La ricostruzione del regime di responsabilità del medico: dal decreto Balduzzi alla legge Gelli

La ricostruzione del regime di responsabilità del medico: dal decreto Balduzzi alla legge Gelli

Il regime di responsabilità del medico rappresenta una tematica oggetto di costanti e numerose riforme, da ultimo la Legge Gelli, la cui analisi richiede una previa ricostruzione della nozione di colpa.

In forza dell’art. 43 co. 3 c.p. il delitto è colposo quando l’evento, anche se previsto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

La violazione delle regole scritte dà luogo alla c.d. colpa specifica; diversamente, l’inosservanza di regole non scritte determina la configurabilità di una colpa generica. Le regole non scritte sono legate dal legislatore ai concetti di negligenza, imprudenza e imperizia: la negligenza consiste nel difetto di attenzione o sollecitudine, ovvero nella trascuratezza nell’osservare le regole di condotta capaci di preservare i beni giuridici tutelati; l’imprudenza, invece, consiste nell’avventatezza, ovvero nella mancata prestazione dell’attenzione dovuta davanti a fenomeni non sufficientemente noti; l’imperizia, infine, consiste nell’inosservanza di regole tecniche per insufficiente preparazione culturale, per inattitudine personale, scarsa dimestichezza o inadeguata applicazione.

Tra le diverse teorie volte ad evidenziare il nucleo essenziale dell’imputazione colposa quella attualmente prevalente è la teoria mista,  in forza della quale il riconoscimento dell’addebito colposo richiede la realizzazione involontaria di un fatto di reato, che si sarebbe evitato mediante l’osservanza delle regole violate, a condizione che il comportamento doveroso possa ritenersi concretamente esigibile dal soggetto agente in base al parametro obiettivo dell’agente modello, ossia del soggetto di normale diligenza e capacità che opera nelle stesse condizioni dell’agente.

Occorre, inoltre, distinguere la colpa comune, che concerne attività lecite e riguarda le situazioni in cui il soggetto è obbligato ad astenersi dal tenere una determinata condotta pericolosa, atteso che in tali casi l’ordinamento giuridico non accetta che sia corso alcun rischio, dalla colpa professionale, la quale riguarda, invece, le situazioni in cui il soggetto pone in essere un’attività utile sul piano sociale, quale l’attività medica,  e perciò consentita dall’ordinamento entro limiti di tollerabilità e nel rispetto di precise regole precauzionali.

Con riferimento all’attività del medico, da sempre sono venute in considerazione due esigenze confliggenti: da un lato, l’esigenza di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista, onde evitare di costruire per una sola categoria di soggetti forme di privilegio in sede di riscontro della responsabilità penale non tollerabili in omaggio al principio di eguaglianza; dall’altro, non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie del paziente nell’ipotesi di insuccesso, al fine di evitare che egli compia l’atto medico con l’intento, non già di realizzare lo scopo di tutela della salute, ma di preservarsi un margine di difendibilità del suo operato in sede processuale e penale (medicina difensiva).

È proprio alla luce di tali esigenze che dottrina e giurisprudenza hanno tentato di ricostruire il regime di responsabilità del medico, partendo dalla distinzione tra colpa lieve e colpa grave.

Per colpa lieve si intende la omissione di diligenza o di negligenza, dovuta all’approntamento non conforme al caso concreto che, in conseguenza di ciò, ha causato un danno lieve o ingente nella esecuzione dell’intervento operatorio o nella diagnosi e terapia medica del caso trattato; è il caso della mancata informazione al paziente circa i probabili esiti invalidanti dell’intervento chirurgico.

Per colpa grave si intende invece, il compimento da parte del medico di un errore grossolano, dovuto specialmente alla violazione delle regole fondamentali e delle conoscenze che rientrano nel patrimonio del medico.

In un primo momento, anteriormente alla riforma Balduzzi, parte della giurisprudenza ha ritenuto che dovesse trovare applicazione, nel ricostruire la colpa penale del sanitario, la disciplina civilistica in tema di professioni intellettuali di cui agli artt. 1176 co.2 e 2236 c.c., con la conseguenza che solo in presenza di una colpa grave poteva configurarsi una responsabilità penale del sanitario. In tal modo, essa aveva assunto una posizione di eccessiva indulgenza nei riguardi del medico, atteso che la responsabilità penale dello stesso era riconosciuta solo nel caso di colpa grave, ovvero di grossolana violazione delle più elementari regole cautelari dell’arte medica o in presenza di un errore inescusabile.

Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale nel 1973 sostenendo che, sebbene la ricostruzione della colpa penale del sanitario non possa prescindere dalla sussistenza di una colpa grave così come previsto dall’art. 2236 c.c., in quanto occorre coniugare l’esigenza di non creare un’area di privilegio intollerabile con quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie, tale norma può essere applicata solo con riguardo alla colpa per imperizia, determinata cioè dall’inosservanza di regole di tipo tecnico che orientano l’attività medica.

Ad un radicale mutamento di tendenza si è assistito negli ultimi anni prescindendosi del tutto dalla nozione civilistica di inadempimento nell’esecuzione del rapporto contrattuale, discendente dall’applicazione delle regole civilistiche di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c., e pretendendosi che ogni disamina sia abbinata ai criteri propri del diritto penale. Sul piano tecnico si è, in primis, rimarcato come l’art. 2236 c.c. non avrebbe mai dovuto trovare applicazione in sede penale, in quanto norma eccezionale dettata per la sola responsabilità civile e come tale non estensibile; e in secondo luogo, si è rilevato come il grado della colpa, in sede penale, rilevi ai soli fini del trattamento sanzionatorio, giammai ai fini dell’an della sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Fondamentale importanza assumono, nell’accertamento della colpa medica, le linee guida, ovvero le raccomandazioni di comportamento clinico che disciplinano l’attività medica, essendo da sempre dibattuta in giurisprudenza la configurabilità di un giudizio di responsabilità colposa nei confronti del medico che si sia attenuto alle stesse.

Sul punto, particolare rilievo ha assunto l’intervento legislativo che si è registrato alla fine del 2012 con il Decreto Balduzzi il quale, all’art. 3, ha previsto che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento di attività medico si sia attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.

Prima della novella si sosteneva che l’inosservanza o meno di queste ultime non determinasse da sé sola la responsabilità penale del medico, sulla base dell’assunto per cui le linee guida altro non erano che raccomandazioni astratte di comportamento clinico rivolte al sanitario, elaborate per ragioni di uniformità nella conduzione delle operazioni del sanitario, con la conseguenza che questi, in considerazione delle specificità del caso concreto, ben potesse discostarsi dalle stesse.

Dopo la riforma Balduzzi, la quale ha determinato un’abolitio criminis parziale della precedente disciplina, si è posto il problema di definire il perimetro applicativo della regola di contenimento dell’area del penalmente rilevante di cui all’art. 3.

Si è, in primo luogo, affermato che la tipologia delle linee guida la cui osservanza comporta l’esonero della responsabilità penale è data da quelle linee guida a finalità precipuamente terapeutiche, e non anche quelle raccomandazioni rivolte al sanitario con finalità, non di miglioramento della salute del paziente, ma di contenimento dei costi. Al contempo, la Cassazione ha precisato che la regola di cui all’art. 3 del Decreto Balduzzi, determinante l’esclusione della responsabilità penale per colpa lieve, viene in rilievo sono con riferimento alle ipotesi di colpa per imperizia, attesa la natura delle linee guida, le quali si sostanziano in raccomandazioni che dettano regole di perizia professionale volte ad orientare l’atto tecnico del sanitario, come tali non afferenti ai profili di imprudenza e negligenza.

Ciò nonostante, un recentissimo intervento della Corte di Cassazione aveva tentato di estendere la regola di contenimento dell’area del penalmente rilevante di cui all’art. 3 ad ogni tipo di colpa, assumendo, in primis, la difficoltà nella prassi nel distinguere compiutamente i casi di colpa per imprudenza o negligenza da quella per imperizia; in secondo luogo, asserendo che testualmente l’art. 3 non pone alcuna distinzione tra le varie tipologie considerate; e, infine, negando che le linee guida contengano solo regole tecniche e ritenendo che esse attengano, talvolta, anche all’accuratezza della condotta del sanitario.

Risulta, inoltre, difficile comprendere come il medico che abbia osservato le linee guida possa comunque andare incontro a responsabilità penale, e come si misuri la gravità della colpa una volta superato il dilemma della compatibilità della responsabilità penale in presenza di una condotta rispettosa delle linee guida.

La giurisprudenza, a tal proposito, ha sostenuto che le linee guida, concretandosi in regole astratte volte a suggerire al medico le condotte più appropriate in specifiche situazioni cliniche, sono elaborate senza tener conto delle specificità e peculiarità del caso concreto il quale, talvolta, assume dei connotati tali da suggerire, se non imporre, al medico di discostarsi dalle stesse. In tali ipotesi, la colpa consiste, quindi, nel non essersi discostato dalle stesse, allorché vi siano peculiarità che impongano al sanitario un trattamento diverso da quello sancito nella linea guida. In ordine alla misura della gravità della colpa, la giurisprudenza ha ritenuto essa ricorra quando la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica, ovvero immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato, e debba essere valutata altresì tenendo conto del grado di rimprovero che è consentito muovere al medico, considerando il suo grado di specializzazione.

L’art. 3 del Decreto Balduzzi, che limita la responsabilità penale del medico che si sia attenuto alle linee guida ai soli casi di colpa lieve, è stato recentemente abrogato dalla Legge Gelli che, nel 2017, ha introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies. Tale norma si caratterizza, in primo luogo, per il superamento della differenza tra colpa lieve e colpa grave, in quanto prevede che ogni qualvolta che il sanitario incorra in imperizia è esclusa la responsabilità penale, a condizione che abbia osservato le raccomandazioni previste dalle linee guida e adeguate alla specificità del caso concreto. Essa dispone, infatti, che l’esercente la professione sanitaria che provoca la morte o la lesione personale del paziente a causa della sua imperizia risponde dei reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose soltanto in caso di colpa grave; tale colpa però viene esclusa quando il medico agisce nel rispetto delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida. Le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, alle quali i sanitari devono attenersi nell’esecuzione delle prestazioni professionali, dovranno assicurare un ruolo di equilibrio ed essere stilate da società scientifiche e da istituti di ricerca accreditati presso il ministero della Salute con la “bollinatura” dell’Istituto superiore di Sanità, che le inserirà e pubblicherà nel Sistema nazionale per le linee guida (Snlg).

La nuova causa di non punibilità è, dunque, invocabile allorché ricorrano tre fattori: la colpa per imperizia; l’osservanza delle linee guida e l’adeguatezza delle stesse alla specificità del caso concreto.

In dottrina, si è rilevato che tale novità legislativa, se da un lato risponde alle critiche mosse alla rilevanza indiscriminata di ogni linea guida, rinvenibile nella previgente legge Balduzzi, dall’altro rischia di condurre all’affermazione di una “medicina di stato” suscettibile di frenare il progresso scientifico.

In un profilo intertemporale, la riforma Gelli incide sul piano della tipicità, dando luogo, quindi, ad una parziale abolitio criminis delle fattispecie colpose applicabili ai sanitari e, di conseguenza, ad un’operatività del comma 2 dell’art. 2 c.p. Si è infatti in presenza di norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe l’area applicativa della norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente due sotto-fattispecie, quella che conserva rilievo penale e quella che, invece, diviene penalmente irrilevante, ovvero abrogata. Pertanto, con riferimento ai casi di colpa lieve il nuovo articolo 590 sexies c.p., in ossequio all’art. 2, co. 2 c.p. che impone la retroattività della disciplina più favorevole (qual è appunto l’art. 3 del D. Balduzzi), non può che trovare applicazione solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore. Infatti, se in linea teorica la nuova disciplina potrebbe risultare più favorevole per il sanitario, consentendogli di non rispondere penalmente persino se è in colpa grave, la sostanziale creazione di un catalogo delimitato di linee guida potrebbe incidere in senso sfavorevole per il sanitario, espandendo il perimetro della punibilità. Si rileva, inoltre, come la nuova disciplina, a differenza di quella precedente, potrebbe consentire un’esclusione di responsabilità penale anche per colpa grave, a condizione, però, che si possa ritenere la linea guida osservata comunque adeguata al paziente trattato.

Per quanto concerne il fronte civile, infine, viene istituito un doppio binario in cui la responsabilità è contrattuale per le strutture sanitarie pubbliche e private ed extracontrattuale, invece, per i medici, sia che svolgano la propria attività presso le strutture sanitarie pubbliche o private, sia in presenza di un rapporto convenzionale con il servizio sanitario nazionale, salvo il caso di obbligazione contrattuale assunta con il paziente.

La responsabilità di tipo extracontrattuale comporta consequenzialmente l’inversione dell’onere della prova a carico del paziente, e la riduzione della prescrizione a 5 anni in luogo che 10.

Evidente la ratio che ha guidato la riforma in esame, ispirata dalla necessità di ricreare un nuovo equilibrio nel rapporto tra medico e paziente, pervenendo alla risoluzione di due problematiche: la mole del contenzioso medico legale, che ha causato anche un notevole aumento del costo delle assicurazioni per professionisti e strutture, e il fenomeno della medicina difensiva, che ha causato un uso inappropriato delle risorse destinate alla sanità.


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Maria Russo

Nata nel 1988 si laurea in giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma con votazione di 110/110 cum laude, discutendo una tesi dal titolo “L'incidenza delle pene sulla vita e sulla libertà”. Nel 2014 le viene conferito il premio Laureato Eccellente Facoltà di Giurisprudenza a.a. 2012-2013, rilasciato da Fondazione Roma Sapienza. Nel 2015 si specializza presso la SSPL del medesimo Ateneo e svolge un periodo di tirocinio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Abilitata all’esercizio della professione forense, a partire dal dicembre 2015, è attualmente iscritta all'Albo degli Avvocati di Roma.

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