservare come il legislatore abbia inteso implementare il momento procedurale della sanatoria mediante una motivazione particolarmente rinforzata, in cui la p.a. espropriante deve dar conto delle regioni di pubblico interesse, adeguatamente comparate agli interessi contrapposti, per cui si è reso necessario procedere all’acquisizione del terreno illecitamente occupato.

È dunque possibile cogliere il tentativo del legislatore di conformarsi a quella regola enunciata nella giurisprudenza della Corte Edu laddove puntualizza che il procedimento ablatorio del bene deve necessariamente sottostare a una regola che, pur non formalmente prevista, sia chiara, accessibile e precisa.

Una regola cioè in grado di reimmettere il fenomeno delle occupazioni illegittime nei binari della legalità formale-sostanziale.

Il secondo aspetto su cui occorre soffermarsi, anche esso posto al vaglio della Corte EDU, concerne il criterio di quantificazione dell’indennizzo, il quale per lungo tempo ha assunto una connotazione lontana dal requisito della “giustezza” presente nel codice ma assente nella Carta costituzionale.

Partendo dal presupposto che l’indennizzo rappresenta l’elemento riequilibrante nello scontro tra pubblico interesse e lesione alla proprietà privata, si vuole evidenziare come le tappe storiche che hanno caratterizzato l’indennizzo hanno visto l’alternanza tra la piena valorizzazione del bene espropriato e la non completa riparazione del pregiudizio subito dal proprietario. Questo secondo caso ha trovato concretizzazione con l’art.37 TUE, dichiarato incostituzionale per violazione dell’art.117 Cost. e art.1 prot. 1 CEDU.

Il primo modello che può ritenersi essere stato quantomeno satisfattorio, tanto è vero che fu recuperato con la L.359/1992, era quello contemplato dalla Legge sul risanamento della città di Napoli n.2892/1885.

Detto criterio, secondo cui l’indennizzo doveva quantificarsi nella media tra il valore venale del bene (intenso come edificabilità di diritto) e il reddito dominicale rivalutato, ridotto del 40% in caso di mancata cessione bonaria, consentiva di recuperare il valore venale del bene ablato.

In tal senso esso si imponeva sul criterio dichiarato incostituzionale del valore agricolo, già contemplato dalla Legge sulla casa del 1971 e dalla Legge Bucalossi n.10/1977.

Il problema è che anche il nuovo criterio di quantificazione, recapito dall’art.37 TUE e volto a recuperare una parvenza del valore di mercato del bene, si sarebbe posto in frizione con la già descritta concezione convenzionale di proprietà privata, la cui perdita non sarebbe stata pienamente valorizzata da un indennizzo che al netto delle imposte sarebbe risultato decurtato almeno del 50% rispetto al valore di mercato.

Cosicché la Corte EDU intervenuta sulla questione con la nota sentenza 29 luglio 2004 “Scordino c. Italia”, nel ribadire il valore individuale del diritto di proprietà, ha individuato il giusto indennizzo nel valore di mercato del bene espropriato, privo da qualsiasi forma di decurtazione, salvo che detto esproprio non fosse stato inserito in un piano di giustizia sociale o di riforma economica che giustifichi un quantum inferiore.

In sostanza la Corte nel censurare il meccanismo contemplato dalla normativa nazionale intende far proprio un criterio di ragionevolezza e proporzionalità che consenta al proprietario di veder interamente riparato il pregiudizio, pur legittimo, perpetrato dalla p.a. espropriante.

Ponendosi in affinità rispetto alla giurisprudenza europea, la Corte Costituzionale, con le sentenze n.348/2007 e n.181/2011, non solo ha ribadito il principio sopra espresso ma ha anche ricondotto sotto l’egida dell’eguaglianza una situazione di effettiva disparità di trattamento tra suoli edificabili e non edificabili.

Questi ultimi erano infatti stati esclusi dalla riforma dell’art.37 TUE, ora avente ad oggetto il criterio del valore di mercato, restando soggetti al valore agricolo medio (VAM), già contemplato dalla Legge sulla casa e rimasto in fieri solo limitatamente ai suoli non edificabili.

Alla luce di tali pronunce, la posizione della giurisprudenza costituzionale si è così determinata a stabilire una linea interpretativa dell’art.37 TUE completamente rispettosa della vocazione personalistica della proprietà privata.

Tale impostazione, che va ben oltre l’art.42 Cost., valorizza il principio d’eguaglianza di cui all’art.3 Cost., stabilendo la regola secondo cui il criterio di quantificazione dell’indennizzo, non potendo prescindere dal valore di mercato del bene, deve tenere conto di quell’ “inscindibile legame” tra il diritto di proprietà e il suo titolare.

4. Le interferenze anomale tra diritti assoluti e diritti relativi: la fragilità dei criteri di differenziazione, in particolare la dubbia natura delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali

Puntualizzati gli aspetti salienti della disciplina dell’esproprio e i suoi effetti in materia di proprietà, è opportuno procedere verso l’analisi, più prettamente civilistica, delle due categorie concettuali per eccellenza: i diritti assoluti e i diritti relativi, onde verificare se, in effetti, si possa parlare di decadimento del dogma.

Come si è accennato nella parte introduttiva l’unica certezza che ha da sempre contraddistinto il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sono tre caratteristiche ontologiche: assolutezza, inerenza, immediatezza.

Nei tre gli elementi, per decenni, è stato ravvisato il discrimen rispetto alla relatività dei diritti di credito, ovvero di quei rapporti c.d. ad effetti obbligatori tra le parti.

Appare necessario esplicarne il significato.

Nell’assolutezza dei diritti reali si consacra ciò che da sempre è stato ritenuto il requisito per eccellenza, ovvero la capacità in capo al titolare del diritto di opporlo erga omnes e il dovere della generalità dei consociati di astenersi dal recarvi nocumento.

L’inerenza attiene invece al versante della trascrivibilità del diritto, ossia della pubblicità imposta agli atti traslativi di diritti reali secondo l’elenco di cui all’art.2643 c.c.

L’inerenza fa sì che il diritto, anche minore sia incardinato alla res e con essa circoli sempre a prescindere da chi ne sarà il titolare.

L’immediatezza rappresenta invece il requisito più importante e forse l’unico che merita di essere attenzionato in quanto effettivamente qualificatorio.

Per immediatezza di intende la capacità del titolare del diritto reale di poter realizzare le sue pretese sullo stesso senza doversi servire dell’intermediazione di altri, come invece accade nel diritto di credito.

La stessa natura del credito, da “credere” confidare, implica che il titolare del diritto confidi sull’intervento di cooperazione del debitore, il quale attraverso l’adempimento deve realizzare l’interesse del creditore.

Diversamente la tutela dei diritti reali, in via generale, non abbisogna affatto della mediazione del terzo potendo il titolare adire immediatamente i rimedi previsti dal codice per realizzare il proprio interesse, concernenti le azioni di carattere petitorio: rivendicazione e restituzione.

Orbene, se queste sono state per lungo tempo le tradizionali differenze tra diritti assoluti e relativi, parte della dottrina ne ha messo in discussione l’indefettibilità, evidenziando come la netta differenza non sia più così netta, ove si abbia a che fare con talune fattispecie di dubbio inquadramento.

Prima di scandagliare dette fattispecie, è opportuno richiamare le diverse tesi anticonformiste, delle quali, pur non potendone accogliere le ragioni, è d’obbligo dare menzione.

Secondo una prima tesi non è opportuno parlare di diritti assoluti: i diritti devono considerarsi tutti relativi poiché, come accade per i diritti di credito, anche i diritti reali implicherebbero una relatività necessaria da individuarsi nella generalità dei consociati.

Più specificamente si ritiene che il termine di una relazione non può essere la res, ma necessariamente un altro soggetto, in virtù dell’assunto secondo cui un diritto è sempre verso qualcuno e non verso qualcosa.

Altra teoria, sostenendo l’esatto contrario, afferma che i diritti di credito rientrano nel novero dei diritti reali, sostenendosi al riguardo che fattispecie quali lo storno di dipendenti o l’uccisione del debitore costituiscano ipotesi in cui abbiamo a che fare con un credito che rappresenta una proprietà non corporale rientrante nel più ampio concetto di res.

Una terza tesi, di cui è interessante dare menzione, è quella che fa proprio un criterio discretivo di carattere trasversale, inerente alla modalità immediata o mediata di realizzazione del diritto.

In ispecie, sulla scorta del criterio dell’immediatezza, si sostiene che da un lato si debbano collocare tutti i diritti a realizzazione immediata, ovvero non necessitanti della collaborazione di un terzo soggetto e tra questi il diritto di proprietà e i diritti reali minori. Dall’altro lato si dovranno invece ricondurre i diritti a realizzazione mediata tra cui, oltre ai diritti di credito anche quelli reali dall’incerta natura, come ad esempio le servitù.

Questa ultima, come i diritti di credito o le obbligazioni propter rem (di cui parleremo a breve) trova collocazione tra i diritti a realizzazione mediata, non potendosi prescindere, si sostiene, dalla relatività nel meccanismo di realizzazione.

Le ragioni di siffatte interpretazioni risiedono per l’appunto nell’esistenza di fattispecie dall’incerto inquadramento, stante il fatto che le stesse presentano sia i caratteri dell’una come dell’altra categoria.

Più esattamente può ritenersi che nelle ipotesi in questione i tre requisiti essenziali trovano adombramento e non possono dirsi tutti contemporaneamente sussistenti.

Si prenda ad esempio proprio il diritto reale di servitù.

Per mera completezza espositiva si ricorda che la servitù prediale costituisce una soggezione fondiaria, definita dall’art.1072 c.c. come il peso imposto sopra un fondo, detto servente, per l’utilità di un altro fondo, detto dominante: il rapporto che viene in essere non è un rapporto tra i rispettivi titolari bensì tra i due fondi, quindi è un rapporto esclusivamente reale.

La peculiarità del diritto in questione risiede dunque nella realità e nell’inerenza alla res, ancorché, apparentemente, può sembrare che il titolare del fondo servente sia tenuto ad una condotta di collaborazione verso il titolare del fondo dominante, onde consentire allo stesso di realizzare la propria utilità, così mettendo in discussione il carattere dell’immediatezza.

La realità, diversamente, è del tutto ravvisabile nel fatto che l’utilità del fondo servente va a vantaggio, non della persona bensì del solo fondo dominante, come accade ad esempio nell’ipotesi atipica della servitù di parcheggio, la cui ammissibilità, o più precisamente la sua attitudine a costituire un’utilitas fundi, deve essere valutata nel caso concreto.

La giurisprudenza intervenuta in materia ha ritenuto infatti che se detta fattispecie, in talune ipotesi, dovrà essere ricondotta tra le servitù irregolari esorbitanti dall’art.1027 c.c. poiché costituite mediante un negozio ad effetti obbligatori, in altri casi ben potrà costituire un diritto reale di servitù, quante volte l’utilità di parcheggiare costituisca un’utilitas per il fondo servente e non per la persona (in tal senso Cass. civ. 18 marzo 2019, n.7561).

Il problema, del resto, si pone con riferimento a tutte la servitù irregolari, le quali sono concepite come quelle ipotesi in cui l’utilità va a vantaggio della sola persona, esse assumendo piuttosto i connotati di un negozio a efficacia obbligatoria a carattere personale, non trascrivibile e non opponibile ai terzi.

Per ciò che concerne le servitù negative, la loro natura è altrettanto dubbia.

Si definiscono tali quelle servitù che impongono al titolare del fondo servente obblighi di non fare, come ad esempio non costruire o non sopraelevare un muro.

Taluni individuano nel non facere un vero e proprio diritto di credito in favore di colui che si obbliga a non eseguire la propria attività, stante ancora una volta il carattere collaborativo che sottende il contegno del titolare del fondo servente.

È preferibile piuttosto ritenere che anche le servitù negative appartengono alla categoria dei diritti reali, poiché in esse si assiste ad uno scorporo del diritto di proprietà che va ad incidere sul titolare del fondo servente.

La fragilità dei tre criteri distintivi si evince, in particolare, in due peculiari fattispecie dalla natura incerta: le obbligazioni popter rem e gli oneri reali.

Come accennato in precedenza, le obbligazioni propter rem costituiscono una fattispecie ibrida, nella quale i caratteri essenziali dei diritti reali e dei diritti di credito si intersecano e allo stesso tempo si sbiadiscono.

Molteplici situazioni sono ricondotte dalla dottrina in tale fattispecie, la quale presenta la relatività, l’inopponibilità e la non trascrittivibilità dell’obbligazione, ma al contempo prospetta il carattere reale dell’inerenza alla res, posto che la titolarità dell’obbligazione si identifica nel bene e non nella persona del titolare.

In altre parole il rapporto obbligatorio circola insieme al bene e ad esso inerisce, pur in assenza della trascrizione, salvo i casi previsti dalla legge.

Egualmente anche gli oneri reali presentano le stesse problematiche interpretative.

Essi assumono nell’ordinamento una valenza ormai residuale, ultimo strascico di quella tradizione medioevale caratterizzata dal rapporto di asservimento tra il feudatario e i suoi sottoposti.

Possono definirsi tali quelle prestazioni di carattere periodico dovute da un soggetto in quanto proprietario nei confronti di un altro soggetto, in capo al quale vige un potere di esproprio del bene in caso di inadempimento dell’onere.

Si è dunque in presenza di una prestazione dai tratti obbligatori che non può essere paragonata alla servitù per il fatto che in quest’ultima il peso imposto sul fondo servente è di carattere continuativo, sempre costituito a vantaggio del fondo e mai della persona.

Negli oneri reali, di converso, il “peso” è di carattere non continuativo, privo dell’utilitas richiesta dalla predialità e potenzialmente costituibile in favore di un soggetto determinato, così assumendo il carattere di una prestazione ad effetti obbligatori.

Gli oneri si contraddistinguono per l’inerenza alla proprietà, per l’insorgenza automatica per effetto della legge, una volta sorta la titolarità del diritto reale, nonché per la tendenziale opponibilità ai terzi conseguente alla trascrizione.

Resterebbe da comprendere, oltre la natura giuridica che pone in dubbio la stessa certezza degli elementi costitutivi della proprietà, se il codice civile contempli, tipizzandole, talune fattispecie di oneri reali.

Parte della dottrina ritiene che una forma di onere reale sia ravvisabile nell’istituto dell’enfiteusi, ossia quel diritto reale di godimento con cui un soggetto, l’enfiteuta, assume lo stesso diritto di godimento che spetta al proprietario del fondo salvo l’obbligo di effettuare miglioramenti e corrispondere al proprietario concedente un canone periodico.

Se da un lato tale fattispecie si presenta come fortemente limitativa del diritto di proprietà tanto da doversi parlare di uno sdoppiamento tra dominio diretto e dominio utile, dall’altro, le obbligazioni di cui all’art.960 c.c. gravanti sull’enfiteuta secondo alcuni costituirebbero vere e proprie prestazioni a carattere reale.

Altre figure sono state individuate negli obblighi sanciti dall’art.860 c.c., a mente del quale “i proprietari dei beni situati entro il perimetro del comprensorio sono obbligati a contribuire alla spesa necessaria per l’esecuzione, la manutenzione e l’esercizio delle opere in ragione del beneficio che traggono dalla bonifica”, ovvero nel privilegio speciale sugli immobili e nella rendita vitalizia garantita da ipoteca.

Orbene, avverso chi ritiene che in tutti questi casi si ravviserebbe una riviviscenza della fattispecie in questione, si pone chi ne decreta la scomparsa dall’ordinamento vigente, asserendone la controversa natura giuridica al contempo reale e personale, come tale non perfettamente conforme ai caratteri strutturali della proprietà.

La realità tradizionalmente individuata dalla dottrina, essenzialmente fondata sul carattere dell’inerenza al bene, è opposta da chi ravvisa nell’onere un diritto di credito assistito da una garanzia reale, nel quale viene a mancare il requisito dell’immediatezza, stante la necessaria partecipazione collaborativa del soggetto tenuto alla sua realizzazione.

Allo stesso tempo l’onere non può essere concepito alla stregua di un diritto reale di garanzia, quale ad esempio l’ipoteca, quest’ultima rappresentando un diritto accessorio fonte in un titolo autonomo e distinto rispetto alla titolarità del bene.

In definitiva, non potendosi porre in dubbio la più o meno esaustiva bontà di tutte le argomentazioni dedotte dai vari orientamenti che negano l’esistenza di un netto criterio distintivo tra fattispecie assolute e fattispecie relative, ciò che invece sembra trovare ancora una propria ragion d’essere è il criterio dell’immediatezza.

L’immediatezza è quanto di più esaustivo possa consentire di distinguere le due categorie, poiché quanto non è ad immediata realizzazione dovrà necessariamente essere ricondotto nell’alveo degli effetti obbligatori: ivi comprese le figure ibride degli oneri reali, delle servitù negative e in generale delle obbligazioni propter rem.

5. Il numerus clausus e il principio di tipicità dei diritti reali: il sopravvento della manipolazione negoziale

Il dogma della proprietà e dei diritti reali è stato costruito nei decenni intorno a due noti concetti di numerus clausus e tipicità.

Sebbene la letteratura tenda a concepire i due concetti in maniera sovrapposta essi devono essere trattati in maniera disgiunta e differente.

Il numero chiuso indica un principio in forza del quale deve sussistere l’esclusività della fonte legale, essendo rimesso solo alla legge il potere di creare ex novo un diritto reale e non invece all’autonomia negoziale.

Diversamente la tipicità concerne non l’esclusività della fonte, ma l’esclusività della disciplina e del contenuto dei diritti reali che devono essere compiutamente fissati dalla legge.

Il punto essenziale è comprendere se e fino a che punto l’autonomia negoziale può spingersi nell’introdurre varianti contenutistiche.

Su tale questione si sono contese il campo tre diverse tesi dottrinali.

La tesi tradizionale e più risalente è certamente protesa alla rigidità e inderogabilità del numero chiuso dei diritti reali, adducendo una serie di argomentazioni.

Una prima argomentazione è quella fondata sul dato normativo e specificamente sul contenuto dell’art.832 c.c., il quale andrebbe a fissare al contempo una regola e un’eccezione: la regola è la pienezza del diritto di proprietà, mentre l’eccezione sono proprio le limitazioni normative ad esso.

In secondo luogo, si evidenzia il passaggio storico dall’ancien regime alla post-rivoluzione, contesto in cui si è affermato un diritto di proprietà scevro da qualsivoglia reminiscenza di carattere feudale, fino ad approdare, come visto, ad una concezione di proprietà funzionale alla realizzazione del pubblico interesse mediante la snella circolazione della ricchezza.

Altro argomento particolarmente significativo è quello pubblicitario, attento alla tutela dei terzi, la cui conoscibilità della condizione della res sarebbe messa in crisi dall’atipicità della limitazione.

Un argomento a carattere dogmatico si fonda invece sul principio di relatività del contratto tra le parti ex art.1372 c.c., il quale trova la sua deroga nei contratti ad effetti reali trascritti che, come noto, sono opponibili erga omnes.

Quest’ultimo principio non può essere suscettibile di deroghe per mezzo di diritti reali minori ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge.

La tesi totalmente opposta è quella che contempla l’assoluta atipicità, secondo la quale viene ad essere valorizzata la funzione sociale della proprietà e la sua funzionalizzazione al perseguimento di obiettivi sociali e ambientali legati al benessere della collettività.

La stessa certezza dei rapporti giuridici, posta a presidio della rigidità del numero chiuso, deve ritenersi soccombente rispetto al principio costituzionale di solidarietà ex art.2 Cost., il quale impone di valutare in concreto l’interesse perseguito dalle parti mediante la compromissione atipica della proprietà.

Con riguardo al principio generale della relatività degli effetti negoziali si sottolinea invece che anche il negozio ad effetti reali è un negozio rispondente al principio di cui all’art.1372 c.c., poiché l’effetto deve ritenersi prodotto solo tra le parti.

L’elemento dell’opponibilità derivante dalla trascrizione deve essere piuttosto concepito non come l’effetto diretto ma come l’effetto riflesso del negozio.

Del resto, l’elencazione dei negozi trascrivibili contemplata dall’art.2643 c.c. non può ritenersi tassativa, dovendosi piuttosto considerare trascrivibili tutti i negozi diversi da quelli elencati che producono gli stessi effetti o effetti omogenei.

Tra le due posizioni nettamente antitetiche appare preferibile accogliere una tesi mediana che fa leva proprio sulla distinzione resa in precedenza tra numerus clausus e tipicità dei diritti reali.

Più precisamente si deve ritenere che, mentre il numero chiuso è un principio che deve restare assolutamente intangibile, non potendosi ammettere l’esistenza di diritti reali atipici frutto della volontà negoziale, il principio di tassatività non resiste al decorso del tempo.

Non è infatti concepibile presumere che le norme codicistiche, concernenti la disciplina contenutistica della proprietà e dei diritti reali, debbano considerarsi norme imperative.

Le parti, pur non potendo creare ex novo categorie atipiche di diritti reali, possono intervenire sul contenuto degli stessi senza stravolgerne i requisiti minimi essenziali, al fine di perseguire il loro interesse concreto.

In definitiva è possibile affermare che il dogma dell’indefettibilità del numero chiuso dei diritti reali, come fattispecie eccezionalmente limitative di un diritto originariamente assoluto, non può dirsi completamente scalfito, ma nemmeno totalmente impassibile al decorso del tempo.

È nel principio di tipicità che si ravvisa, invero, quella falla del sistema che consente all’autonomia negoziale di insinuarsi nella disciplina contenutistica dei diritti reali, apportandovi deroghe funzionali, ma non drastiche, al perseguimento della ragion pratica del negozio.

La manipolazione negoziale è dunque ammessa, purché entro il limite del rispetto di quel contenuto minimo essenziale che ne garantisce lo stesso mantenimento del numerus clausus.

6. Verso nuove forme di proprietà: negozi di destinazione e il trust

L’analisi fin qui condotta è approdata verso la messa in discussione delle fondamenta tradizionali dei diritti reali, per ciò che concerne la superata indubitabilità dei tre elementi essenziali, la traballante dicotomia diritti assoluti-diritti relativi e la vulnerabilità negoziale se non del principio del numerus clausus, quanto di quello di tipicità.

L’evoluzione normativa, adeguatasi alle nuove esigenze economiche, ha visto la nascita o comunque l’implementarsi di una serie di istituti, connotati da profili di atipicità rispetto all’essenza dei diritti reali.

Istituti, anche dall’incerta natura, ove, più d’ogni altro aspetto legato alla manipolazione negoziale del contenuto, viene in discussione l’inscindibilità della titolarità del diritto di cui all’art.832 c.c.

La prima fattispecie che viene in rilievo è quella prevista dall’art.2645 ter c.c.: il negozio di destinazione.

Si parta dal rilievo secondo cui la fattispecie in oggetto trova collocazione sistematica nell’ambito della disciplina delle trascrizioni, immediatamente dopo le norme che disciplinano l’obbligo di trascrizione degli atti produttivi di effetti reali, nonché il principio di priorità delle trascrizioni.

Una tale collocazione rende la natura della norma ancor più complessa, stante il fatto che la stessa può considerarsi tutto tranne che una semplice norma sulla trascrizione del nuovo negozio.

L’art.2645 ter c.c. rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”  così recita: “gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo”.

Come è evidente dalla lettura del testo, la norma, a più riprese, rinvia al principio di meritevolezza del contenuto negoziale, soprattutto mediante l’espresso richiamo all’art.1322 comma 2 c.c.

L’atto negoziale unilaterale, con il quale il disponente imprime un vincolo di destinazione su un determinato bene destinato alla realizzazione di un interesse altruistico inerente a certe categorie di soggetti, deve soggiacere ad un vaglio di meritevolezza.

Accade infatti che un soggetto, il disponente, possa scegliere di trasferire un bene in capo ad un altro soggetto, il gestore, affinché questi lo amministri o in favore di un terzo beneficiario o semplicemente per un determinato scopo, che ne rappresenta il vincolo.

Dal punto di vista strutturale si può rilevare che solo un negozio di destinazione a carattere “dinamico” può dirsi composto di un atto di disposizione e di un atto di destinazione, i quali dovranno essere entrambi trascritti. Ben può accadere, però, che il disponente non trasferisca il bene al gestore ma si limiti a imprimere il vincolo di destinazione in favore del beneficiario, assumendo egli stesso la veste di disponente e gestore allo stesso tempo.

Il vincolo di destinazione, che produce un effetto segregativo sul bene sottratto al patrimonio del disponente, deve assumere una meritevolezza tale da rendere il negozio conforme al modello normativo, sia in termini positivi, ovvero non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, sia in termini positivi ossia rispondere all’interesse solidaristico.

In ciò si ravvista la particolare forza che sorregge la causa negoziale, una causa che non può risolversi in una segregazione sic et simpliciter a danno della par condicio creditorum, ma che più incisivamente deve dar conto dello scopo solidaristico-sociale, unico che solo possa rendere accettabile un sicuro pregiudizio per i creditori generali.

Del resto un istituto quale quello destinatorio crea un’inevitabile segregazione patrimoniale del bene che viene così sottratto alla garanzia patrimoniale generica di cui all’art.2740 c.c., il quale, si badi, non rappresenta una norma di ordine pubblico inderogabile, purché

Da ciò se ne deduce che il nuovo istituto si colloca nel nostro ordinamento come una fattispecie di carattere sostanziale che, lungi dal produrre meri effetti pubblicitari, va ad incidere sull’atto.

Il punto che però interessa ai nostri fini è quello che si interseca con i principi fondamentali in tema di proprietà privata e diritti reali, posto che il negozio di destinazione possiede una natura incerta che necessita di essere indagata.

Sul punto si sono fronteggiate due tesi: la tesi che qualifica il negozio, come un atto produttivo di un effetto reale, il quale da luogo ad una sorta di sdoppiamento della proprietà, che si scinde così in proprietà formale facente capo all’acquirente-gestore e una proprietà sostanziale facente capo al beneficiario.

La tesi della realità sembra essere supportata dall’elemento della trascrizione, nonché dal fatto che taluno intravede nell’art.2645 ter c.c. una positivizzazione interna dell’istituto internazionale del trust (di cui si parlerà a breve).

Questa ricostruzione, tuttavia, non convince la dottrina prevalente, la quale eccepisce la non determinatezza dell’argomento pubblicitario.

L’atto di destinazione è in realtà un negozio ad effetti obbligatori molto particolare poiché esso assume la connotazione di un’obbligazione ambulatoria o propter rem, ossia un’obbligazione che si identifica con la res e circola con essa, a prescindere da chi sia il soggetto tenuto all’adempimento.

Nel caso di specie il titolare passivo dell’obbligazione propter rem è il gestore del bene su cui è stato impresso il vincolo di scopo in favore del beneficiario, cosicché la proprietà formale viene così ad essere compromessa dalla destinazione.

Non può ritenersi risolutivo l’argomento pubblicitario ai fini della qualificazione del negozio ad efficacia reale poiché, se tale fosse stato, la norma sarebbe stata superflua a causa del principio di autonomia negoziale e dell’art.2643 c.c. che ha ad oggetto tutti i contratti ad effetti reali, in secondo luogo, la particolare collocazione della fattispecie dopo la norma concernente il principio di prevalenza nelle trascrizioni, dimostra l’intenzione del legislatore di prevedere in via eccezionale la trascrivibilità di un negozio ad effetti obbligatori che non soggiace al principio di priorità.

Più d’ogni altro aspetto, asserisce la tesi degli effetti obbligatori, la realità del negozio di destinazione non può ritenersi accattabile in quanto determina uno sdoppiamento della proprietà in contrasto con il principio di indivisibilità del diritto in capo al medesimo titolare, deducibile dall’art.832 c.c.

Lo sdoppiamento crea, invero, un nuovo diritto reale atipico in capo all’acquirente-gestore, il quale verrebbe ad essere, da un lato investito di obblighi verso il beneficiario derivanti dal vincolo di scopo, dall’altro diverrebbe titolare di una proprietà “larvata” e fortemente circoscritta.

Ciò in evidente contrasto con il principio del numurus clausus dei diritti reali.

La tesi che viene ritenuta preferibile è quella che ricostruisce il negozio di destinazione come un negozio unilaterale ad effetti obbligatori, normalmente a titolo gratuito, anche a prescindere dal fatto che vi sia una confluenza di attribuzioni reciproche tra più beneficiari che si condensano nel medesimo atto pubblico (in tal senso Cassazione, 13 febbraio 2020, n. 3697).

L’obbligatorietà da vita ad una obbligazione propter rem caratterizzata dall’inerenza al bene vincolato, la cui conseguenza applicativa risiede nella possibilità per il beneficiario di esperire le azioni personali (non reali) nei confronti del gestore che, per qualche ragione, pone in essere atti distrattivi del bene destinato.


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