La questione del cumulo tra risarcimento del danno ed indennizzo

La questione del cumulo tra risarcimento del danno ed indennizzo

1. La determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro ad un proprio dipendente

Il Consiglio di Stato, sez. IV, con ordinanza n. 2719/2017 ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione attinente alla valenza del principio della cd. compensatio lucri cum damno nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro pubblico ad un proprio dipendente.

La questione proposta davanti al G.A. riguardava una controversia azionata da un dipendente pubblico al fine di conseguire il ristoro del danno biologico subito per esposizione ad amianto nei luoghi di lavoro, avendo già tale soggetto percepito le prestazioni indennitarie previste dalla legge per i dipendenti pubblici affetti da patologie contratte a causa di servizio.

In particolare, si trattava di accertare se la somma spettante a titolo risarcitorio per lesione della salute fosse cumulabile con l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del danno.

In primo grado, il Tribunale amministrativo riteneneva che “come da costante orientamento della giurisprudenza, le prestazioni indennitarie riconosciute dalla legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per causa di servizio ovvero per le vittime del dovere concorrono con il diritto al risarcimento del danno da responsabilità contrattuale o extracontrattuale dell’amministrazione in ordine al medesimo pregiudizio all’integrità psicofisica patita dal dipendente“. L’importo di quelle prestazioni “non può cioè venire detratto da quanto spettante per il diverso titolo risarcitorio, dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di compensatio lucri cum damno“.

Si affermava, infatti, che l’illecito mentre “costituisce fatto genetico e costitutivo della pretesa al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità che sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’espletamento di un servizio di istituto del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amministrazione datrice di lavoro e in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato, ciò che rileva è l’assenza della finalità compensativo-sostitutiva propria del risarcimento“.

Il Ministero della giustizia proponeva appello, fondato sull’unico motivo della ritenuta “violazione e falsa applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, desumibile dall’art. 1223 c.c.“.

Secondo il Ministero “la necessità dello scomputo dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno di quanto corrisposto all’appellato proprio in ragione della riconosciuta dipendenza dal servizio della patologia contratta per effetto dell’esposizione all’amianto è imposta dall’esigenza di evitare l’ingiustificato arricchimento determinato dal porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della giustizia) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo“.

Si costituiva in giudizio il ricorrente in primo grado, chiedendo il rigetto dell’appello.

In materia, tuttavia, era riscontrabile un contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

2. Primo orientamento: ammissibilità del cumulo tra indennizzo e risarcimento

Un primo orientamento tradizionale, cui si è uniformato il Tribunale amministrativo, riteneva che in questi casi possa operare il cumulo tra indennizzo e risarcimento, venendo in rilievo fonti diverse delle obbligazioni dovute e la condotta illecita è mera “occasione” e non “causa” dell’attribuzione dell’indennità.

In particolare, sul piano strutturale, si affermava come la diversità dei titoli delle obbligazioni e dei relativi rapporti giuridici sottostanti costituiva una idonea causa giustificativa delle differenti attribuzioni patrimoniali e, conseguentemente, la condotta illecita rappresentava non la causa dell’indennità a vario titolo corrisposta ma la mera occasione di essa.

Non era, pertanto, applicabile la regola della causalità giuridica ai fini del computo delle indennità nella fase di determinazione effettiva del danno.

Sul piano funzionale, non vi erano rischi di sovracompensazioni economiche proprio perché la diversità delle ragioni giustificative delle attribuzioni patrimoniali impediva di assegnare valenza punitiva al risarcimento del danno.

3. Secondo orientamento: la teoria della compensatio cum lucri damno

Un secondo orientamento minoritario sosteneva, invece, che in questi casi doveva operare la compensatio lucri cum damno, in quanto ciò che rilevava è che la condotta sia unica e, nella specie, il fatto illecito doveva considerarsi “causa” dell’attribuzione dell’indennità.

In particolare, Cass., Civ., sez. III, sentenza n. 6573, 14 marzo 2013, ha statuito che “il diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito delle emotrasfusioni con sangue infetto ha natura diversa rispetto all’attribuzione indennitaria regolata dalla legge n. 210/1992; tuttavia, nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo già eventualmente corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, c.d. compensatio lucri cum damno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico del medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”.

Pure Cass., Civ., sez. III, sentenza n. 13233, 11 giugno 2014 ha opinato, in tema di assicurazione contro gli infortuni non mortali, che “il risarcimento dovuto alla vittima di lesioni personali deve essere diminuito dell’importo percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni”.

Questo secondo indirizzo torna, in sostanza, alle radici normative del principio in questione: l’art. 1223 c.c., si afferma, è dettato al fine di stabilire natura e confini del danno risarcibile, ovvero ad identificare e perimetrare, ai fini della responsabilità civile, la rilevanza giuridica dell’evento materiale di danno.

La disposizione stabilisce che tutto ciò che è conseguenza “immediata e diretta” della condotta del danneggiante rileva nell’ottica della responsabilità civile.

È evidente che ove la legge od il contratto stipulato dal danneggiato con terzi contemplino, in dipendenza di un danno, benefici, indennità, provvidenze o trattamenti preferenziali di vario genere, i conseguenti vantaggi economici sono legati alla condotta del danneggiante da un nesso eziologico che non può essere qualificato, in ottica giuridica, esso pure immediato e diretto, stante la strutturale cogenza della legge.

Il risarcimento del danno mira esclusivamente a ricondurre la sfera giuridica del danneggiato nella condizione in cui si trovava prima dell’illecito, neutralizzando gli effetti immediati e diretti della condotta del danneggiante.

Di conseguenza, vengono ricomprese tutte le modificazioni del patrimonio del danneggiato provocate dall’illecito secondo un criterio di regolarità causale: dunque sia quelle costituenti effetto materiale della condotta del danneggiante, sia quelle comunque conseguenti, ex lege ovvero ex contractu, alla verificazione di quello specifico evento di danno.

In termini più puntuali, si ritiene che laddove il danno sia anche elemento costitutivo di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza a favore del danneggiato, artt. 40 e ss. c.p., siffatta provvidenza sia un effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato, giacché da esso deriva secondo un processo di lineare regolarità causale.

Il cumulo di benefici di carattere indennitario, da un lato, e del risarcimento del danno, dall’altro, determinerebbe una locupletazione del danneggiato, il cui patrimonio dopo l’evento di danno risulterebbe addirittura incrementato rispetto a prima, strutturalmente incompatibile con la natura reintegratoria della responsabilità civile.

L’adesione a tale approccio ermeneutico consentirebbe all’assicuratore privato o sociale, ovvero agli enti di previdenza, di agire in rivalsa nei confronti del danneggiante per ripetere l’importo della provvidenza indennitaria corrisposta al danneggiato.

Secondo l’indirizzo esegetico in questione, pertanto, la diversità di presupposti fra le varie provvidenze indennitarie previste dal contratto o dalla legge ed il risarcimento del danno da illecito civile non giustifica le conclusioni cui perviene l’orientamento tradizionale: l’oggettiva identità del pregiudizio che ambedue gli istituti vanno a riparare, si sostiene, ne esclude la cumulabilità ed impone, di contro, di defalcare dalla somma dovuta a titolo di risarcimento l’eventuale importo riconosciuto al danneggiato in via indennitaria, che, in quanto avvinto al fatto illecito da un nesso di regolarità causale, ne è, agli effetti giuridici, conseguenza immediata e diretta nell’accezione che di essa dà il diritto vivente.

4. La decisione dell’Adunanza Plenaria con sent. n. 1/2018

La Sezione, in considerazione del pregio delle argomentazioni poste a sostegno del più recente indirizzo, dell’esposto contrasto giurisprudenziale fra Sezioni della Corte di Cassazione e della possibilità che tale contrasto possa svilupparsi anche in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, riteneva opportuno deferire il presente ricorso all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 4, c.p.a., per la decisione del seguente punto di diritto: se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali.

Le parti depositavano memorie difensive nel presente giudizio.

In particolare, la parte appellata metteva in rilievo come, in questo caso, non potesse operare la regola della compensatio in quanto: sussisteva una diversità di titoli delle obbligazioni, aventi natura e presupposti diversi, che giustificavano il cumulo tra le somme pretese; la disciplina degli indennizzi da corrispondere in presenza di infermità derivanti da cause di servizio puntualmente indicavano i fattori che devono ridurre l’indennità da corrispondere e tra questi non era menzionata la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686); nella specie veniva in rilievo il risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione al quale, da un lato, non sarebbe neanche astrattamente ipotizzabile “un rischio di arricchimento del danneggiato“, non potendo il danno alla persona “essere riparato in base a criteri convenzionali” e pertanto il danneggiato non potrebbe “neanche ritrovarsi in una situazione più favorevole rispetto a quella generata dall’illecito“; dall’altro, “viene in rilievo un danno biologico (…) che assume una rilevanza particolare all’interno del danno non patrimoniale risarcibile”; dall’altro ancora, l’art. 1223 cod. civ. “fa riferimento alla “perdita” e al “mancato guadagno” subiti dal creditore”, che identificherebbero concetti che “attengono al patrimonio del danneggiato (…) ma sono invece estranei al risarcimento del danno non patrimoniale, riguardo al quale non è concepibile una tale distinzione“; nella fattispecie in esame, la responsabilità dovrebbe avere una funziona sanzionatoria per la presenza di una condotta dell’amministrazione che avrebbe posto in evidenza “gravi mancanze nella tutela dell’integrità del dipendente”, con la conseguenza che la “relativa condanna ha un effetto di stimolo per il corretto adempimento dei doveri facenti capo all’amministrazione“.

Infine, si chiedeva, anche qualora venisse vietato il cumulo, di affermare il principio di diritto ai soli giudizi proposti dopo la decisione della Plenaria “in conformità al principio di irretroattività dei mutamenti giurisprudenziali incidenti sul diritto vivente“.

L’orientamento fatto proprio dalle ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite aderiva al secondo orientamento ritenendo che debba farsi applicazione della regola della compensatio.

In particolare, sul piano strutturale, si affermava come la diversità dei titoli non giustifichi l’esito cui era pervenuto l’opposto indirizzo interpretativo in quanto ciò che rileva è che la condotta, e non il titolo, sia unica e che essa costituisca la “causa” sia danno sia dell’attribuzione di somme finalizzate a reintegrare il patrimonio leso.

In particolare, sul piano della causalità giuridica, si sottolinea, non è “corretto interpretare l’art. 1223 cod. civ. in modo asimmetrico e ritenere che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito” (Cass. civ., Sez. III, n. 15534, 22 giugno 2017).

Sul piano funzionale, ammettendo il cumulo e non la compensatio, si assegna una funzione sovracompensativa al risarcimento del danno.

Questi aspetti sono resi ancora più complessi dal meccanismo della surrogazione prevista dall’art. 1916 cod. civ. e dalla legislazione speciale.

In particolare, tale articolo dispone che “l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili“.

Il danneggiante, infatti, si sottolineava nelle ordinanze di rimessione, potrebbe essere costretto a corrispondere la medesima somma sia al danneggiato sia, a seguito della successione nel rapporto obbligatorio, al soggetto o ente che ha corrisposto l’indennità alla parte lesa.

Si verrebbe così ad attribuire, sul presupposto che i benefici collaterali corrisposti non abbiano valenza autonoma giustificativa delle relative attribuzioni patrimoniali, una funzione punitiva al risarcimento del danno in mancanza di una espressa previsione di legge che lo consenta.

L’unica possibilità per evitare questo risultato sarebbe quello di ritenere che non operi la surrogazione.

Ma tale esito, sottolinea la Cassazione, sarebbe contraddittorio in presenza di norme imperative che la contemplano e che non potrebbero essere derogate con atto di autonomia delle parti.

Sotto altro aspetto, nelle ordinanze di rimessione si poneva in evidenza, con implicazioni sulla funzione deterrente della responsabilità, che “l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale“: infatti, “se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento di un assicuratore, ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, a nulla rilevando né che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, né che, avendolo, vi abbia rinunciato“.

In definitiva, si tratta di accertare se i due rapporti giuridici che vengono in rilievo, mantenendo una loro autonomia e dunque una valenza “bilaterale“, abbiano ciascuno una propria causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali che consente il cumulo tra di esse ovvero se tali rapporti, anche in ragione della operatività del meccanismo della surrogazione, di cui occorre valutare l’eventuale derogabilità convenzionale, siano strettamente collegati con sussistenza di una sostanziale “unitaria” causa di giustificazione delle attribuzioni patrimoniali che impone l’operatività della compensatio tra di esse mediante l’applicazione del meccanismo della regolarità causale.

La terza fattispecie è quella in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni.

La vicenda concreta all’esame di questa Adunanza plenaria si inserisce in questo ambito.

Nella specie, la parte appellata: ha già ottenuto dal Ministero della Giustizia una somma a titolo di indennità per infermità dipendente da causa di servizio conseguente all’esposizione a fibre di amianto presenti nel luogo di lavoro; ha chiesto con il presente giudizio la condanna dello stesso Ministero al risarcimento anche del danno alla salute subito per la medesima ragione senza detrazione della somma già corrisposta a titolo di indennità.

La soluzione della questione all’esame della Plenaria presuppone la previa individuazione dei titoli delle obbligazioni che vengono in rilievo e della loro natura, nonché dei soggetti del rapporto obbligatorio.

Il primo titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 c.c., applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“.

In relazione alla natura di tale obbligazione, è controversa la sua riconducibilità alla responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Il prevalente orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, condiviso dal Collegio, ritiene che la responsabilità del datore di lavoro abbia natura contrattuale e rinvenga la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 c.c., è integrato dalla norma di legge che prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore.

Sul piano strutturale, tale qualificazione dell’illecito implica, ai sensi dell’art. 1218 cc., che: il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza; il datore di lavoro deve provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

L’accertamento di tale responsabilità, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, dà diritto, sussistendone i presupposti, anche al risarcimento del danno non patrimoniale e, in particolare, del cd. danno biologico.

A tale proposito, l’art. 2059 c.c. dispone che tale voce di danno “deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge“.

Ai fini del danno conseguenza, viene in rilievo la cd. “sofferenza morale“, che costituisce l’aspetto interiore del danno, e il c.d. “danno esistenziale“, che costituisce “l’impatto modificativo in peius con la vita quotidiana” e cioè l’incidenza dell’illecito nella sfera dinamico relazionale del soggetto, in quanto “i due autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo” sono “il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana” (Cass. civ., sez. III, sentenza n. 7766, 20 aprile 2016).

Si tratta di un danno avente “natura unitaria“, il che sta a significare che non v’è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Ne consegue che il danno biologico, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, non potrebbe ricevere un trattamento differenziato.

La Cassazione, a partire dalla sent. n. 26972/2008, ha ritenuto che l’art. 2059 c.c., nonostante manchi una espressa norma di collegamento, sia applicabile anche in ambito contrattuale.

In particolare, in assenza di una espressa previsione di legge che contempli tale danno, è necessario che il contenuto dell’obbligazione contrattuale, individuato anche alla luce della causa in concreto e dunque della ragione pratica dell’affare, sia costituito dal dovere di protezione di un diritto fondamentale della persona del creditore.

Invero, l’art. 1174 c.c., prevedendo che la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore, sembra assegnare all’autonomia negoziale delle parti il potere di selezionare gli interessi tutelabili con conseguente applicabilità del meccanismo risarcitorio in esame anche a prescindere dall’esistenza di un diritto costituzionalmente protetto ovvero di una espressa previsione legislativa.

Nella fattispecie in esame, è indubbio che viene in rilievo un diritto della persona costituzionalmente tutelato, in quanto l’art. 2087 cod. civ. pone a carico del datore di lavoro il dovere di proteggere proprio la sfera personale del lavoratore e in particolare il diritto all’integrità psico-fisica.

La violazione di tale norma autorizza la corresponsione anche del danno non patrimoniale.

Sul piano funzionale, la norma in esame, anche in presenza di un danno non patrimoniale, impone che il risarcimento del danno, in attuazione delle regole della causalità giuridica, venga corrisposto con finalità esclusivamente compensative.

Il legislatore non ha autorizzato, infatti, la previsione di forme di danni punitivi.

Inoltre, deve ritenersi che l’indennità in questione ha natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria da illecito contrattuale, per le seguenti ragioni.

Sul piano strutturale, la nozione di “indennità” è normalmente collegata ad una condotta che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema.

La nozione di “indennità” è però compatibile anche con una condotta che integri gli estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema.

Si può trattare, in questi casi, di un illecito che non è conseguenza della violazione di un dovere di prestazione o protezione di matrice contrattuale ovvero della violazione di un dovere generale del neminem laedere di matrice extracontrattuale ma di un dovere contemplato da una specifica disposizione di legge.

Nella fattispecie in esame, questo Collegio ritiene che le norme di disciplina della materia prevedano un’indennità che può essere conseguenza sia un di atto illecito sia di un atto lecito dannoso.

Sul piano funzionale, la finalità perseguita, in ogni caso, è quella di compensare la sfera giuridica del lavoratore leso sia pure attraverso un meccanismo strutturalmente differente da quello risarcitorio.

Il bene protetto è anche in questo caso l’integrità psico-fisica del dipendente ed essa costituisce non l’occasione ma la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale.

Non può, pertanto, ritenersi, anche alla luce dell’evoluzione del sistema giuslavoristico e delle forme di tutela della persona, che l’indennità in esame sia assimilabile alle altre indennità corrisposte in costanza di rapporto.

Il risultato cui era pervenuta l’Adunanza plenaria considerava, infatti, il lavoratore esclusivamente come prestatore di attività destinatario in quanto tale di diverse indennità e non anche come persona protetta dal relativo contratto.

I soggetti che vengono in rilievo si inseriscono in un rapporto obbligatorio bilaterale in cui compare una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola parte danneggiata.

L’Amministrazione statale è, infatti, l’unico soggetto che deve corrispondere sia l’indennità sia la somma risarcitoria in qualità di datore di lavoro pubblico.

L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi ai titoli e ai soggetti delle obbligazioni che vengono in rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non possono essere cumulate.

Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa.

In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga compensato e liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che le suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.

Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della compensatio nella sua versione tradizionale, che presuppone che la medesima condotta determini un danno e un vantaggio.

In questo caso, infatti, la medesima condotta ha determinato solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il cumulo di voci risarcitorie e non il cumulo di danno e di lucro.

Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva.

L’esistenza, infatti, di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo.

Tale risultato, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un rimedio sovra-compensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa dell’attribuzione patrimoniale.

In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli delle obbligazioni concorrenti del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e indennità.

Questo esito interpretativo trova conferma sia in fattispecie legalmente previste sia in talune fattispecie cosi come interpretate dalla Corte di Cassazione.

In relazione alle prime, è sufficiente menzionare l’art. 2-bis della l. n. 241 del 1990 che, in caso di comportamento illecito dell’amministrazione conseguente alla violazione del termine di conclusione del procedimento, dispone che l’istante ha diritto sia, sussistendone i presupposti, al risarcimento del danno sia ad un indennizzo per il mero ritardo, aggiungendo, sul presupposto della medesima finalità della misura riparatoria contemplata, che “in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento“.

In relazione alle seconde, la Cassazione ha affermato che, in presenza di una danno da emoderivati infetti, il Ministero può essere ritenuto responsabile, ricorrendo i presupposti previsti dall’art. 2043 cod. civ., per omessa vigilanza. La L. 25 febbraio 1992, n. 210 prevede la corresponsione da parte del Ministero della sanità di un “indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati“.

La Cassazione ha affermato che l’indennizzo corrisposto al danneggiato deve essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento “posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto, il Ministero della salute, ed aventi causa dal medesimo fatto” (Cass. civ., Sez. Un., sentenza n. 583, 11 gennaio 2008; nello stesso senso, tra le altre, Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 26152, 12 dicembre 2014).

Questo esito interpretativo non è inciso dalle seguenti argomentazioni difensive della parte appellata.

In relazione alla espressa previsione da parte della normativa di settore sull’equo indennizzo dei fattori che sono idonei a ridurre l’indennità da corrispondere e che non ricomprenderebbero la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del D.P.R. n. 686 del 1957), deve rilevarsi come non si possa ritenere che essi siano gli unici rilevanti.

Ciò in quanto, alla luce dei principi generali che regolano la materia, sarebbe stata necessaria una esplicita previsione idonea ad assegnare carattere di esclusività ai divieti di cumulo.

In relazione alla impossibilità di applicare la regola della compensatio al danno non patrimoniale per la sua natura che escluderebbe la stessa astratta possibilità di una riparazione, in base a criteri convenzionali, dell’interesse personale leso, deve rilevarsi come anche tale voce di danno abbia una finalità compensativa e debbano essere previste modalità risarcitorie idonee ad evitare ingiustificati arricchimenti.

La non patrimonialità del bene leso e soprattutto delle conseguenze derivanti dal fatto lesivo non esclude la possibilità che si proceda, in via equitativa e con l’ausilio di meccanismi tabellari da calare sempre nell’ambito di processi personalizzati che valorizzino le peculiarità del caso concreto, ad una determinazione quantitativa degli effetti economici negativi subiti dal soggetto leso.

In altri termini, la particolare natura del pregiudizio alla persona non esclude che si provveda ad una sua quantificazione.

In tale ottica, se si ammettesse la possibilità di cumulare somme dovute anche a titolo diverso la conseguenza sarebbe quella di assegnare una valenza punitiva al danno risarcibile in contrasto con la più volte enunciata regola della finalità compensativa in assenza di una espressa previsione legislativa.

La decisione dell’intera controversia, ai sensi dell’art. 99, comma 4, ha comportato l’accoglimento dell’appello.

In via preliminare deve rilevarsi come la regola della compensatio, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte privata resistente, non può ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso. Gli enunciati giurisprudenziali hanno, infatti, natura formalmente dichiarativa.

La diversa opinione “finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione” (Cons. Stato, Ad. Plen., sentenza n. 9, 2 novembre 2015).

Affinché un orientamento del giudice della nomofilachia possa avere efficacia solo per il futuro devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: “a) che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; c) che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte” ( Cass. civ., sentenza n. 5962, 11 marzo 2013).

Nella fattispecie in esame non occorre applicare una norma processuale e nemmeno attinente al procedimento amministrativo, e, in ogni caso, non risulta che vi sia stato né un mutamento imprevedibile di orientamento in ragione anche degli indirizzi interpretativi seguiti nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione né una incidenza negativa sul diritto di azione della parte appellata.

Chiarito ciò, nella specie il Tribunale amministrativo ha ritenuto, applicando la regola del cumulo, che il ricorrente avesse diritto ad aggiungere all’indennità già percepita il risarcimento del danno non patrimoniale. La controversia in esame deve, invece, essere risolta, in applicazione dei principi sin qui esposti, mediante l’applicazione della regola del divieto di cumulo.

Alla luce di quanto esposto l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 1, 23 febbraio 2018 ha enunciato il seguente principio di diritto relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali: “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario“.


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