La responsabilità medica: l’onere della prova, con particolare riferimento alla prova del fatto ignoto

La responsabilità medica: l’onere della prova, con particolare riferimento alla prova del fatto ignoto

Prima di soffermarsi sulla responsabilità medica e sulle relative peculiarità, occorre porre in essere alcune brevi considerazioni circa l’istituto della responsabilità nel nostro ordinamento giuridico.

Come noto, il legislatore prevede due tipi di responsabilità: la responsabilità contrattuale e la responsabilità aquiliana.

La principale differenza che intercorre tra i due modelli di responsabilità risiede nel fatto che la responsabilità aquiliana, disciplinata agli artt. 2043 e seguenti del c.c., tutela le violazioni del principio del “neminem laedere” (cioè della generica lesione dell’altrui diritto) a prescindere da un’obbligazione preesistente tra danneggiante e danneggiato.

Al contrario, la responsabilità contrattuale, disciplinata all’art. 1218 c.c., trova il suo fondamento proprio in un’obbligazione puntuale e preesistente tra debitore e creditore.

Un’altra differenza che si mette in evidenza tra i due modelli di responsabilità risiede nella diversità dell’onere probatorio, laddove parte della dottrina argomenta in termini di “inversione dell’onere della prova”, altra parte della dottrina ritiene che non si possa letteralmente parlare di un’inversione dell’onere della prova, piuttosto di differenze sul piano della prova liberatoria.

Ad ogni modo, già dalla formulazione letterale, per un verso dell’art. 2043 c.c., per altro verso, dell’art. 1218 c.c. si può evidenziare come il legislatore richieda un onere probatorio differente.

Laddove si verta in tema di responsabilità aquiliana, a mente dell’art. 2043 c.c., sarà il danneggiato a dover provare il rapporto di causalità intercorrente tra fatto e danno, nonché la sussistenza del dolo o della colpa in capo al danneggiante.

In tema di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., il debitore dovrà risarcire l’eventuale danno arrecato al creditore, se non prova che l’inadempimento o il ritardo dell’adempimento è stato causato da un’impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile.

Fatte le necessarie premesse di ordine generale, pare opportuno sin da subito evidenziare che la responsabilità medica ha subito nel corso degli anni diverse modifiche a seguito di svariate leggi susseguitesi nel tempo e dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali sul punto.

Recentemente, a mezzo della legge n. 24/2017, il legislatore è intervenuto nuovamente in tema di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria per tentare di mitigare la cd. medicina difensiva e per offrire al medico una tutela giuridica più adeguata (sia sul fronte penale che su quello civile) in modo tale da consentirgli di esercitare la professione senza pressioni di sorta.

In particolare, l’art. 7, comma 3, della legge n. 24/2017 sancisce che il medico risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., a meno che egli abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente: in tal caso, risponderà a titolo di responsabilità contrattuale.

La novità suesposta in tema di responsabilità medica, ove assurge a regola il modello di responsabilità extracontrattuale, non è di poco conto se si considera che prima della legge n. 24/2017 le regole erano ben diverse.

Infatti, pare opportuno ricordare che si distingueva l’ipotesi del medico dipendente della struttura sanitaria, dall’ipotesi del medico non dipendente della struttura sanitaria.

Nel primo caso, la responsabilità eventualmente addebitata al medico era di natura contrattuale, a mente dell’art. 1218 c.c..

Nel secondo caso, ricorrendo alla teoria del contatto sociale qualificato elaborata dalla giurisprudenza, la responsabilità eventualmente addebitata al medico era di natura contrattuale, poiché trovava fondamento nello specifico obbligo di protezione ed informazione (anche se non ancora di prestazione) ex art. 1173 c.c..

Circa quest’ultimo aspetto, è fondamentale evidenziare che proprio con l’introduzione dell’art. 7 della legge n. 24/2017 la teoria del contatto sociale qualificato elaborata dalla giurisprudenza sul punto risulta superata.

Una questione da sempre oggetto di dibattiti e contrasti giurisprudenziali e dottrinali ha riguardato l’onere della prova nella responsabilità medica.

Il dibattito (oggigiorno superato) era legato alla definizione dell’obbligazione tra medico e paziente.

Infatti, a fronte della suddivisione delle obbligazioni in obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, operata per un certo lasso di tempo dall’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente, la prestazione medica è stata concepita per lungo tempo come un’obbligazione di mezzi.

Sulla base di ciò, l’orientamento giurisprudenziale prevalente riteneva che l’obbligazione di mezzi, per definizione, non poteva prevedere un risultato, neppure intermedio, ma aveva come contenuto indefettibile la diligenza da valutarsi in relazione alla natura dell’attività esercitata.

Sicché l’obbligazione del medico si esauriva in un’obbligazione il contenuto era incentrato tutto sulla diligenza.

L’assunto muoveva per un verso, dal dato letterale dell’art. 1176 c.c.; per altro verso, dalle prescrizioni contenute nell’art. 2236 c.c.

In particolare, l’art. 1176, comma 2, c.c., prevede che, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi non con riferimento al modello del buon padre di famiglia (cioè la diligenza dell’uomo medio, ragionevolmente scrupoloso), bensì con riguardo alla natura dell’attività esercitata.

Inoltre, l’art. 2236 c.c., in tema di responsabilità del prestatore d’opera, prevede che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà il prestatore non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave (per imperizia).

Sulla base del combinato disposto degli articoli 1176, comma 2, c.c. e 2236 c.c., tenuta nella debita considerazione la qualificazione della prestazione del medico come obbligazione di mezzi, la giurisprudenza prevalente era giunta alla conclusione (del tutto discostandosi dalla lettera del 1218 c.c.) che in realtà la prova che il medico doveva fornire non era quella prevista dall’art. 1218 c.c., bensì era incentrata sull’art. 1176 c.c., e quindi sullo sforzo diligente.

In altri termini, il medico doveva provare esclusivamente la diligenza richiesta dall’art. 1176, secondo comma, c.c., con la conseguenza che una volta fornita la prova della diligenza non rispondeva sostanzialmente quasi mai di responsabilità.

Nella pratica, le problematiche più evidenti nascevano nell’ipotesi di inesatto adempimento dell’obbligazione: la giurisprudenza si chiedeva chi dovesse provare l’inesattezza.

L’inesattezza, nel caso delle obbligazioni di mezzi, si rinveniva nella negligenza.

Dunque, era il creditore a dover provare la negligenza.

Sulla base di siffatto approdo giurisprudenziale, di fatto, il medico non solo era sottratto al regime di cui all’art. 1218 c.c., ma non doveva provare alcunché.

Come accennato precedentemente, l’orientamento giurisprudenziale più recente ha abbandonato questa impostazione interpretativa, superando la concezione della distinzione delle obbligazioni in obbligazioni di mezzi e di risultato.

Oggigiorno la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sostengono che le obbligazioni si distinguono in governabili e non governabili, per evidenziare che alcune possono essere governate financo al loro risultato finale; altre, invece (come per l’appunto la prestazione medica) non hanno la governabilità del risultato finale, ma solo del risultato intermedio.

Con la precisazione che tutte le obbligazioni, sia quelle governabili, sia quelle non governabili, hanno un risultato, il che è confermato dalla lettera dell’art. 1174 c.c., che parla di <<interesse del creditore>>, che sicuramente può assumere forma di interesse finale o intermedio.

Sulla base della rinnovata distinzione delle obbligazioni, la giurisprudenza e la dottrina prevalente sono concorde nell’affermare che il debitore sia dell’obbligazione governabile, che di quella non governabile risponde ex art. 1218 c.c., anche sul punto in termini di onere della prova.

Il che significa, con riferimento al caso di cui ci occupa, che la responsabilità e l’onere probatorio del debitore (medico) non può trovare fondamento nell’art. 1176 c.c., bensì nell’art. 1218 c.c..

Sulla base delle suesposte argomentazioni, e tenuto nella debita considerazione il nuovo art. 7 della legge n. 24/2017, occorre evidenziare che se il medico ha agito nell’adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente, egli risponderà a titolo di responsabilità contrattuale.

Circa l’onere della prova, il creditore deve provare il titolo (ad esempio il contratto) da cui deriva l’obbligazione inadempiuta o ritardata ed allegare il danno.

Il debitore (ovvero, il medico) dovrà provare: anzitutto che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità e spiegare (rectius, provare) l’impossibilità oggettiva della prestazione; in secondo luogo, una volta appurata l’impossibilità della prestazione, il medico dovrà spiegare che tale impossibilità è derivata da una causa a lui non imputabile, fornendo quindi la prova di aver ottemperato agli obblighi di diligenza (e perizia) prescritti dalla legge.

In altri termini, il medico, dovrà esplicitare quei fattori causali estranei alla sua condotta che hanno ingenerato l’impossibilità della prestazione, provando l’interruzione del nesso di causalità (dovrà, in sostanza, provare il caso fortuito).

In tutti gli altri casi (così come previsto dal legislatore), l’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c..

Il che pone evidenti migliorie sul piano dell’onere probatorio in capo al medico.

Infatti, l’onere della prova nella responsabilità extracontrattuale si concentra prevalentemente sul danneggiato: sarà costui a dover provare il rapporto di causalità (la condotta antigiuridica, l’evento dannoso ed il nesso di causalità tra condotta e danno) e la diligenza del medico trasgredita.

Nel caso in cui il danneggiato non riuscisse a provare anche solo uno degli elementi succitati, non potrebbe ottenere il risarcimento del danno invocato.

Sulla base di ciò, occorre mettere in evidenza che, con particolare riferimento alla prova del fatto ignoto, tale prova grava, a seconda della responsabilità invocata, su soggetti differenti.

Infatti, il rischio della causa ignota nell’ipotesi della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. grava sul debitore (e quindi sul medico).

Il che induce a ritenere che, da questo punto di vista, la responsabilità ex art. 1218 c.c. pare si atteggi a responsabilità oggettiva: sostanzialmente la prova liberatoria si rinviene nella prova del caso fortuito.

Solo se il medico riesce a provare il fattore oggettivo ed imprevedibile, estraneo alla sua sfera giuridica, che interrompe il nesso di causalità tra condotta e danno, egli sarà liberato da responsabilità contrattuale.

Diversamente, nel caso di responsabilità ex art. 2043 c.c. che, come già evidenziato, assurge a regola nell’ambito della responsabilità degli esercenti la professione sanitaria, il rischio della causa ignota grava sul creditore (che in questo caso è il paziente), il quale se non riuscirà a provare il rapporto di causalità e la diligenza trasgredita dal medico non potrà ottenere il risarcimento del danno.

Proprio a fronte delle considerazioni poste in essere sul rischio della causa ignota si può mettere in luce l’intento perseguito dal legislatore con la nuova legge n. 24/2017.

Tale legge è intervenuta proprio per evitare la cd. medicina difensiva e per delineare un sistema di responsabilità del medico più attenuato, più mitigato.

Infatti, con il modello di responsabilità ex art. 2043 c.c., il rischio della causa ignota grava sul danneggiato – paziente: se costui non riesce a provare la responsabilità extracontrattuale del medico, la causa ignota grava su di lui e conseguentemente non potrà ottenere il risarcimento invocato.

La ratio si rinviene in ciò: la logica di allocazione del rischio consentito risponde ad una scelta mirata del legislatore volta a tutelare l’attività del medico.

Ecco la ragione per la quale la legge n. 24/2017 propende per la responsabilità aquiliana con riferimento all’attività dell’esercente la professione sanitaria (salva l’ipotesi espressamente prevista di obbligazione con il paziente).

Con l’ulteriore differenza che nella responsabilità contrattuale il rischio della causa ignota grava sul debitore (ovvero, sul medico): in tal caso è evidente che il paziente avrebbe maggiori tutele poiché avrebbe più possibilità di ottenere il risarcimento del danno.

Ma altrettanto evidente è che si andrebbe ulteriormente a fomentare la pratica della medicina difensiva.


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