La responsabilità degli amministratori di S.p.A.

La responsabilità degli amministratori di S.p.A.

La responsabilità degli amministratori di una Società per Azioni rappresenta un tema molto caro al Legislatore. Numerose sono state le modifiche intervenute durante il corso degli anni. Gli amministratori di S.p.A. possono incorrere durante il loro mandato ed in un momento successivo ad esso per le attività poste in essere all’epoca dell’incarico, in complicazioni di natura civilistica, penalistica o dal risvolto amministrativo. Nella maggior parte dei casi le conseguenze penalistiche ed amministrative sono soltanto ulteriori sfaccettature che derivano dalla disciplina civilistica e, quindi, su tale risvolto bisognerà porre l’attenzione in modo particolare.

Numerosi sono gli articoli presenti all’interno del codice civile nei quali vengono redatte norme di condotta, di responsabilità o di rischio in capo agli amministratori. Il nucleo centrale è, in ogni modo, riconducibile al Libro V, Titolo V, Capo V, Sez. VI del Codice Civile negli articoli 2392 e ss.. Tali articoli prevedono tre fattispecie specifiche di responsabilità in capo agli amministratori ed enunciano regole di condotta che, in combinato disposto con differenti articoli del codice civile, costituiscono ulteriori figure di responsabilità.

Gli amministratori sono tenuti ad agire avendo riguardo principalmente, qualora la società sia in bonis, alla posizione della stessa società (2392 cc.), dei soci (2393 bis) e dei creditori (2394 cc.).

Analizziamo le tre fattispecie.

In base all’attuale disciplina, gli amministratori incorrono in responsabilità verso la società stessa e sono tenuti quindi al risarcimento dei danni cagionati quando non adempiono “[…] i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle specifiche competenze.” (2392 cc.). La diligenza richiesta ha quindi una gradazione più stringente rispetto a quella che solitamente si ritrova nel codice (diligenza del buon padre di famiglia o del mandatario). Tale definizione (“natura dell’incarico e dalle specifiche competenze”), riformulata in seguito alla riforma del 2003, attesta come la volontà del Legislatore sia stata quella di voler garantire, soprattutto nei confronti dei terzi, che il soggetto che venga nominato amministratore, agisca non soltanto in buona fede, ma sostenuto da competenze professionali e specialistiche in grado di assicurare un’ottima gestione societaria. Riportando quanto sostenuto dal Prof. Galgano si riesce a comprendere in modo preciso quale sia la diligenza richiesta dal legislatore: “[…] la diligenza richiesta all’amministratore di società per azioni è la diligenza professionale richiesta dell’articolo 1176, comma 2; è insomma, la diligenza esigibile da parte di chi ha assunto il compito di gestire una impresa. Alla diligenza si associano, secondo i principi generali dell’ordinamento, la prudenza e la perizia. La prima comporta il dovere di non compiere operazioni arrischiate, che nessun avveduto imprenditore porrebbe in essere; la seconda chiama in causa la capacità di gestire un’impresa, tenuto conto delle dimensioni e dello specifico oggetto di questa, ed il possesso delle correlative cognizioni tecniche necessarie per decidere senza errori le operazioni sociali” (Galgano, “Il nuovo diritto societario”, p. 227).

Il dovere di amministrare con diligenza trova il suo contrapposto nella cosiddetta mala gestio e, sebbene si possa facilmente distinguere, in linea teorica, tra mala gestio e gestione diligente della società, invero, la casistica giurisprudenziale ha evidenziato come sia completamente differente l’analisi della stessa decisione gestoria se effettuata ex ante (dall’amministratore) oppure ex post (dal giudice, dall’assemblea, dai creditori, dall’organo fallimentare) rispetto all’operazione stessa. Orbene, le decisioni prese dagli amministratori nell’ambito della quotidiana attività sociale non dovrebbero essere sindacate neppure dall’autorità giudiziaria, a meno che non si possa configurare una fattispecie dolosa o di colpa grave degli amministratori; tuttavia, nella casistica, ciò non avviene. Molto è stato scritto sulla non sempre coerente applicazione giurisprudenziale del principio della insindacabilità nel merito degli atti di gestione posti in essere dagli amministratori (si vd. su tutte Cass. n. 3652/1997 “[…] la scelta di compiere o meno un atto di gestione oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze non è mai di per sé sola suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per l’impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell’opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale […]”). L’atto gestorio risulta illegittimo non soltanto quando non sia preceduto da una precisa istruttoria (si veda l’ultimo comma dell’art. 2381 cc. sull’agire informato da parte degli amministratori) ma anche quando non sia logicamente conseguente alle informazioni raccolte, secondo una logica imprenditoriale. Per esempio, nel caso di responsabilità degli amministratori per aggravamento della situazione patrimoniale della società nel caso di rischio di fallimento, la valutazione del giudice verte sulla maggior “logicità imprenditoriale” nel depositare un’istanza di fallimento in proprio piuttosto che nella continuazione della vita della società. In tal caso, il giudice è solito decidere soprattutto in base a risultanze numeriche di bilancio ma tale analisi, di fatto, si configura come un giudizio sull’operato dell’amministratore in questione e sulle scelte imprenditoriali intraprese. Si veda per esempio la sentenza del 10.09.2013 del Tribunale di Milano: “[…] Sussiste un preciso dovere dell’amministratore in carica di provvedere tempestivamente alla richiesta di fallimento in proprio (o ricorso ad altra idonea procedura concorsuale) al fine di non aggravare ingiustificatamente la situazione patrimoniale e finanziaria della società, quale obbligo da reputarsi strettamente inerente al dovere generale di diligenza nella gestione del patrimonio sociale e che trova puntuale riscontro normativo nella peculiare fattispecie penale di cui all’art 217 l. fall.”; si veda anche Cass. Sez. Un. Civili, 06 maggio 2015. Di conseguenza, in tutti i casi in cui gli amministratori abbiano quindi agito senza essere sufficientemente “garantiti” dal punto di vista decisionale/informativo, causando un danno nei confronti della società, si può incorrere nel rischio che venga intentata nei loro confronti, da parte dell’assemblea, un’azione di responsabilità ex 2393 cc. Per il mancato rispetto degli obblighi previsti dalla legge, gli amministratori “[] sono solidalmente responsabili [] a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori. In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale.”. Come si è già accennato, l’azione di responsabilità può essere esercitata anche nei confronti dell’amministratore che non sia più in carica, per le operazioni poste in essere durante il periodo in cui faceva parte dell’organo gestori. Unico limite all’esercizio dell’azione è costituito dalla prescrizione quinquennale, ex art. 2393.3 cc., che si computa dall’annotazione nel registro delle imprese della cessazione della carica dell’amministratore. Inoltre, trattandosi di responsabilità di tipo contrattuale, l’onere della prova è invertito: la società che agisce in giudizio, sarà tenuta soltanto a provare l’esistenza del danno imputabile all’amministratore e non già la colpa dello stesso; spetterà infatti all’amministratore provare i fatti che valgono ad escludere la responsabilità.

L’azione di responsabilità esercitata a favore della società può essere azionata dall’assemblea secondo le normali regole di votazione, ma anche da una minoranza qualificata. L’art 2393 bis cc. asserisce infatti che “L’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo. […] Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l’azione di cui al comma precedente può essere esercitata dai soci che rappresentino un quarantesimo del capitale sociale o la minore misura prevista nello statuto”. L’azione è comunque sempre diretta a reintegrare il capitale sociale e non già a risarcire il danno dei singoli soci.

L’art. 2395 è rubricato invece “Azione individuale del socio o del terzo”. Perché il socio possa intentare un’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore devono sussistere due requisiti: il compimento da parte dell’amministratore di un atto doloso o colposo e la produzione di un danno diretto nella sfera patrimoniale del socio, che non sia semplice conseguenza del danno subito dal patrimonio sociale (si veda Cass. n. 15220/2010: “Il danneggiato non può invocare l’art. 2395 c.c. quando il pregiudizio lamentato è il riflesso del danno subito dal patrimonio sociale. Anche se gli amministratori hanno gestito «in maniera pessima», od il capitale sociale è andato interamente perduto per perdite, il danno al valore della partecipazione è riflesso del pregiudizio subito dal patrimonio sociale”). Caso scolastico è la fattispecie di false comunicazioni riferite al bilancio che inducono i soci a sottoscrivere un aumento di capitale a prezzo eccessivo (Ibidem.: “Il danno è, invece, diretto quando le falsità contenute nel bilancio (o nei documenti similari) sono state idonee a suggerire un finanziamento, o l’acquisto di un pacchetto azionario, che altrimenti non sarebbe avvenuto. In tal caso, la responsabilità degli amministratori è aquiliana, ma una corrente dottrinale minoritaria sostiene la qualificazione contrattuale della responsabilità stessa […]”). In tal caso, l’onere probatorio, trattandosi di responsabilità di natura extracontrattuale, è in capo al socio; quest’ultimo infatti, secondo la Dottrina prevalente e la Giurisprudenza consolidata (si veda su tutte Cass. n. 9385/1993 e n. 8359/2007), deve provare il nesso diretto tra il comportamento dell’amministratore ed il danno subito. Valida è sempre la prescrizione quinquennale.

Ulteriore forma di responsabilità in capo agli amministratori è quella risultante dall’articolo 2394 cc. nei confronti dei creditori sociali.

L’organo gestorio risponde per l’inosservanza di obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale e per le operazioni che possano rendere il patrimonio non sufficiente al soddisfacimento delle richieste dei creditori. Il patrimonio sociale rappresenta difatti, tra le altre funzioni, quella di garanzia generica su cui i terzi fanno affidamento nel caso di inadempimento delle obbligazioni assunte dalla società. Requisito necessario perché possa essere intentata un’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore risulta essere una chiara situazione di incapienza patrimoniale tale da non garantire il soddisfacimento dei creditori. La Giurisprudenza ha affermato che tale situazione si palesa nello sbilanciamento patrimoniale negativo, ossia nel caso di eccedenza delle passività sulle attività. Poiché l’azione può essere proposta qualora il patrimonio sia insufficiente, il termine quinquennale per l’esercizio dell’azione si computa a partire dal momento in cui si verifica lo sbilanciamento patrimoniale. Circostanze particolari sono riscontrabili nel caso di concordato in bianco, concordato preventivo o nelle procedure fallimentari. In tali specifiche condizioni il momento in cui si manifesta lo squilibrio patrimoniale coincide con l’apertura della procedura concorsuale. Potrebbe essere quindi possibile un’ipotesi di applicazione dell’articolo 2947 cc, ultimo comma, nel quale il Legislatore introduce un’eccezione alla regola generale della prescrizione: se il fatto che fonda la causa del risarcimento del danno costituisce allo stesso tempo una fattispecie di reato, all’azione di risarcimento in sede civile deve essere applicata la prescrizione più lunga che caratterizza il reato in questione. Qualora un’operazione posta in essere dall’organo gestorio produca un danno nei confronti della società ed anche leda il diritto e la garanzia dei creditori, quest’ultimi non hanno interesse ad agire se l’azione sia già stata esercitata con esito positivo da parte della società. Le interferenze esistenti tra le due azioni sono parzialmente disciplinate all’ultimo comma dell’articolo 2394: “La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”.

Molto controversa, invero, è la natura dell’azione dei creditori rispetto a quella esercitabile dalla società. In Dottrina si dibatte se l’azione dei creditori possa essere qualificata come azione diretta ed autonoma ovvero se la medesima possa essere definita come azione indiretta e surrogatoria. Le conseguenze derivanti dalla differente qualificazione dell’azione sono notevoli. Limitiamoci ad accennare alle più rilevanti: a. Qualora si ritenesse che l’azione fosse surrogatoria, quanto corrisposto dagli amministratori a titolo di risarcimento del danno spetterebbe alla società ed i creditori ne avrebbero soltanto il beneficio indiretto dovuto alla reintegrazione del capitale; d’altra parte, nel caso di qualificazione opposta, ossia di azione diretta, il risarcimento spetterebbe anche ai creditori direttamente; b. Se l’azione si configura come surrogatoria, gli amministratori potranno opporre ai creditori tutte le eccezioni che avrebbero opposto alla società, non sarebbe lo stesso nel caso inverso; c. Se si accogliesse la tesi dell’azione surrogatoria, la società sarebbe litisconsorte necessario ex art 2900.2 c.p.c. e quindi dovrebbe essere chiamata in giudizio per legge.

La complessità della questione non garantisce una soluzione certa e, come molte volte avviene in Giurisprudenza, le stesse Corti non hanno parere unanime.

Bisogna per ultimo evidenziare come le fattispecie di responsabilità riscontrabili negli articoli 2392, 2393 bis e 2395 del Codice Civile, possano essere azionate, in caso di procedure concorsuali, dagli organi delle stesse. Il disposto dell’articolo 2394 cc. difatti attribuisce il potere di esercitare tale azione al curatore del fallimento, al commissario liquidatore ed al commissario straordinario. Tale legittimazione ad agire trova il suo fondamento normativo negli articoli 42 e 43 della Legge Fallimentare, per i quali, con la dichiarazione di fallimento, la legittimazione sostanziale e processuale per l’esercizio e la tutela dei diritti del fallito, della società ed in via indiretta dei terzi, spetta al curatore. Nulla cambia dunque nell’azionabilità di tali tutele da parte degli organi delle procedure concorsuali rispetto alle fattispecie previste per la società in bonis, se non la legittimazione ad agire.

Le fattispecie sopra esaminate sono soltanto le norme generali che verranno poi applicate ai casi specifici ma una serie di ulteriori problematiche che, per la rilevanza politica e sociale che rivestono, hanno attirato l’attenzione del Legislatore. Si sta facendo riferimento per esempio: 1) alla responsabilità penale per i reati commessi nella gestione, 2) alle responsabilità connesse al d.lgs. 231/01, che ha introdotto la c.d. “responsabilità amministrativa degli enti”, 3) alla responsabilità connessa alla violazione di norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008), 4) agli obblighi di vigilanza sulla struttura societaria.

Soltanto per dare uno spunto sull’ultimo esempio, si può rappresentare come non sia inusuale la situazione in cui, in presenza di reati commessi dall’impresa, il consiglio di amministrazione, pur non avendo avuto parte attiva nella decisione dannosa, sia in ogni modo responsabile delle conseguenze: la Giurisprudenza ritiene responsabili anche gli altri membri del consiglio di amministrazione, ovvero gli amministratori senza delega, o addirittura anche gli amministratori di fatto, per le decisioni intraprese da un amministratore singolo. La situazione viene disciplinata da una lettura combinata degli articoli 40 del codice penale (“[…] non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo” […]), 2392 del codice civile (“[…] sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose […]”) e 2381 del codice civile (“[…] gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società […]”).

Parte della Dottrina (su tutti si veda la posizione del Prof. Abbadessa) ha fatto rilevare come la nuova disciplina parrebbe circoscrivere la funzione di controllo alla valutazione dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo sulla base delle informazioni ricevute dai delegati o da una valutazione generale dell’andamento dell’assetto organizzativo, limitando in tal modo l’ambito di responsabilità dell’organo gestorio soltanto ad un giudizio sull’adeguatezza dell’assetto societario, sull’esame della fattibilità dei piani industriali, finanziari e strategici della società e sulla valutazione derivante dalle relazioni degli organi delegati. Si configura quindi un’attività di natura preventiva e generale che dovrebbe essere a garanzia di una liberazione di responsabilità da parte dell’organo gestorio nei confronti di operazioni dannose poste in essere dai delegati. Tuttavia, la dottrina dominante interpreta la proposizione “[…] Ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società […] non come una possibilità, a dispetto dell’uso del verbo “potere”, ma piuttosto come un dovere da parte degli amministratori di richiedere informazioni ogniqualvolta risulti utile, sempre secondo la diligenza richiesta dalla legge, ai fini di una corretta gestione aziendale. Rimane tuttavia di evidente importanza come un elemento minimo di buona fede possa essere rappresentato dal richiedere un’informazione almeno trimestrale dell’andamento della società.

Invero, molto si è scritto sulla presenza di obblighi in capo agli amministratori di società derivanti dalla loro posizione apicale e quindi di controllo e di garanzia sul corretto andamento di ogni singola operazione o attività che viene svolta all’interno della società stessa. La responsabilità scaturisce da molteplici aspetti, riferibile alla posizione di maggior controllo e di maggiore potere in capo ai vertici della società. Una tematica che ha guadagnato importanza negli ultimi anni, per esempio, è stata quella della sicurezza sul luogo di lavoro: il d.lgs. 81/2008 ha individuato infatti una serie di obblighi in capo al responsabile dell’organizzazione aziendale che ha generato un nuovo ventaglio di possibili rischi da cui l’organo gestorio deve proteggersi. La responsabilità che deriva da tale normativa è configurabile nella più ampia figura di responsabilità da garanzia e si caratterizza per la doppia natura civilistica e penalistica. Tale rappresentazione costituisce solo un quadro generale e non approfondito sul tema della responsabilità degli amministratori di una S.p.A. Preme soltanto accennare, in ultima istanza, alla Responsabilità penale per reati (propri o a titolo di concorso, attivi o omissivi) commessi nella gestione: oltre ai reati previsti dal codice penale e da altre leggi speciali (in particolare i c.d. reati fallimentari, fiscali e societari), il Legislatore ha inserito nel c.c. alcune disposizioni penali in materia di società. In particolare, nel capo secondo, disciplina alcuni esempi di reati: concorso in bancarotta fraudolenta; ricorso abusivo al credito; denuncia di crediti inesistenti; dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte; formazione fittizia di capitale; aggiotaggio. Ordinariamente, ai fini di configurare il reato è necessario il dolo, ma per alcune fattispecie di reato sono ipotizzabili anche in caso di colpa, es. bancarotta semplice.

Per ultimo, il d.lgs. 131/01 ha introdotto la c.d. “responsabilità amministrativa” degli enti. Si tratta di un’importante eccezione al principio “societas delinquere non potest” nel caso di reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente sia da soggetti in posizione apicale sia da soggetti subordinati. In tale ottica il consiglio di amministrazione deve predisporre dei modelli organizzativi che siano in grado di garantire un’efficace e sicura operatività dell’impresa. La società, e quindi gli amministratori, non risponderanno dei reati commessi all’interno della propria struttura nel caso in cui dimostrino di aver adottato efficacemente un modello di Compliance, Gestione e Controllo che rispetti i requisiti imposti dalla legge; che dimostri di aver affidato ad un organismo indipendente il controllo sulla gestione oppure che dimostri che il sistema sia stato eluso in modo fraudolento dall’attore della condotta punibile.


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Avvocato e dottore in economia, Junior Partner dello Studio Mainini & Associati, Istruttore federale di vela. Laureato in Giurisprudenza e in Economia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha frequentato un corso di specializzazione di un anno in diritto di impresa all'Università Bocconi di Milano. Assistente di diritto privato all'Università Statale di Milano, facoltà di Scienze Politiche.

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