La responsabilità penale delle persone giuridiche

La responsabilità penale delle persone giuridiche

Sommario: 1. Societas delinquere non potest2. Il Decreto Legislativo n. 231/ 2001 – 3. I soggetti – 4. I reati presupposto – 5. La colpa – 6. I modelli di organizzazione – 7. I criteri di imputazione oggettivi – 8. I criteri di imputazione soggettivi – 9. La delega di funzioni

 

 

1. Societas delinquere non potest

La tradizione penalistica ha sempre avuto particolare difficoltà nell’accettare la possibilità che si potesse attribuire una responsabilità penale alle persone giuridiche, sulla base dell’indefettibile principio (almeno fino al 2001) riassunto nel brocardo latino “societas delinquere non potest”. Il principio enunciava l’incompatibilità della responsabilità degli enti con il principio di personalità della responsabilità penale, espresso dall’art. 27 della Costituzione e che implica che nessuno, se non l’autore del reato, può essere chiamato a risponderne, a differenza di quanto accade per l’illecito civile.

2. Il Decreto Legislativo n. 231/ 2001

IL D.lgs n. 231/2001 ha esteso, a tutti gli effetti, l’applicabilità di alcuni principi penalistici anche alle persone giuridiche : il principio di legalità, di tassatività e di irretroattività (art. 2); all’art. 3 si afferma che è applicabile il principio della successione di leggi nel tempo di cui agli artt. 2 e seguenti c.p. Il decreto ha, pertanto, imboccato un’altra strada, che tiene conto del fatto che gran parte della responsabilità penale si concentra nelle organizzazioni complesse e che non prevedere delle sanzioni per determinate condotte ad esse riconducibili equivale a creare un’area di impunità ingiustificata.

Circa la natura della responsabilità degli enti introdotta con il rivoluzionario Decreto si sono susseguite nel tempo almeno tre correnti di pensiero giurisprudenziale e dottrinario, le quali si sono interrogate sul quesito se potesse parlarsi a tutti gli effetti di responsabilità penale. Una prima tesi ne sosteneva la natura amministrativa della responsabilità di cui si tratta, tesi fondata sia sulla qualificazione formale della responsabilità indicata dal legislatore (l’oggetto della disciplina viene individuato, per l’appunto, nella “responsabilità amministrativa” delle persone giuridiche e degli enti), sia sulla circostanza che nel sistema introdotto dal Decreto alcuni istituti, quali ad esempio la prescrizione, vengono disciplinati in maniera difforme rispetto al codice penale. Diametralmente opposta era la seconda tesi, che propendeva per la natura penale della responsabilità degli enti; è chiaro, tuttavia, che se si muove dalla tesi della natura sostanzialmente penale di tale responsabilità, si pongono seri dubbi di compatibilità con la norma dell’art. 27 comma primo della Costituzione in ragione del fatto che nel sistema del Decreto n.231 l’ente verrebbe punito per una condotta tenuta da un proprio esponente. Non sono, difatti, mancati contrasti in giurisprudenza, anche nell’ambito delle stesse Sezioni Unite, dovendosi registrare sentenze che hanno affermato ora la natura amministrativa della responsabilità (S.U. n. 34474/11 e S.U. n.10561/14), ora la sua natura penale (S.U. n.26654/08). Infine una terza tesi classificava la responsabilità degli enti ex Dlgs. n. 231 come responsabilità mista o tertium genus di responsabilità a cavallo tra quelle penale e amministrativa.

La tesi oggi prevalente è proprio quest’ultima: è ormai pacifico che si tratti di responsabilità mista. Tale visione ha trovato l’avvallo persino delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno così statuito: si tratta di “un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni della efficienza preventiva con quelle, ancora più ineludibili, della massima garanzia”. La Corte, pur accogliendo la tesi secondo la quale quella prevista dal D.lvo 231 si configura come un tertium genus di responsabilità, ha tuttavia dovuto riconoscere che si tratta di una forma di responsabilità molto simile a quella penale  in quanto la disciplina non ricalca perfettamente il modello di responsabilità penale, ma quanto ai principi si tratta certamente di principi dettati in materia penalistica (vedi: caso Thyssen, Sezioni Unite penali, n.38343/14).

3. I soggetti

I soggetti ricompresi nella disciplina dettata dal Decreto n. 231/2001 sono: enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Sono esclusi lo Stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici e gli enti di rilievo costituzionale. Disciplina particolare in merito alle società capogruppo, ossia società o enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di altre società o enti: le c.d. holding sono responsabili a livello penalistico qualora il reato sia stato commesso da un soggetto che abbia un rapporto organizzativo-funzionale con l’ente, che rivesta una posizione qualificata al suo interno. Ulteriore particolarità che merita un cenno riguarda quelle società a partecipazione mista pubblica-privata: condizioni necessarie ai fini dell’esonero dalla disciplina sono la natura pubblicistica dell’ente e che l’ente medesimo non svolga attività economica.

4. I reati presupposto

Gli articoli 24 e seguenti del Decreto n. 231/2001 considerano quale presupposto della responsabilità da reato degli enti, alcune fattispecie di reato consumate, specificamente richiamate. Inizialmente il novero risultava piuttosto limitato ai soli reati dolosi, ma, successivamente, se ne è estesa la portata tramite una serie di interventi legislativi. Degna di nota l’introduzione di reati colposi: nello specifico l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime causati da violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro (art. 25 septies D.lgs. n. 231/2001).

5. La colpa

Avendo introdotto l’argomento, particolarmente ostico, dei reati presupposto colposi non si può prescindere da una analisi della colpa prevista dal Decreto in esame.

Il legislatore, negli anni, ha avvertito l’esigenza di intervenire sul testo del Decreto al fine di adattare la disciplina della responsabilità degli enti ai principi di diritto penale, primo fra tutti il principio secondo cui non si è chiamati a rispondere di un fatto altrui, bensì di un fatto proprio. L’ente, difatti, non risponde per la persona fisica agenti al proprio interno; risponderà di reato colposo proprio per non avere predisposto le misure idonee ad evitare il verificarsi di uno dei reati presupposto. La colpa dell’ente si può rinvenire nella mancanza di presidi adeguati. 

Emblematica in tema di colpa dell’ente è la recente sentenza della Corte di Cassazione, IV Sezione, n. 43656/ 2019 con la quale i giudici hanno esaminato il ricorso proposto da una società condannata per reati colposi commessi in violazione della normativa antinfortunistica. La corte ha ribadito come sia compito del giudice accertare preliminarmente l’esistenza di un modello di organizzazione e gestione (ex art. 6 D.lgs. 231) e, nell’evenienza che esso esista, accertarne la conformità alla legge; infine, il giudice valuterà che tale modello sia stato applicato correttamente prima del fatto, in un’ottica prevenzionale. La Corte ha accolto il ricorso della società in ragione del fatto, che l’accertamento circa la colpevolezza doveva vertere non sulla colpa della persona fisica quale non aveva predisposto gli adeguati sussidi (colpevole di reato omissivo), bensì sulla colpa dell’intero apparato. Quest’ultima prova, a carico dell’accusa, viene raggiunta sulla base di tre elementi alternativi: la totale mancanza di un modello organizzativo e di gestione idoneo a ridurre i rischi; l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione inadeguato; l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione adeguato nel caso in cui l’ente non abbia vigilato correttamente sulla costante effettiva efficacia dello stesso.

La sentenza richiamata ha, altresì, richiamato l’attenzione sul principio di autonomia della responsabilità della persona giuridica, la quale sebbene sia conseguente al comportamento dell’autore del reato sussiste indipendentemente dal fatto che quest’ultimo sia conosciuto.

6. I modelli di organizzazione 

In altre parole, l’esistenza di corretti ed adeguati modelli organizzativi, e della vigilanza su di essi da parte dell’ente, costituisce una vera e propria prova liberatoria che esclude la responsabilità dell’ente (ex artt. 6-7 D.Lgs. 231/01). Tali modelli devono, in particolare: – individuare le attività di rischio dell’ente; – prevedere protocolli idonei a programmare il processo decisionale in relazione ai rischi; – individuare modalità di gestione finanziaria atte a impedire la commissione di reati; – prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo di vigilanza; – introdurre sanzioni disciplinari per il mancato rispetto delle direttive.

7. I criteri di imputazione oggettivi

L’art. 5 D.lgs 231/01 prevede i criteri di imputazione del reato all’ente, i quali consentono di attribuire la responsabilità in capo alla persona giuridica. Essi si distinguono nel criterio di imputazione soggettivo e oggettivo e comportano non solo che il reato sia riconducibile ad un soggetto apicale o subordinato dell’ente (criterio soggettivo), ma altresì che sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso (criterio oggettivo).

Lo stesso art. 5, all’ultimo comma, prevede che l’ente non risponda se l’autore del reato ha agito “nell’interesse proprio o di terzi”.

Come è stato osservato dalla dottrina, il concetto di interesse esprime un legame finalistico tra il reato e un risultato che ci si propone di raggiungere.

L’accertamento di tale requisito comporta una valutazione ex ante per accertare se il reato si colloca all’interno di una politica di impresa finalizzata a raggiungere determinati risultati attraverso condotte illecite dei propri dipendenti.

La ricostruzione dell’esistenza di un vantaggio non comporta difficoltà di accertamento, in quanto occorre effettuare una valutazione ex post di un eventuale beneficio  che l’ente abbia tratto dalla commissione del reato.

Su questi concetti anche la Corte di Cassazione ha sostenuto che “Si ritiene che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un criterio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito”.

8. I criteri di imputazione soggettivi

Oltre alla presenza del criterio di imputazione oggettivo, come accennato, è necessario che il fatto commesso sia riconducibile ad un soggetto (che agisce nell’interesse o a vantaggio dell’ente) che rivesta all’interno dell’ente una posizione qualificata. In altri termini è necessario che le fattispecie di reato siano realizzate da:

– Soggetti in posizione apicale (rappresentanza, amministrazione, direzione anche di fatto, gestione, controllo dell’ente, sottoposti a direzione/vigilanza dei soggetti indicati);

– Sottoposti (scatta la responsabilità solo se la commissione del reato deriva dall’inosservanza degli obblighi dei soggetti con poteri di gestione).

Sappiamo, peraltro, che l’ente, ha la possibilità di provare, con effetti liberatori, di avere adottato tutte le precauzioni necessarie e idonee ad evitare l’evento dannoso, circoscrivendo in tal modo la responsabilità in capo alla persona fisica che ha agito.

La prova da fornire è, tuttavia, differente a seconda che si tratti di soggetti in posizione apicale ovvero sottoposti. In caso di commissione di illecito da parte di un soggetto con posizione qualificata, l’ente non risponde se dimostra: – di avere adottato, prima della commissione dell’illecito, l’attuazione e l’adozione efficace di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati come quelli verificatesi– il conferimento ad un organismo interno di compiti di vigilanza dei suddetti modelli, con poteri di iniziativa e controllo– che il fatto è stato commesso da soggetti che fraudolentemente hanno eluso tali modelli; – che l’organismo interno non ha correttamente vigilato.

In caso di commissione di illecito da parte di un sottoposto, la responsabilità dell’ente si fonda interamente sull’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, in relazione all’efficace attuazione di un modello di organizzazione idoneo come sopra indicato.

9. La delega di funzioni

Occorre, tuttavia, rilevare che spesso i soggetti in posizione apicale si avvalgono della c.d. delega di funzioni, che estende o trasla la responsabilità al soggetto delegato. La condotta del soggetto originario assume, però, rilievo ai sensi dell’art. 40 c.p. (il non impedire l’evento equivale a cagionarlo). Il delegante si libera da poteri e responsabilità, residuandoli l’obbligo di vigilanza sull’operato del soggetto delegato e, nel caso della commissione di un reato, risponderà insieme a quest’ultimo per inosservanza degli obblighi di vigilanza. Infine occorre ricordare che per essere valida la delega deve essere conferita per iscritto ed il soggetto delegato deve godere di piena autonomia, di poteri e finanziaria e, altresì, essere idoneo a svolgere quelle determinate funzioni.

La problematica del criterio di imputazione oggettivo applicato ai reati colposi

Il criterio oggettivo del finalismo della condotta ex art 5 D.lgs. 231 non ha mai posto particolare problemi per quanto riguarda i reati presupposto dolosi; a ben vedere i concetti di interesse e di vantaggio bene si sposano con un reato di natura dolosa. Altrettanto non può dirsi con riferimento ad un reato di natura colposa. Con l’entrata in vigore dell’art. 25 septies si è assistito al sorgere di innumerevoli dubbi in dottrina e giurisprudenza: come può sostenersi, infatti, che un omicidio colposo commesso con violazione di regole antinfortunistiche sia commesso nell’interesse dell’ente? Altrettanto può dirsi con riferimento al criterio del vantaggio: risulta difficile sostenere, infatti, che un infortunio sul lavoro arrechi un vantaggio all’ente.

Il problema, a lungo esaminato, è allora quello di come interpretare i concetti di interesse e vantaggio con riferimento ai reati colposi. La tesi maggiormente accreditata ha riconosciuto che il vantaggio e l’interesse dell’ente sono, di fatto, esclusivamente di tipo oggettivo. In altri termini la responsabilità dell’ente trova il proprio presupposto esclusivamente nella condotta, consistente nella volontaria violazione delle norme antinfortunistiche. Secondo tale tesi il finalismo della condotta richiesto dall’art. 5 è compatibile con uno o più reati di tipo colposo quando si accerti che la condotta colposa sia stata determinata da scelte che rispondono all’interesse o comunque ad un vantaggio dell’ente. Un esempio può essere la volontà di risparmiare sulle spese, la quale non è volontà diretta all’evento morte o lesioni del lavoratore, bensì consiste nella consapevole violazione di norme di sicurezza e realizzazione di una politica d’impresa che disattende alle norme sulla sicurezza al fine di conseguire un risparmio. Non sorprende, pertanto, che alcuni autori parlino di commistione fra colpa e dolo: l’evento non può mai essere voluto, altrimenti si ricadrebbe nel novero dei reati dolosi, ma è dolosa, ossia volontaria, l’inosservanza delle norme di sicurezza. Tale soluzione, peraltro, è sposata dalla Corte di Cassazione nel caso Thyssen, la quale ha sostenuto che l’interesse e il vantaggio vanno necessariamente riferiti alla condotta e non all’esito, all’evento.

 

 

 


(1) Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell´articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300
(2) Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 n. 38343
(3) Mantovani, Diritto penale parte generale
(4) Lasco- Loia- Morgante, Enti e responsabilità da reato. Commento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n.231

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Claudia Ruffilli

Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.

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