La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei recenti approdi giurisprudenziali e legislativi

La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei recenti approdi giurisprudenziali e legislativi

1. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale: brevi cenni

La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nasce, nel nostro ordinamento processual-penalistico, come istituto “a carattere eccezionale”[1] che consente di effettuare, nel corso del giudizio d’impugnazione, un’integrazione parziale o totale del materiale probatorio raccolto nel corso del giudizio di primo grado. L’istituto de quo nasce come “eccezione” nel senso che il nostro codice di rito, fino ad un determinato momento storico, accoglie la presunzione di completezza della prova formatasi nel dibattimento di primo grado, nel contraddittorio delle parti e secondo il principio della c.d. “parità delle armi”. Nondimeno, l’art. 603 c.p.p. delinea alcune situazioni in presenza delle quali la predetta presunzione di completezza della prova pare potersi revocare in dubbio.

Innanzitutto, occorre premettere che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale può essere richiesta da una delle parti  (primo comma) ovvero essere disposta d’ufficio dal giudice dell’impugnazione (terzo comma). Nel primo caso, l’impulso promana da una delle parti la quale, nell’atto d’impugnazione ovvero nei c.d. «motivi nuovi»[2], chiede la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l’assunzione di nuove prove[3]. In tale ipotesi – sollecitato dalla parte – il giudice disporrà la rinnovazione soltanto se riterrà di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Le parti possono chiedere anche l’assunzione di prove sopravvenute al giudizio di primo grado o, comunque, da esse scoperte solo successivamente. In questo caso il giudice può disporre la rinnovazione solo entro i limiti di cui all’articolo 495, comma 1, c.p.p., ossia solo qualora si tratti di prove non vietate dalla legge, né manifestamente superflue o irrilevanti.

Nel secondo caso – rinnovazione ex officio – è lo stesso giudice di secondo grado a ritenere assolutamente indispensabile procedere all’integrazione probatoria ai fini del decidere.

In ogni caso, la rinnovazione dell’istruttoria è disposta dal giudice con ordinanza, nel contraddittorio tra le parti e, di norma, vi si procede immediatamente nel corso del dibattimento, fermo restando che in caso d’impossibilità lo stesso può essere sospeso per un termine non superiore a dieci giorni.

È evidente, dunque, come, nell’impostazione tradizionale del nostro codice di rito, quello della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia un istituto concepito come scelta discrezionale dell’organo giudicante: sia se richiesta dalla parte, sia se disposta d’ufficio, invero, è sempre il giudice a decidere di disporla ove  indispensabile ai fini del decidere.

Nondimeno, per opera di una fervente e ricca giurisprudenza della Corte EDU, l’originaria fisionomia di tale istituto è stata, profondamente, ridisegnata. In particolare, il giudice comunitario ha individuato alcune ipotesi ricorrendo le quali il giudice dell’impugnazione ha, non più la facoltà, bensì l’obbligo di disporre l’integrazione probatoria ex art. 603 c.p.p., così abbandonandosi, progressivamente, la primigenia configurazione della norma fondata sul principio del libero convincimento del giudicante.

La ricca casistica formatasi sulla scorta della giurisprudenza comunitaria ha, di poi, indotto – come si vedrà – la Suprema Corte – nella sua importantissima funzione nomofilattica – nonché lo stesso legislatore (con il disegno di legge A.S. 2067 che sta per diventare legge), ad operare un intervento chiarificatore in ordine ai profili ed ai parametri applicativi di questa “nuova” chiave di lettura dell’art. 603 c.p.p.

2. L’impulso del giudice comunitario: la sentenza Dan c/ Repubblica di Moldavia [4]

Il passo decisivo per una rinnovata interpretazione dell’art. 603 c.p.p. è stato compiuto  dal giudice europeo a partire dal 2011, allorquando con la famosa sentenza «Dan c/ Moldavia» ha tracciato i contorni di una “nuova chiave di lettura” dell’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello[5].

Nel caso de quo, la Corte Europea era stata chiamata ad esprimere il suo giudizio su una questione di reformatio in peius della sentenza di primo grado senza che il giudice dell’impugnazione avesse proceduto alla riassunzione delle prove dichiarative sulle quali si era basata la precedente pronuncia assolutoria, bensì valutandole diversamente attraverso un semplice esame cartolare del fascicolo.

Secondo il ricorrente, nel caso di specie, il procedimento innanzi alla Corte di Appello era stato celebrato in modo ingiusto, atteso che la Corte aveva deciso la condanna senza aver sentito i testimoni già escussi in primo grado.

Dal canto suo, il giudice dell’appello rilevava come la prova principale contro l’imputato fosse la dichiarazione dei testimoni già escussi e secondo i quali l’imputato aveva sollecitato ed ottenuto una tangente in un parco; dichiarazioni, queste, ritenute totalmente inattendibili dal giudice di prime cure che aveva ascoltato, direttamente, i testi medesimi.

La Corte EDU ha dichiarato, nel caso di specie, la violazione dell’art. 6 CEDU[6] in quanto la condanna del ricorrente all’esito del giudizio di appello, era avvenuta senza la riassunzione (innanzi al giudice della reformatio in peius, s’intende) di quelle prove dichiarative ritenute decisive. La valutazione meramente cartolare di tali prove è stata ritenuta, dal giudice europeo, assolutamente inidonea a garantire un processo equo, stante la complessità e delicatezza del giudizio sull’attendibilità delle stesse, reso in sè possibile proprio dalla garanzia dell’oralità che caratterizza e contraddistingue il processo penale accusatorio («La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate», si legge nella sentenza de qua).

3. Il recepimento dell’orientamento del giudice comunitario in Italia: la sentenza n. 27620/2016 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione

Gli arresti giurisprudenziali della Corte Europea hanno indotto il nostro giudice di legittimità, nell’assolvimento della sua fondamentale funzione nomofilattica[7], a chiarire la “rinnovata” portata applicativa dell’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

Un’importantissima pronuncia in tal senso, in quanto ha composto un conflitto giurisprudenziale in seno alle diverse sezioni della Suprema Corte, è senza dubbio la sentenza n. 27620/2016[8]. Con la decisione in parola, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno risposto al quesito, sollevato dalla Seconda Sezione Penale nell’ordinanza di rimessione[9], «se sia rilevabile d’ufficio in sede di giudizio di cassazione la questione, relativa alla violazione dell’art. 6 CEDU, per avere il giudice d’appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado affermando la responsabilità penale dell’imputato, esclusivamente, sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di testimoni senza procedere a una nuova escussione degli stessi»[10].

Anche qui – come nella controversia “europea” Dan c/ Moldavia – il giudizio di appello aveva, completamente, ribaltato il verdetto di primo grado, sancendo la condanna dell’imputato; anche qui, il convincimento del secondo giudice si basava su una valutazione di totale attendibilità della testimonianza della persona offesa – escussa in primo grado – che, al contrario, era stata ritenuta non credibile dal primo giudice; anche qui, però, il giudice d’appello non escuteva, direttamente, la persona offesa e fondava la sua decisione su di una mera valutazione cartolare del fascicolo e senza, dunque, procedere ad una diretta assunzione della prova dichiarativa.

Tuttavia, il quesito posto dalla Seconda Sezione penale della Suprema Corte va ben al di là del semplice interrogativo “se l’istruttoria dibattimentale in appello debba essere riaperta ogniqualvolta il giudizio di condanna si fondi su una diversa valutazione di attendibilità della prova dichiarativa”, affrontando un diverso, ma altrettanto cruciale, aspetto tematico, ossia la possibilità per il giudice di legittimità, in casi di reformatio in pejus di sentenza di primo grado, di rilevare d’ufficio la violazione dell’art. 6 CEDU, pur in assenza di una specifica sollecitazione della parte ricorrente. L’ordinanza di rimessione da atto della sussistenza di due orientamenti contrastanti sul punto. Secondo una prima impostazione, presupposto per rilevare la violazione dell’art. 6 CEDU è che l’imputato abbia esperito il ricorso a tutti i rimedi offerti dall’ordinamento processuale (ex multis Cass. Pen., Sez. I, 09.06.2015, n. 26860). Altra parte della giurisprudenza, invece, ritiene la questione rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p., essendo sufficiente che la parte abbia impugnato la sentenza ad essa sfavorevole ed essendo dovere del giudice nazionale ricondurre il processo alla legalità convenzionale, attesa la natura sovra-legislativa – ma sub-costituzionale – delle norme CEDU (ex plurimis, Cass. Pen., Sez. I, 03.03.2015, n. 24384).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte operano, nella sentenza in commento, alcune precisazioni di fondamentale importanza. Innanzitutto, recependo in toto l’orientamento della Corte EDU, gli Ermellini precisano che, fermi restando i limiti derivanti dal dovere di immediata declaratoria di cause di improcedibilità o di estinzione del reato, il giudice d’appello, investito dall’impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo un’erronea valutazione da parte del giudice di prime cure della prova dichiarativa, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere, anche d’ufficio, proceduto a rinnovare l’istruzione dibattimentale, attraverso l’esame dei testimoni che abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.

Analoghe conclusioni debbono valere, a parere dei giudici di Piazza Cavour, ove si tratti di sentenza assolutoria emessa all’esito di giudizio abbreviato, nonché di sentenza assolutoria fondata sulla decisività delle dichiarazioni rese dal testimone “assistito” ex art. 197 bis c.p.p., dal coimputato in procedimento connesso (art. 210 c.p.p.) o dal coimputato nello stesso procedimento (art. 503 c.p.p.). Parimenti il ragionamento è da applicarsi, per la Suprema Corte, anche nell’ipotesi in cui il rovesciamento della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile.

Sul concetto di “prova dichiarativa decisiva”, la Corte ha precisato che non si tratta della prova di cui si parla nel disposto dell’art. 606, co. 1, lett. d), c.p.p. – ossia della prova “negata” che, ove esperita, avrebbe “sicuramente” determinato una diversa pronuncia – bensì della prova «da riassumere», il cui contenuto rappresentativo si era già dispiegato in primo grado e sulla quale ha trovato fondamento il primo giudizio assolutorio. Parimenti “decisive” sono poi, per i giudici di legittimità, le prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, sono, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti ai fini della condanna. Viceversa, non potrebbe ritenersi decisivo – si legge in sentenza – un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, in sé considerato, non sia suscettibile di diversificate valutazioni tra primo o secondo grado, ma solo in quanto combinato con altre fonti di prova non adeguatamente valorizzate o addirittura pretermesse dal primo giudice[11]; «neppure – scrivono gli Ermellini – può ravvisarsi la necessità della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. e inquadrabili dall’appellante in una ipotesi di testimonianza pura».

Ciò chiarito, la Suprema Corte precisa, altresì, che qualora il ricorrente si dolga del mancato rispetto, da parte del giudice di appello, del dovere di riaprire l’istruttoria dibattimentale per la rinnovazione di fonti dichiarative ritenute decisive, il relativo motivo non va inquadrato alla stregua di una violazione di legge, bensì nel vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.

Sul punto, si afferma che «con riferimento al caso in esame, è di tutta evidenza come la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale non rilevi per sé, ma solo in quanto la sentenza di appello abbia operato ex actis un ribaltamento della decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa lettura delle prove dichiarative. È quindi solo l’esito di condanna del giudizio di appello e, in primo luogo, la motivazione della relativa sentenza ad essere potenzialmente censurabile […] pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), della Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […]».

4. La prova tecnica: una “prova dichiarativa” sui generis

La casistica sviluppatasi nel solco dell’orientamento tracciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27620/2016, ha imposto, nella giurisprudenza di legittimità, alcuni chiarimenti fondamentali.

Ed invero, in una recentissima pronuncia del gennaio 2017[12] la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di reformatio in peius della sentenza di primo grado, a seguito di mancata riassunzione, in appello, delle testimonianze dei periti e consulenti tecnici sentiti in primo grado e dal cui contenuto il giudice di secondo grado si era in parte discostato. Nello specifico, il primo giudice, facendo proprie le conclusioni dei consulenti del P.M. escussi in dibattimento, aveva pronunciato una sentenza di assoluzione mentre il giudice dell’impugnazione, operando una ri-valutazione del medesimo compendio probatorio, aveva, viceversa, ritenuto fondata l’accusa nei termini originariamente contestati. Pertanto, i ricorrenti proponevano ricorso per cassazione, deducendo, tra gli altri, la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU, in quanto il giudice di appello aveva modificato la sentenza di assoluzione dopo avere rigettato la richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale proposta dal P.M. (e volta all’effettuazione di una nuova consulenza tecnica), senza procedere, inoltre, ad una nuova audizione dei consulenti del P.M., dalle cui conclusioni si era discostato.

La Suprema Corte, nella pronuncia in parola, pur valorizzando gli approdi ermeneutici in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale originati dalle decisioni Dan c. Moldavia della Corte EDU e Dasgupta delle Sezioni Unite della Cassazione, ha evidenziato alcuni aspetti fondamentali che attengono, specificamente, alla c.d. “prova tecnica”.

In particolare, gli Ermellini hanno precisato che «pur se il perito ed i consulenti tecnici sentiti in dibattimento hanno la veste di testimoni, la loro relazione forma parte integrante della deposizione ed inoltre essi sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi purchè argomenti congruamente la propria diversa opinione». Proseguono, ancora, i Giudici di Piazza Cavour, «la loro posizione non è, quindi, totalmente assimilabile al concetto di “prova dichiarativa” espresso nella sentenza Dasgupta, tanto è vero che nella motivazione delle Sezioni Unite, laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionano periti e consulenti».

Assolutamente chiara è, dunque, la posizione del nostro giudice di legittimità in riferimento alla “prova tecnica”: essa non necessita di riassunzione innanzi al giudice dell’appello che intenda “ribaltare” il giudizio assolutorio di primo grado. E, dietro alle suddette conclusioni, v’è un complesso ragionamento logico-argomentativo.

Il Supremo Collegio, invero, giustifica un tale approdo interpretativo richiamando i principi, espressi dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di valutazione, da parte del giudice, di perizie e consulenze.

Anzitutto, viene richiamato il principio secondo il quale il giudice, quale peritus peritorum, può esprimere il proprio giudizio in motivato contrario avviso rispetto a quello del perito. Sul punto, in una recente decisione, la Corte ha chiarito meglio cosa debba intendersi per giudice quale “peritus peritorum”: il «custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa al processo»[13]. Ciò significa, quindi, che il giudice dev’essere colui che, con l’aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato idoneo ad orientare la decisione e ne fa un uso oculato, metabolizzando suo tramite la complessità della res controversa e pervenendo, in tale maniera, ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile.

Ancora – ricordano i Giudici di Piazza Cavour nella pronuncia in commento – nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che «in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto, con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti e, ove tale valutazione sia effettuata in modo congruo, è inibito al giudice di legittimità procedere ad una differente valutazione, trattandosi di accertamento di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità»[14].

È sulla base di tali principi, oramai consolidati nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che la Suprema Corte nella recentissima decisione è arrivata ad affermare che la reformatio in peius della sentenza di primo grado, in assenza di una nuova escussione dei periti e consulenti tecnici o l’effettuazione di una nuova perizia, non vìola l’art. 6 CEDU, data la peculiarità della prova testimoniale rappresentata dalle deposizioni di periti e consulenti, le quali rappresentano valutazioni tecniche dal cui contenuto il giudice, perito dei periti, può ben discostarsi a condizione, beninteso, di una motivazione adeguata, logica e coerente a sostegno del proprio ragionamento.

Nel caso di specie – fanno notare gli Ermellini – il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su alcune contraddizioni che erano venute fuori dall’esame dei consulenti in dibattimento e che sono state smentite alla luce delle affermazioni, degli stessi consulenti, contenute nelle loro relazioni tecniche, oltre che dai principi scientifici enunciati e dai riscontri ottenuti in sede di indagine.

Pertanto, ha concluso la Corte, «non si tratta di un caso in cui la riforma della sentenza si è fondata esclusivamente o in modo determinante sulla rilettura della prova dichiarativa».

5. Reformatio in melius: NO alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale

In ultimo, a completamento della presente disamina, non si può trascurare un’altra recentissima decisione della Corte di Cassazione che, sempre in merito all’ambito applicativo dell’art. 603 c.p.p., ha fornito un altro utile chiarimento. Si tratta della sentenza n. 4222/2017[15].

Diversamente da quanto espresso nelle sentenze sopra ricordate, nella pronuncia de qua gli Ermellini hanno affrontato un caso in cui il giudice di appello aveva proceduto alla reformatio in melius dell’originaria sentenza di condanna, senza rinnovare l’istruttoria dibattimentale nel giudizio di impugnazione.

Orbene, le parti civili ricorrenti hanno, preliminarmente, invocato i principi elaborati dalla giurisprudenza sovranazionale ed interna – supra analizzati – asserendo che gli stessi postulati dovessero trovare applicazione anche nel caso in cui il verdetto di secondo grado fosse un’assoluzione, anziché una condanna, basata su una diversa lettura delle prove dichiarative assunte nel precedente grado di giudizio.

In realtà, la Suprema Corte, rifacendosi ad un indirizzo già in voga nella giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato come il ribaltamento in senso assolutorio della sentenza di primo grado operato dal giudice del gravame senza rinnovazione ex art. 603 c.p.p., fosse perfettamente in linea con la presunzione di innocenza e, proprio perché in tal caso non entra in gioco il principio del “ragionevole dubbio”, «non può condividersi l’orientamento secondo cui anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio il giudice di appello, al di là di un “dovere di motivazione rafforzata”, deve previamente procedere a una rinnovazione della prova dichiarativa»[16].

Infine, nella sentenza in commento, il Supremo Collegio ha precisato come fosse necessario, alla stregua dei criteri dettati nella famosa sentenza delle Sezioni Unite del 2016, il dovere di “motivazione rafforzata” da parte del giudice di appello anche nell’ipotesi nella quale ad essere ribaltato, senza la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e sulla scorta di una diversa valutazione del compendio probatorio, sia per l’appunto un giudizio di condanna.

6. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel disegno di legge A.S. n. 2067 di riforma del Codice penale e del Codice di Procedura Penale.

La Suprema Corte con la sentenza n. 27620/2016 delle Sezioni Unite, sopra richiamata, è stata precorritrice di un indirizzo destinato a divenire – con ogni probabilità – fonte di rango legislativo. Invero, nel ddl n. 2067 recante “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena” – approvato nella seduta del 15 marzo 2017 dal Senato della Repubblica con 156 voti favorevoli e 121 contrari e la cui definitiva approvazione alla Camera dei Deputati è prevista per il prossimo aprile – vi è l’art. 22, comma 4, che dispone “Dopo il comma 4 dell’articolo 603 del codice di procedura penale è inserito il seguente: «4-bis. Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale»“.

La disposizione de qua, ove entrasse in vigore, solleverebbe non pochi dubbi interpretativi ed applicativi. Principalmente, non è affatto chiara la ratio che avrebbe indotto il legislatore ad introdurre un vero e proprio automatismo nell’ipotesi di appello proposto dal Pubblico Ministero avverso una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, atteso che quello della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è stato, da sempre, un istituto imperniato sul potere di scelta discrezionale dell’organo giudicante.

Molte perplessità, viepiù, si evidenziano in ordine al coordinamento della “nuova” disposizione con gli altri commi dell’art. 603 c.p.p. – i quali non saranno interessati da alcuna modifica ad opera della riforma legislativa – soprattutto avuto riguardo al primo ed al terzo comma che affidano la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, appunto, al potere discrezionale del giudice d’appello.

Di poi, si porrebbe una situazione di disparità irragionevole. È evidente, infatti, come il comma 4 bis preveda un vero e proprio obbligo per il giudice di rinnovare l’istruzione dibattimentale in caso di appello del Pubblico Ministero fondato su una diversa valutazione della prova dichiarativa. Non è prevista un’analoga ipotesi per la parte privata, la cui eventuale richiesta di rinnovazione dell’istruttoria in appello resta assoggettata alla regola indicata al primo comma dell’art. 603 c.p.p., che dispone «quando una parte, nell’atto di appello o nei motivi presentati a norma dell’art. 585, comma 4, ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado […], il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Paradossalmente, dunque, se un imputato, condannato in primo grado, chiede la riassunzione della prova dichiarativa nel grado di appello convinto di poter, per questo verso, dimostrare la propria estraneità ai fatti, il secondo giudice non ha l’obbligo ma, semplicemente, la facoltà di rinnovare l’istruttoria, ove ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. Analogamente, in caso di appello proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione, agli effetti civili. Se, viceversa, è l’Ufficio di Procura, proponente appello avverso una sentenza di assoluzione, a chiedere la predetta riassunzione, allora il giudice è obbligato a disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a prescindere da quello che sarebbe il suo libero convincimento.

Ancora, ci si chiede che garanzia di affidabilità possa avere una testimonianza offerta nel grado di appello, a distanza di tempo dal giudizio di primo grado. Sarebbe davvero sintomo di “colpevolezza” dell’imputato la contraddizione nella quale, eventualmente, incorra un testimone escusso nuovamente nel giudizio d’appello, a distanza di anni da quando era stato ascoltato in primo grado? Oppure sarebbe più verosimile ipotizzare che, semplicemente, il decorso del tempo abbia attenuato il ricordo del testimone rispetto ad eventi e fatti verificatisi ancor prima di essere escusso nel processo di primo grado?

Quelle sinteticamente evidenziate sono soltanto alcune delle questioni interpretative ed applicative che una norma siffatta solleverebbe ove entrasse in vigore. Il provvedimento, nel testo approvato al Senato, è tornato ora all’esame della Camera per l’approvazione definitiva prevista per il prossimo aprile.


[1] Sul carattere di “eccezionalità”, ex multis Cass. Pen., Sez. Un., 24.01.1996, n. 2780.

[2] Art. 585, co. 4, c.p.p.

[3] È opportuno ricordare che, nell’indirizzo consolidato della Suprema Corte, il carattere della novità della prova è riscontrabile sia quando la stessa sopraggiunga autonomamente, sia quando venga reperita dopo l’espletamento di un’opera di ricerca che dia risultati in un momento successivo alla decisione.

[4] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. III, 14 giugno-5 luglio 2011 – Dan c/ Repubblica di Moldavia.

[5] In realtà, l’orientamento in parola trova espressione anche in precedenti pronunce, a partire dal caso Bricmont c. Belgio del 07.07.1989 e, poi, ex plurimis, nei casi Costantinescu c. Romania del 27.06.2000, Sigurpor Arnarsson c. Islanda del 15.07.2003, Destrehem c. Francia del 18.05.2004, Garcìa Ruiz c. Spagna del 21.01.2006.

[6] Art. 6 par. 3, lett. d) CEDU: «Ogni accusato ha segnatamente il diritto: d) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico».

[7] Tale funzione nell’ordinamento italiano è prevista dall’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario italiano (R.D. 30 gennaio 1941 n. 12) ed è assegnata, appunto, alla Corte di Cassazione: «La Corte suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge.

La corte suprema di cassazione ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio del regno, dell’impero e su ogni altro territorio soggetto alla sovranità dello Stato.»

[8] Cass. Pen., Sez. Un., 28.04.2016, n. 27620, in CED Cassazione, 2016.

[9] Ordinanza del 26 novembre 2015 della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione.

[10] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 06/07/2016, n. 27620.

[11] Tale concetto è espresso anche in altre pronunce della Suprema Corte. Ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, 06.10.2015, n. 47722 in CED Cassazione, 2015, secondo cui «il giudice di appello che intenda riformare in “peius” la pronuncia assolutoria di primo grado ha l’obbligo – in conformità all’art.6 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU nel caso Dan c/Moldavia – di disporre la rinnovazione dell’esame dei chiamanti in reità o in correità quando la diversa valutazione delle dichiarazioni attenga alla credibilità del propalante e/o al profilo dell’attendibilità intrinseca e non anche nel caso in cui ad essere rivalutata sia l’attendibilità estrinseca, cioè la ravvisabilità nel compendio probatorio di riscontri individualizzanti ovvero la loro idoneità a fungere da elemento esterno di conferma».

[12] Cass. Pen., Sez. V, 13.01.2017, n. 1691, in http://www.cortedicassazione.it

[13] Cass. pen., Sez. IV, 22.03.2016, in http://www.diritto24.ilsole24ore.com, con nota di N. GENTILE e N. M. SALVI, Giudice garante dell’affidabilità scientifica in un giudizio sulla responsabilità medica.

[14] Cass. Pen., Sez. IV, 13.02.2015, n. 8527 in CED Cassazione, 2015.

[15] Cass. Pen., Sez. IV, 30.01.2017, n. 4222, in http://www.cortedicassazione.it

[16] Contra, Cass. pen., Sez. II, 24.04.2014, n. 32619, in Dir. Pen. e Processo, 2015, 7, 865 nota di FIASCHI, secondo la quale «il principio sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo il quale il giudice d’appello è tenuto ad assumere nuovamente la prova dichiarativa, allorché intenda procedere ad una rivalutazione dell’attendibilità della prova per ribaltare il giudizio di primo grado, può trovare applicazione non soltanto nei casi di reformatio in peius di una sentenza assolutoria, ma anche nei casi in cui il diverso apprezzamento della prova conduca a un’assoluzione».


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