La riforma costituzionale del Titolo V e ripercussioni in materia di “Istruzione” e “Lavoro”

La riforma costituzionale del Titolo V e ripercussioni in materia di “Istruzione” e “Lavoro”

a cura di Antonio Di Mauro e Alessandra Tedesco, dottori di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”

Uno degli aspetti fondamentali della riforma costituzionale, approvata ad aprile 2016, è costituito dalla revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, dedicato alle autonomie territoriali.

Il Titolo suddetto ha già subito una quasi totale riscrittura una quindicina di anni fa ad opera di due leggi costituzionali, la legge 1 del 1999, che ha modificato le disposizioni concernenti l’elezione diretta del presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni, e la legge 3 del 2001, che ha apportato modifiche al Titolo V.

Può essere curioso osservare che con la attuale riforma, aggiunta a quelle precedenti menzionate, tutte le disposizioni del Titolo V finiscono per presentare un contenuto diverso da quello disegnato dal Costituente.

In termini generali, la riforma si ispira a una logica di significativa riduzione delle autonomie territoriali, in netta ed evidente controtendenza rispetto alla evoluzione che si è finora sempre registrata in epoca repubblicana, e che ha raggiunto il suo apice proprio nel 2001.

In particolare, la legge costituzionale 3 del 2001 ha modificato l’art. 117 della Costituzione, ampliando le competenze legislative delle regioni, attraverso l’introduzione della competenza legislativa concorrente e il criterio che le materie legislative non espressamente attribuite alla competenza dello Stato sono, in via residuale, attribuite alla competenza esclusiva delle Regioni.

Mentre la revisione della forma di governo regionale, attuata con la legge costituzionale 1 del 1999, sopra richiamata, ha dato una buona prova, determinando la stabilizzazione degli esecutivi regionali e la realizzazione del cosiddetto “governo di legislatura”, l’ampliamento dei poteri legislativi delle regioni, ad opera della legge costituzionale 3 del 2001, non ha avuto altrettanto successo.

Si può dire, anzi, che fin dall’indomani della entrata in vigore di tale legge, la riforma fu sconfessata dalla stessa maggioranza che l’aveva approvata e il Parlamento e il Governo, nel frattempo mutati, ne contrastarono la piena attuazione e avviarono una “riforma della riforma” che, sebbene non ebbe il necessario avallo costituzionale (nel referendum costituzionale del 2006), delegittimò comunque il cd. federalismo legislativo.

La riforma apportata con la legge costituzionale 3 del 2001 ha, inoltre, comportato un’enorme massa di ricorsi incrociati fra lo Stato e le Regioni, tanto che la Corte Costituzionale ha favorito nei fatti un forte riaccentramento dei poteri legislativi statali a discapito delle Regioni.

È nell’ambito di questo contesto generale che sono da valutare le nuove modifiche ora apportate al titolo V.

L’ampia revisione di questa parte della Costituzione persegue tre obiettivi principali: la cancellazione delle province dal testo della Costituzione, la revisione delle disposizioni sul regionalismo differenziato e la modifica della competenza normativa e finanziaria delle Regioni.

Per quanto riguarda il primo obiettivo, le Province, quali enti costitutivi della Repubblica, sarebbero eliminate dall’elenco contenuto nell’art. 114 ed ogni riferimento ad esse nel testo costituzionale verrebbe espunto.

Invero, la soppressione delle Province non è determinata dalla decisione di abbandonare definitivamente il livello per così dire intermedio, tra Comuni e Regioni, di gestione del territorio, né implica la scomparsa degli enti chiamati a ricoprire tale ruolo. Ne sono riprova, da un lato il mantenimento delle Città metropolitane nell’art. 114 e, dall’altro, la previsione nel progetto di riforma di una disposizione transitoria che rinvia alle scelte che faranno sul punto lo Stato e le Regioni.

L’art. 40, quarto comma, del disegno di riforma prevede infatti che “per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale”.

Passando ora al secondo obiettivo, è opportuno specificare i nuovi caratteri che assume o potrebbe assumere il regionalismo differenziato.

In primo luogo, è da sottolineare il mantenimento, negli stessi identici termini attuali, del regime di specialità previsto per Valle D’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Sicilia e Sardegna.

Infatti, la nuova riforma non mette in discussione in alcun modo le forme e le condizioni particolari di cui godono le Regioni e le Province speciali in base ai rispettivi statuti regionali e lo fa in maniera così radicale (art. 39 comma 13) da confermare a loro esclusivo beneficio le più ampie forme di autonomia concesse in base alla cosiddetta “clausola di maggior favore” che estendeva ad esse quanto attribuito alle Regioni ordinarie dalla legge costituzionale 3 del 2001. Ne consegue che le tipologie di leggi e le materie che ora sarebbero sottratte a queste ultime rimarrebbero, invece, ancora nella piena disponibilità delle Regioni e delle Province speciali. Ciò determinerà, pertanto, in caso di definitiva approvazione della riforma costituzionale, non un riavvicinamento tra queste e le Regioni ordinarie, ma, almeno sulla carta, un’ulteriore poco giustificabile divaricazione a beneficio delle prime.

Si prevede, inoltre, che anche le Regioni speciali possano accedere alle forme di autonomia differenziata che ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite alle Regioni ordinarie. La principale novità della nuova formulazione di tale disposizione consiste nella introduzione del requisito della condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, che le Regioni devono mantenere per poter ambire a queste forme di autonomia differenziata, da disporre con legge bicamerale paritaria sulla base della intesa tra lo Stato e le Regioni.

Infine, per quanto riguarda l’ultimo obiettivo, che risulta di particolare interesse per il presente lavoro, è da rilevare che il riparto di competenze normative tra lo stato e le regioni (ordinarie), contenuto nell’art. 117 Cost., è un elemento assolutamente centrale dell’intero progetto di revisione costituzionale.

Per comprendere questo aspetto, è necessario delineare brevemente l’evoluzione che si è avuta in materia.

Il modello originario della Costituzione del 1948 prevedeva: l’assenza di una competenza legislativa regionale esclusiva; la presenza di una competenza legislativa regionale concorrente, in materie precisamente indicate, da esercitarsi nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato; negli ambiti residuali la competenza dello Stato.

Il modello attuale, frutto della riforma del 2001, prevede: la competenza esclusiva dello Stato in materie precisamente indicate (art. 117, secondo comma, Cost.); una competenza legislativa concorrente regionale in numerose materie puntualmente elencate (art. 117, terzo comma, Cost.), dove le regioni liberamente legiferano, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato; negli ambiti residuali, la competenza esclusiva delle Regioni (art. 117, quarto comma, Cost.).

Quanto al potere di fare regolamenti e, dunque, atti normativi di forza secondaria per l’esecuzione e l’attuazione delle leggi, esso spetta allo Stato solo nelle materie di legislazione esclusiva, mentre spetta alle regioni in ogni altra materia (art. 117, sesto comma, Cost.).

La riforma costituzionale opera in una direzione di forte accentramento, che segna, in primo luogo, una netta inversione di tendenza rispetto alla evoluzione dei decenni precedenti.

L’eliminazione delle materie concorrenti tra Stato e Regioni risponde all’esigenza di adeguamento del nostro sistema delle fonti alla evoluzione dell’ordinamento della Unione Europea. In un contesto in cui una parte rilevante delle norme interne é di derivazione comunitaria mal si concilia il mantenimento di un doppio ordine di principi comunitari e statali in una stessa materia di competenza regionale. È inevitabile, pertanto, che, in un quadro normativo in cui sia già presente una cornice comunitaria, l’intervento dello Stato, se necessario, vada senz’altro oltre una disciplina di mero principio.

Nel nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione, approvato dal Parlamento, 16 delle 20 materie già di competenza concorrente vengono assunte tra quelle di competenza esclusiva dello Stato. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il riassorbimento è limitato alle disposizioni generali e comuni (governo del territorio, istruzione, tutela della salute) o, comunque, alla sola disciplina di interesse nazionale (energia, porti e aeroporti, reti di trasporto).

In altre ipotesi l’elenco delle competenze esclusive dello Stato appare ora arricchito di materie precedentemente innominate ma che comunque, già in base alla giurisprudenza costituzionale formatasi a seguito della revisione costituzionale del 2001, erano state riconosciute come di implicita spettanza dello Stato (le norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale e le disposizioni generali e comuni sul turismo). Laddove, come nel caso dell’ “ordinamento degli enti locali”, la sussistenza di una generale competenza dello Stato appariva quantomeno dubbia dopo la riforma del 2001, il testo della revisione ora approvata dal Parlamento attribuisce la materia alla legislazione bicamerale paritaria.

Inoltre, la nuova formulazione dell’articolo 117 della Costituzione reintroduce una clausola di supremazia che consente alla legge statale di intervenire in materie di competenza regionale “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Va tenuto conto, tuttavia, che anche dopo la soppressione dell’analoga clausola dell’interesse nazionale nel 2001, si è potuto supplire – laddove si è reso necessario – con la cosiddetta “chiamata in sussidiarietà” di determinate competenze regionali da parte del legislatore statale. Un istituto che ha trovato fondamento su una giurisprudenza “creativa” della Corte Costituzionale (a partire dalla sentenza 303/2003) che lo ha tratto implicitamente dal combinato disposto del principio di sussidiarietà (articolo 118 della Costituzione) e del principio di legalità dell’amministrazione.

Va considerato, infine, che alle regioni sono esplicitamente o implicitamente riconosciuti 38 titoli di competenza legislativa – cui vanno aggiunte tutte le materie non espressamente riservate allo Stato (agricoltura, artigianato, commercio) – rispetto ai 22 dell’originario testo costituzionale.

Se, dunque, il moto centripeto dei titoli di competenza legislativa appare netto (soprattutto sul piano qualitativo), l’evidenza che in genere si tratta di materie che le Regioni non hanno mai effettivamente esercitato o che, comunque, sono state impedite dal disciplinare o da trattare in maniera differenziata, può consentire di dire che, più di un effettivo riaccentramento di poteri legislativi, abbiamo piuttosto a che fare con un’opera di razionalizzazione che ravvicina il dato testuale alla Costituzione vivente.

A ciò si può aggiungere che per controbilanciare, in qualche misura, il descritto moto centripeto, il nuovo Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali, consente alle Regioni di partecipare, in ogni caso, all’esercizio della funzione legislativa dello Stato – anche al di là delle 15 ipotesi in cui questa è svolta paritariamente (articolo 70, comma I, della Costituzione) – senza alcuna limitazione riferibile alle loro competenze o al livello degli interessi amministrati (nazionali o regionali).

Come l’esperienza del passato ha dimostrato in più di un caso, molti interventi di riforma e riscrittura delle relazioni tra centro e periferia si sono arenati o non hanno comunque prodotto gli effetti sperati a causa delle difficoltà derivanti dai profili finanziari.

Orbene, è necessario descrivere brevemente l’evoluzione che si è avuta sul punto nel nostro ordinamento, analizzando in particolare le modifiche subite dall’art. 119 della Costituzione.

Il modello approvato dai costituenti prevedeva che le regioni avessero autonomia finanziaria nei limiti e nelle forme stabiliti da leggi della repubblica; che ad esse fossero attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali per le normali funzioni; che avessero un proprio demanio e patrimonio.

Il modello vigente, frutto della revisione del 2001, prevede, almeno in astratto, che Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, abbiano autonomia finanziaria di entrata e di spesa; risorse autonome; e che lo Stato possa destinare risorse aggiuntive per scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni; la possibilità di applicare e stabilire tributi ed entrate proprie; la compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio; che attraverso queste risorse sia consentito ai vari enti di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Tale disegno avrebbe dovuto trovare applicazione attraverso una serie di interventi e strumenti concreti di attuazione, tra cui, in particolare, la legge 42 del 2009 (in materia di federalismo fiscale), che è rimasta, però, in gran parte inattuata, come ha più volte osservato la stessa Corte Costituzionale.

Questa perdurante inattuazione, accompagnata dalla crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, ha accentuato le difficoltà del sistema e in particolare quelle degli enti territoriali a far fronte agli oneri derivanti dalle funzioni loro assegnate. Ancora oggi, molta parte della finanza regionale risulta essere una finanza derivata che si sostiene in forza di trasferimenti statali.

In questo quadro complessivo, la riforma in esame manterrebbe i principi ispiratori descritti, intervendo però sull’art. 119, quarto comma, della Costituzione, mediante due modiche.

Con la prima, mentre oggi si dice che le risorse previste per gli enti territoriali consentono di finanziare integralmente le funzioni loro attribuite, in futuro tali risorse saranno chiamate ad assicurare il finanziamento integrale delle funzioni. Non sembra chiaro se la sfumatura linguistica preluda ad un effetto cambiamento di paradigma.

Con la seconda si affiderebbe alla legge dello Stato il compito di definire indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle funzioni pubbliche di Comuni, Città metropolitane e Regioni.

Trattando ora più nel dettaglio la incidenza della riforma costituzionale sulla materia della istruzione e del lavoro, va osservato che tale materia rientra tra quelle toccate dal nuovo riparto di competenze.

Nel testo attuale della legge costituzionale, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato è attribuita la materia delle “norme generali sulla istruzione” e della “previdenza sociale”, secondo quanto previsto dall’art. 117 comma 2, lett. n ed o.

Alla competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, di cui all’art. 117 comma 3, spettano le seguenti materie: tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi.

Tutto ciò che concerne la materia dell’istruzione e del lavoro non indicato nelle norme suddette, tra cui la Istruzione e Formazione Professionale, spetta, in virtù della clausola di residualità, di cui all’art. 117 comma 4, alla potestà legislativa delle Regioni.

All’art. 116 comma 3 è previsto che in alcune materie, tra cui quella della lett. n. dell’art. 117 comma 2 (norme generali sulla istruzione), con legge dello Stato possono essere attribuite ad altre Regioni ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi dell’art. 119. Tale legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata.

Per quanto riguarda la potestà regolamentare l’art. 117, comma 6, prevede che questa spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salvo delega alle Regioni, e alle Regioni in ogni altra materia.

La riforma costituzionale amplia le materie di cui alla lett. n ed o dell’art. 117 comma 2.

Infatti, la lett. n, se la riforma verrà attuata, farà riferimento alle disposizioni generali e comuni sulla istruzione (già presente anche se con diversa formulazione nell’attuale disposizione), all’ordinamento scolastico e all’istruzione universitaria (nuove materie), alla programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica (materia trasferita dalla attuale competenza concorrente, anche se con diversa formulazione).

La lett. o, se la riforma verrà attuata, farà riferimento alla previdenza sociale (materia già presente nell’attuale formulazione), alla previdenza complementare e integrativa, alla tutela e sicurezza del lavoro (materie trasferite dalla competenza concorrente), alle politiche attive del lavoro, alle disposizioni generali e comuni sulla istruzione e alla formazione professionale (nuove materie).

Nell’ambito della legislazione esclusiva delle Regioni sarà, sempre se la riforma verrà attuata, contenuta la materia dei servizi scolastici e di promozione del diritto allo studio anche universitario, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Viene modificato anche l’art. 116, in particolare, per ciò che interessa il nostro lavoro, il comma 3, che prevede che, nelle materie della lett. n ed o (nell’attuale formulazione è richiamata solo la lett. n), limitatamente alle politiche attive del lavoro e della istruzione e formazione professionale, possono essere attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ad altre regioni con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi dell’art. 119, purché la regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio (inciso non presente nell’attuale formulazione). La legge è approvata da entrambe le camere, sulla base di un’intesa tra lo Stato e la Regione interessata.

Per quanto riguarda la potestà regolamentare, il nuovo art. 117 prevederà che questa spetta allo Stato e alle Regioni secondo le rispettive competenze legislative, ma lo Stato può delegare alle Regioni l’esercizio di tale potere nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva.

Come emerge da quanto detto, sia la materia dell’istruzione che quella del lavoro rientrano tra quelle che la riforma costituzionale del 2016 mira a ricentralizzare, rispetto al decentramento verificatosi con la riforma del 2001.

La scelta di decentralizzare queste materie, come sopra già osservato, ha comportato negli ultimi anni un ingorgo continuo di ricorsi alla Corte Costituzionale, sia da parte delle regioni che da parte del governo.

La riforma costituzionale del 2016 ha come intento, infatti, per quanto riguarda la riforma del riparto di competenze, anche e soprattutto, quello di aderire a orientamenti emersi nella Corte Costituzionale e di ridurre il numero dei ricorsi ad essa presentati.

Nel dettaglio, per quanto concerne la materia della istruzione, per capire l’impatto che su tale materia potrà produrre la riforma costituzionale, è opportuno, in primo luogo, seppur brevemente, analizzare come questa materia è attualmente disciplinata.

Il quadro costituzionale di riferimento va completato richiamando anche gli artt. 33 e 34 della Costituzione.

In particolare, l’art. 33 stabilisce che la Repubblica detta le norme generali sulla istruzione (formulazione identica a quella dell’art. 117, comma 2, lett. n) ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

L’art. 34, si riferisce sia al diritto alla istruzione che al diritto allo studio.

Il diritto alla istruzione è il diritto, sancito dai primi due commi del suddetto articolo, per i quali “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”.

Il diritto allo studio è un diritto soggettivo che trova il suo fondamento costituzionale nei commi 3 e 4 dell’art. 34, nei quali si afferma il diritto dei capaci e dei meritevoli, anche se privi di mezzi economici, di raggiungere i gradi più alti degli studi nonché il dovere della Repubblica a rendere effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze da attribuire mediante concorso.

Il diritto allo studio, dunque, riguarda il percorso scolastico successivo all’obbligo e quello universitario, canali di formazione non obbligatori che il cittadino ha la libertà di intraprendere e che lo Stato deve garantire attraverso la erogazione di borse di studio a coloro che si dimostrano capaci e meritevoli.

Appare evidente la concezione della istruzione come un servizio pubblico necessario ad assicurare il pieno sviluppo della persona umana anche rispetto alla condizione di partenza sfavorevole di qualcuno. L’impegno dell’autorità pubblica, come richiesto dall’art. 3, comma secondo, della Costituzione, consiste, quindi, nella rimozione di quegli ostacoli di ordine economico-sociale che caratterizzano il cammino di individui capaci e predisposti allo studio avanzato.

La rilevanza dei diritti alla istruzione e allo studio comporta che in questa materia va richiamata, oltre la lett. n, anche la lett. m dell’art. 117, comma 2, della Costituzione, per la sua valenza “orizzontale”, che assegna allo Stato la legislazione esclusiva in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutti il territorio nazionale, tra i quali certamente rientrano i suddetti diritti.

Dunque, nell’assetto vigente della Costituzione, in sostanza, allo Stato spetta la disciplina delle norme generali sulla istruzione e dei principi fondamentali, mentre alle Regioni, nel rispetto di tali principi, spetta la disciplina della normativa di dettaglio.

Questa duplice collocazione dell’istruzione, seppur nei diversi contesti, tra le competenze esclusive dello Stato e tra le competenze ripartite tra Stato e Regioni, ha indotto ad interrogarsi sulla differenza tra  “norme generali”  sulla istruzione e “principi fondamentali” in materia di istruzione, differenza che dal punto di vista pratico potrebbe rilevarsi non decisiva, visto che entrambe appartengono alla competenza statale, salvo che per i suoi riflessi sulla relativa potestà regolamentare, spettante allo Stato o alle Regioni, a seconda che si sia, rispettivamente, nell’uno o nell’altro caso.

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 200 del 2009, con affermazioni riprese anche in sentenze successive, ha chiarito cosa si deve intendere per norme generali e principi fondamentali, distinguendo i due concetti.

In particolare, la Corte Costituzionale ha affermato che “nella materia dell’istruzione, si intrecciano «norme generali, principi fondamentali, leggi regionali», oltre che «determinazioni autonome delle istituzioni scolastiche». In tale contesto assume particolare importanza la individuazione di una precisa linea di demarcazione tra le norme generali sull’istruzione e i principi fondamentali di tale materia, atteso che le prime sono espressive di competenza legislativa esclusiva dello Stato e i secondi di competenza, pure statale, ma nel quadro di una competenza di tipo concorrente con quella regionale. Al riguardo, appartengono alla categoria delle norme generali quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali in possesso dei requisiti richiesti dalla legge.

In questo ambito si colloca anche la disciplina relativa alla «autonomia delle istituzioni scolastiche», facenti parte del sistema nazionale di istruzione, autonomia cui fa espresso riferimento il terzo comma dell’art. 117 della Costituzione.

Le norme sin qui richiamate – che, dettando discipline che non necessitano di ulteriori svolgimenti normativi a livello di legislazione regionale, delineano le basi del sistema nazionale di istruzione – sono funzionali, anche nei lori profili di rilevanza organizzativa, ad assicurare, mediante – si ribadisce – la previsione di una offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale, l’identità culturale del Paese, nel rispetto della libertà di insegnamento di cui all’art. 33, primo comma, Cost.

È bene aggiungere, ma il punto verrà ripreso nel prosieguo, che le disposizioni contenenti norme generali sull’istruzione possono legittimamente prevedere l’emanazione di regolamenti statali proprio perché adottati nell’ambito di una competenza legislativa esclusiva dello Stato, in conformità a quanto espressamente previsto dall’art. 117, sesto comma, Cost. Appartengono, invece, alla categoria delle disposizioni espressive di principi fondamentali della materia dell’istruzione, anch’esse di competenza statale, quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altro, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale il quale deve conformare la sua azione all’osservanza dei principi fondamentali stessi.

In altri termini, la funzione dei principi fondamentali è quella di costituire un punto di riferimento in grado di orientare l’esercizio del potere legislativo regionale (sentenza n. 177 del 1988).

In definitiva, deve ritenersi che il sistema generale dell’istruzione, per sua stessa natura, riveste carattere nazionale, non essendo ipotizzabile che esso si fondi su una autonoma iniziativa legislativa delle Regioni, limitata solo dall’osservanza dei principi fondamentali fissati dallo Stato, con inevitabili differenziazioni che in nessun caso potrebbero essere giustificabili sul piano della stessa logica.

Si tratta, dunque, di conciliare, da un lato, basilari esigenze di “uniformità” di disciplina della materia su tutto il territorio nazionale, e, dall’altro, esigenze autonomistiche che, sul piano locale-territoriale, possono trovare soddisfazione mediante l’esercizio di scelte programmatiche e gestionali rilevanti soltanto nell’ambito del territorio di ciascuna Regione. Resta fermo, beninteso, che, ai sensi dell’art. 116, comma terzo, Cost., possono essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario – con legge dello Stato, approvata con le modalità ivi previste, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost. – ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti, tra l’altro, le «norme generali sull’istruzione»”.

Per l’attuazione della competenza legislativa statale relativa alle norme generali sull’istruzione, il Parlamento, con la legge 53 del 2003, ha attribuito al Governo la delega per la definizione delle norme generali della istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione del lavoro.

In attuazione di tale delega, sono stati adottati una serie di decreti legislativi, tra cui il dlgs 59 del 2004 ( Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo della istruzione), il dlgs 76 del 2005 (Definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione), il dlgs 226 del 2005 (Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni sul secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione).

Con la riforma costituzionale, che come detto elimina la legislazione concorrente, sembra superato il problema della distinzione tra norme generali e principi fondamentali, ma le acquisizioni della Corte Costituzionale su cosa debba intendersi per norme generali restano attuali, in quanto nel testo risultante dalla riforma vengono ancora richiamate, anche se con formulazione diversa. In particolare, il termine “norme” viene sostituito con quello di “disposizioni” e accanto all’aggettivo generali viene aggiunto l’aggettivo “comuni”.

Per chiarire cosa si intende per disposizioni generali e comuni sulla istruzione, è utile richiamare i lavori parlamentari che hanno riguardato la riforma costituzionale.
In particolare, in tale sede, la relatrice sen. Finocchiaro, è intervenuta affermando “di volere rassicurare i colleghi sul fatto che noi siamo partiti esattamente dalla necessità di evitare che su temi particolarmente delicati come la salute e l’istruzione potesse replicarsi quel conflitto tra Stato e Regioni che si è verificato sino a questo momento. Come i colleghi ricordano, a Costituzione vigente le materie della tutela della salute e dell’istruzione sono materie di legislazione concorrente. Ecco perché nell’affrontare la questione noi abbiamo ritenuto di riservare alla competenza esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Abbiamo detto inoltre che appartiene alla competenza esclusiva dello Stato l’emanare disposizioni generali e comuni; comuni nel senso che assicurino l’uniformità sul territorio nazionale, per la tutela della salute, per l’istruzione, per la sicurezza alimentare e per la tutela e sicurezza del lavoro”.

Nell’attuale assetto della Costituzione problemi pone la disciplina del diritto allo studio, in quanto non è chiarito se esso rientri nelle norme generali sulla istruzione, appartenenti alla competenza esclusiva dello Stato.

La riforma costituzionale, nel modificare l’art. 117, perde l’occasione di chiarire che le norme di “principio” riguardanti il diritto allo studio sono comprese tra quelle riguardanti “l’istruzione e l’ordinamento scolastico” e che le competenze legislative attribuite alle regioni in materia di diritto allo studio riguardano esclusivamente quelle di dettaglio concernenti la “promozione” del medesimo.

La questione di fondo che emerge dalla distribuzione delle competenze operata dalla riforma, infatti, riguarda proprio il diritto allo studio.

La sensazione che emerge è che l’attribuzione alle regioni della competenza legislativa relativa alla promozione lascia allo Stato, nell’ambito dell’istruzione e dell’ordinamento scolastico, anche la competenza legislativa riguardante la definizione delle norme generali e comuni (cioè tutte quelle di principio), riguardanti il diritto allo studio.

Quanto detto sembra confermato dalla lettura dell’ordine del giorno del Senato, accolto dal Governo (G30.70) dove è scritto che: “Il Senato, premesso che: l’articolo 30 del disegno di legge in esame, come modificato dalla Commissione Affari costituzionali, prevede l’aggiunta dell’ordinamento scolastico, dell’istruzione universitaria e della programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica tra le materie di competenza esclusivamente statale di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione; la competenza regionale quindi si esplica, quanto alle materie, su servizi scolastici, istruzione e formazione professionale, promozione del diritto allo studio, anche universitario, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; premesso inoltre che: il diritto allo studio, come diritto alla gratuità dell’istruzione oltre i gradi della scuola dell’obbligo discende dall’articolo 34, terzo comma, della Costituzione che recita: “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”. Pertanto la Repubblica, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 34, quarto comma, della Costituzione, deve rendere “effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”; si tratta quindi di un diritto sociale costituzionalmente garantito ai “capaci e meritevoli” consistente nel diritto all’eliminazione di ciò che possa rappresentare un ostacolo alla realizzazione dello stesso; a questo proposito, come sottolineato da una parte della dottrina, il diritto allo studio universitario “si manifesta come una delle possibili declinazioni del principio generale di uguaglianza”; essendo il diritto allo studio universitario un diritto sociale, esso deve essere garantito ad un determinato livello su tutto il territorio nazionale; nella sentenza 282/2002 la Corte costituzionale ha precisato che “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali non sono una materia in senso stretto, ma una competenza del legislatore idonea a investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale dei diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle.”; considerato che: nel corso degli ultimi anni si sono rese evidenti le inefficienze del sistema di diritto allo studio del nostro Paese;

l’abbandono delle università è il segno più evidente di un sistema di diritto allo studio che non garantisce nei fatti la possibilità a tutti i cittadini di poter studiare indipendentemente dalle condizioni socio-economiche di partenza, né tantomeno, agli aventi diritto la possibilità di fruire delle borse di studio; le forti disparità esistenti tra le regioni in materia di diritto allo studio universitario hanno comportato il mancato raggiungimento dell’obiettivo dell’equità di trattamento degli studenti sul territorio nazionale; occorre superare le disparità che permangono tra le regioni in materia di diritto allo studio: solo garantendo il libero accesso all’istruzione, sancito dagli articoli 33 e 34 della Costituzione, è possibile combattere l’esclusione sociale e dare finalmente una risposta concreta alle priorità del nostro Paese; considerato inoltre che: per assicurare l’effettiva attuazione dei diritti di ogni cittadino fin dalla nascita, la promozione delle pari opportunità e dell’inclusione sociale, l’educazione prescolare deve ricevere un’attenzione particolare e l’investimento per un’offerta di servizi educativi prescolari di qualità deve essere riconosciuto come interesse generale; già nel 2002 il Consiglio delle Comunità europee ha riconosciuto l’importanza dell’estensione dei servizi prescolari per lo sviluppo economico dei Paesi membri fissando al 33 per cento per i bambini sotto i tre anni e al 90 per cento per quelli dai tre ai sei anni gli obiettivi di copertura dell’utenza da raggiungere entro il 2010. Obiettivo non raggiunto dal nostro Paese e dunque rinviato al 2020; questa prospettiva è stata assunta recentemente anche dalla Commissione europea che ha ribadito l’importanza di garantire l’accesso universale a servizi di educazione e di cura per la prima infanzia inclusivi e di buona qualità, perché solo così essi potranno essere efficaci nel combattere le disuguaglianze sociali e tradursi in un risparmio successivo per la società; la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che lo Stato deve garantire per l’infanzia appare riconducibile prevalentemente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e n) della Costituzione, impegna il Governo a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritto allo studio e di servizi educativi per l’infanzia al fine di assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento delle stesse, come sancito dalla Corte costituzionale.”

Distinta dalla istruzione è la materia della Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), per la quale il comma 2 lettera o) dell’articolo 117, se la riforma verrà confermata, assegna allo Stato le disposizioni generali e comuni.

Quindi pare chiaro che torneranno allo Stato l’obbligo di istruzione, le qualifiche e i diplomi che venivano impartite dalle Regioni con la IeFP.

Diminuisce, quindi, la competenza legislativa delle Regioni, alle quali rimane solo la “formazione professionale”, una nuova materia diversa dall’IeFP, quindi con attività formative diverse.

Per ora non è chiaro, però, quali potrebbero essere queste attività.

In relazione al cosiddetto “regionalismo differenziato”, la IeFP è stata inserita tra le materie nelle quali singole Regioni potranno ottenere ulteriori competenze legislative, regolamentari e amministrative, con apposita legge dello Stato. In breve se alcune regioni vorranno avere sulla IeFP gli stessi poteri delle Regioni o Province a Statuto speciale potranno farne richiesta e una legge dello Stato potrà concedergliele.

Tutta la materia dell’Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) dovrà contestualmente trovare una qualche sistemazione nel Decreto Delegato previsto dalla Legge 107/2015 art. 1) comma 181 lettera d), riguardante la revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione, nonché il raccordo con i percorsi dell’Istruzione e Formazione Professionale.

In conclusione, quindi, con la nuova Costituzione e a ordinamenti scolastici invariati, ci troveremmo di fronte a tre profili dell’istruzione professionale: 1.Istruzione professionale statale; 2. Istruzione e Formazione Professionale divenuta statale, almeno nelle disposizioni generali e comuni; 3. Formazione professionale regionale (che non darà più qualifiche e diplomi, né potrà più essere il luogo per l’assolvimento dell’obbligo).

Infine, il principio di autonomia scolastica è riaffermato nel nuovo testo costituzionale.

L’autonomia delle istituzioni scolastiche venne introdotta con la Legge 537/1993 e ripresa con la riforma Bassanini del 1997 (Legge 59 del 15 marzo 1997). Trova origine nell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n, 59, dove viene definita l’articolazione dell’attività didattica e si introduce il principio sulla flessibilità oraria dei docenti.

L’autonomia delle istituzioni scolastiche si esprime, in primo luogo, nella didattica e nella organizzazione. Pur nel rispetto della libertà di insegnamento e delle indicazioni ed obiettivi nazionali a livello di istruzione, le istituzioni scolastiche possono regolamentare l’orario delle discipline adeguandolo al tipo di studi e al ritmo di apprendimento degli alunni. Possono adottare formule di flessibilità oraria (ad esempio concentrare le ore di una determinata materia in un certo periodo dell’anno), attivare percorsi didattici individualizzati (ad esempio per l’integrazione di alunni diversamente abili o stranieri), programmare percorsi formativi in coordinamento con le richieste del territorio, scegliere metodologie e strumenti didattici in coerenza con il Piano dell’offerta formativa. È possibile adattare il calendario scolastico in relazione alle esigenze derivanti dal Piano dell’offerta formativa, garantendo in ogni caso il monte ore stabilito a livello nazionale.

L’autonomia concerne anche il profilo della ricerca, della sperimentazione e dello sviluppo. Le istituzioni scolastiche, infatti, curano la progettazione formativa e la ricerca valutativa, la formazione e l’aggiornamento culturale e professionale del personale scolastico, l’innovazione metodologica e disciplinare, la ricerca didattica e gli scambi di informazioni, esperienze e materiali didattici, l’integrazione e il coordinamento tra le diverse articolazioni del sistema scolastico.

Passando ora all’esame delle ripercussioni della riforma del Titolo V sulla materia del lavoro, va ribadito che la tutela e sicurezza del lavoro passa dalla competenza legislativa concorrente, eliminata, alla competenza legislativa esclusiva statale, mentre le politiche attive del lavoro passano dalla competenza legislativa esclusiva regionale alla competenza legislativa esclusiva statale.

Per quanto riguarda la tutela e la sicurezza del lavoro, questa è attualmente disciplinata dal dlgs 81 del 2008, che  in piena coerenza con il criterio di delega a suo tempo introdotto dalla legge n. 123 del 2007 (il cui articolo 1 recava i principi da attuare per l’esercizio delle relativa delega), individua esplicitamente – in apertura del provvedimento – l’obiettivo principale dell’intervento legislativo, identificato nel “riordino e coordinamento” delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza “delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, mediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo”.

Tale obiettivo andava, naturalmente, necessariamente perseguito in un contesto costituzionale radicalmente modificatosi nel 2001.

In particolare, va ricordato che l’articolo 117 della Costituzione, comma 3, quale risultante all’esito della legge costituzionale n. 3 del 2001, colloca tra le materie riservate alla potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni anche la “tutela e sicurezza del lavoro”.

Per queste ragioni, la “Relazione illustrativa” al d.lgs. n. 81/2008, rimarcava come la legge di delega (attuata dal d.lgs. n. 81/2008) prevedesse “non solo una operazione di riorganizzazione della normativa di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro bensì anche la rivisitazione della medesima materia attraverso l’armonizzazione di tutte le leggi vigenti in una logica unitaria ed innovativa e nel pieno rispetto delle previsioni dell’art. 117 della Costituzione, il cui terzo comma attribuisce alla competenza ripartita di Stato e Regioni la materia della “tutela e sicurezza del lavoro”.

Di conseguenza, sempre secondo la “Relazione illustrativa”, il “testo unico” identifica “come imposto dall’articolo 1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 123,  i principi e i livelli essenziali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che devono essere gli stessi sull’intero territorio nazionale, ferma restando la facoltà delle Regioni di esercitare la propria potestà legislativa concorrente, sempre in maniera tale da non intaccare complessivamente alcune garanzie di base che assumono un ruolo fondamentale in una materia come quella della salute e sicurezza del lavoro che riguarda beni di natura primaria costituzionalmente tutelati”.

La dottrina giuslavoristica pronunciatasi sull’assetto costituzionale sopra richiamato ha in passato costantemente rimarcato come il testo dell’articolo 117 della Costituzione sia quanto meno di difficile interpretazione, se non addirittura “criptico in merito ai contenuti ed ai confini della competenza legislativa attribuita alle Regioni” (in questi termini M. Magnani, Il lavoro nel Titolo V della Costituzione, in ADL, n. 3, 2002, 646, la quale sottolinea altresì come tale ripartizione di materia in ambito lavoristico non risulti “essere stata oggetto di attenta discussione nei lavori parlamentari”).

In particolare, il problema che si pose era quello di capire se ed in quale misura il diritto del lavoro in senso stretto, quello sindacale, quello della previdenza sociale e la salute e sicurezza sul lavoro continuavano ad essere materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato o se ed in quale misura, viceversa, dovevano intendersi affidate alla legislazione concorrente Stato-Regioni oppure a quella esclusiva delle sole Regioni.

A tale riguardo, appare fondamentale individuare il concetto di “ordinamento civile” dello Stato (secondo comma, lettera l), dell’articolo 117 della Costituzione nel testo introdotto dall’art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001) a fine di capire se in tale previsione debba farsi rientrare, in tutto o in parte, la materia del lavoro complessivamente e/o nelle sue singole partizioni considerata.

Con specifico riferimento all’espressione “ordinamento civile”, è opportuno segnalare come la dottrina vi riconduca pressoché in maniera unanime l’intera disciplina del contratto e del lavoro subordinato che risulterebbe in tal modo assistita da una riserva di legge statale.

Parte della dottrina, in particolare Proto Pisani, ha rilevato che il diritto del lavoro strictu sensu non tollererebbe una differenziazione per territorio proprio in quanto la disciplina del rapporto di lavoro potrebbe davvero dirsi rispettosa del principio costituzionale di eguaglianza solo ove essa non sia differenziata per aree geografiche. In tale ottica, la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro dovrebbe essere ricompresa tra quelle riconducibili al concetto di “ordinamento civile” in quanto trova la sua norma-cardine nell’articolo 2087 del Codice civile che è norma diretta a disciplinare i rapporti tra privati imponendo al datore di lavoro l’obbligo di apprestare ogni misura di tutela nei confronti dei propri prestatori di lavoro.

Altra parte della dottrina (M. Biagi) è giunta ad una interpretazione parzialmente diversa del dettato costituzionale in commento. In particolare, è stato ritenuto che, facendo leva sull’articolo 117, 2° comma, lettera m), della Costituzione, che, si ripete, attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti di diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, si potrebbe superare la apparente dicotomia tra “ordinamento civile” e “tutela e sicurezza sul lavoro” e ritenere attribuita allo Stato una legislazione sui minimi lasciando alle Regioni il compito di modulare oltre il minimo la legislazione in materia di lavoro e sicurezza.

Come detto, il dibattito potrebbe essere superato dalla riforma costituzionale, che prevede che la salute e sicurezza sul lavoro torni di competenza esclusiva dello Stato.

Per quanto riguarda, infine, le politiche attive del lavoro, il ritorno alla competenza esclusiva dello Stato, è vista con favore. Viene, infatti, evidenziato che nei principali Paesi europei, le politiche attive sono di competenza dello Stato.


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