La prova del DNA nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità

La prova del DNA nel procedimento di dichiarazione giudiziale di paternità

Introduzione. La dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità è disciplinata dall’art. 269 c.c.[1] al fine di garantire al figlio naturale, riconosciuto da uno solo dei due genitori, il diritto ad ottenere lo status di figlio naturale riconosciuto da entrambi i genitori.

La ricerca della paternità naturale si basa sul principio della libertà della prova. Invero, l’art. 269, II comma, c.c. dispone che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. Conseguentemente, il giudice di merito può legittimamente trarre il proprio convincimento, in ordine all’esistenza di un rapporto di filiazione, da risultanze probatorie dotate di mero valore indiziario; l’unico limite posto dal legislatore è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., secondo cui “la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione”. Peraltro, tali circostanze, in concorso con altri elementi probatori, anche presuntivi, possono essere utilizzate dal giudice a sostegno del proprio convincimento in ordine alla sussistenza della paternità

La prova del DNA: certezza in ordine al raggiungimento della verità biologica. Le indagini ematologiche e l’esame del DNA sono, oggi, il mezzo di prova ritenuto più idoneo per l’attribuzione della paternità; infatti, il progresso scientifico e l’evoluzione delle ricerche in campo biologico hanno indotto a ritenere gli accertamenti ematologici e genetici un mezzo ordinario di prova, e non più uno strumento eccezionale da ammettere solo ove non sia altrimenti possibile accertare i fatti di causa.

Orbene, la c.d. “analisi dei polimorfismi del DNA[2] garantisce un elevato grado di certezza in ordine al raggiungimento della verità biologica, costituendo l’unico mezzo di prova diretto e non presuntivo della paternità[3] ed essendo effettuato grazie al confronto tra il profilo genetico del figlio con quello di entrambi i genitori.

Individuate nel figlio le caratteristiche genetiche di provenienza materna, occorre valutare se vi sia corrispondenza con quelle di provenienza paterna: in caso di esito negativo, l’indagine si conclude con l’esclusione certa della paternità; per converso, nel caso in cui venga accertata la compatibilità tra padre e figlio, viene determinata la percentuale di probabilità statistica che il soggetto in esame sia il padre biologico. In merito, la Suprema Corte[4] ha osservato che la percentuale di probabilità di paternità superiore alla soglia del 99,72% costituisce prova autonoma e sufficiente della paternità.

Secondo un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità[5], nei giudizi promossi per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l’esame genetico sul presunto padre si svolge mediante una consulenza tecnica c.d. percipiente, ove il consulente nominato dal giudice non ha solo l’incarico di valutare i fatti acclarati o dati per esistenti, ma di accertare i fatti stessi. Conseguentemente, in tal caso, è necessario e sufficiente, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, affinché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva[6].

Ebbene, attesi i progressi della scienza biomedica, tale mezzo istruttorio è lo strumento più idoneo – avente margini di sicurezza elevatissimi – per l’acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale e con esso il giudice accerta l’esistenza o l’inesistenza di incompatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l’ausilio di competenze tecniche particolari[7].

Peraltro, in tali giudizi, l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di una relazione tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito dall’art. 269, II comma, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare la paternità, né mediante l’imposizione, al giudice, di un “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per espressa disposizione di legge, tutti i mezzi di prova pari valore[8].

Non solo.

Come affermato dalla Suprema Corte[9], nel giudizio volto ad ottenere la dichiarazione giudiziale della paternità o maternità (naturale), se la volontà di sottoporsi al prelievo ematico per eseguire gli accertamenti sul DNA non è coercibile, tuttavia, nulla impedisce al giudice di valutare, in caso di rifiuto, sia pur in sé legittimo, ma privo di adeguata giustificazione, il comportamento della parte, ai sensi dell’art. 116, II comma, c.p.c.[10].

Da ciò non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di decidere se sottoporsi ai prelievi, mentre la facoltà di trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte, è chiara applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice che non pregiudica il diritto di difesa.

Invero, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità[11], nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, di così elevato valore indiziario da poter, da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda[12].

In conclusione, è stato, altresì, affermato dalla giurisprudenza[13] che nel giudizio di disconoscimento della paternità è valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla prova genetica ed ematologica, ma anche l’opposizione avverso l’istanza di detta prova, riconducibile nell’ambito del comportamento processuale di cui all’art. 116, II comma, c.p.c.

 

 


[1] Art. 269 c.c. “Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”: “La paternità e la maternità (naturale) possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso. La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo. La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre. La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità (naturale)”.
[2] Il test di paternità è un esame tramite il quale viene prelevato un campione cellule dal figlio, dal presunto padre e se possibile anche dalla madre; esso permette di dare conferma o, al contrario, di escludere la compatibilità biologica tra il codice genetico del presunto padre e quello del figlio. Ciò avviene in quanto vengono effettuati in laboratorio il confronto e l’analisi dei DNA (codice genetico che caratterizza ciascun individuo e che si eredita da entrambi i genitori) dei soggetti interessati. Il test può essere eseguito non solo attraverso l’esame del sangue, ma anche attraverso l’utilizzo di altro materiale biologico (saliva, unghie, capelli).
[3] Trib. Vicenza, 21.03.2019, n. 676.
[4] Cass. civ., Sez. I, 03.04.2007, n. 8355.
[5] Cass. civ., Sez. I, 13.12.2018, n. 32308, ripresa da Cass. civ., Sez. I, 14.05.2019, n. 16128.
[6] Cass. civ., Sez. III, 26.02.2013, n. 4792; Cass. civ., Sez. III, 13.04.2009, n. 6155.
[7] Cass. civ., Sez. I, 13.12.2018, n. 32308; Cass. civ., Sez. I, 29.05.2008, n. 14462.
[8] Cass. civ., Sez. I, 23.02.2016, n. 3479.
[9] Cass. civ., Sez. I, 13.12.2018, n. 32308.
[10] Art. 116 c.p.c. “Valutazione delle prove”: “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”.
[11] Ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 08.11.2019, n. 28886; Cass. civ., Sez. I, 13.12.2018, n. 32308; Cass. civ., Sez. I, 21.06.2018, n. 16356; Cass. civ., Sez. I, 14.11.2017, n. 26914; Cass. civ., Sez. I, 27.07.2017, n. 18626; Cass. civ., Sez. I, 25.03.2015, n. 6025; Cass. civ., Sez. I, 21.05.2014, n. 11223; Cass. civ., Sez. I, 28.08.2012, n. 12971.
[12] Cass. civ., Sez. I, 13.12.2018, n. 32308; ripresa da ultimo da Cass. Civ., Sez. I, 14.06.2019, n. 16128.
[13] Cass., civ., Sez. I, 21.05.1985, n. 3094; Cass. civ., Sez. I, 11.12.1980, n. 6400.

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Ludovica Ionà

- Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi "Roma Tre", con tesi di laurea in diritto penale, dal titolo "L'art. 41-bis ord. penit.: il c.d. "carcere duro"". - Praticante avvocato abilitato al patrocinio.

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