La sentenza della Corte di Cassazione 11504/2017: il tramonto del criterio del tenore di vita

La sentenza della Corte di Cassazione 11504/2017: il tramonto del criterio del tenore di vita

Ha creato scalpore, tra addetti ai lavori e non, la recente sentenza della Corte di Cassazione (a Sezioni semplici), n. 11504, del 10 maggio 2017, in tema di assegno di divorzio, postulante un superamento del criterio del ‘tenore di vita goduto in costanza di matrimonio’ quale parametro di riferimento da valutare onde stabilire l’eventuale diritto di un coniuge alla corresponsione del relativo mantenimento.

Anzitutto, valga precisare che tale pronunzia interviene in materia di assegno divorzile ex art. 5, comma 6, Legge 898/1970 e si colloca, quale più recente voce, a valle di un autorevole precedente, risalente a ventisette anni or sono e rappresentato dalle sentenze della Suprema Corte di Cassazione, a Sezione Unite, n. 11490 e n. 11492 del 1990.

La vicenda di cui si è occupata la pronuncia attuale è storia nota: una ex moglie ricorreva in Cassazione avverso una sentenza della Corte d’Appello di Milano, denunciando, quale motivo di impugnativa, fra gli altri, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 5, comma 6, Legge 898/1970, per avere la Corte ambrosiana negatole il diritto all’assegno divorzile, non possedendo l’ex consorte mezzi adeguati per garantirle la conservazione dell’(elevato) tenore di vita dalla stessa goduto manente matrimonio.

La Corte di legittimità ha dichiarato infondato tale motivo di ricorso, ma, nel contempo ha operato, ai sensi dell’articolo 384, quarto comma, c.p.c., una correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata, coerentemente con il fatto che, nel domandarsi se un ex coniuge abbia o meno diritto ad un assegno divorzile, non sia (più) necessario tenere presente il parametro del c.d. ‘tenore di vita goduto in costanza di matrimonio’, quanto piuttosto quello dell’indipendenza economica, reale o potenziale, dell’eventuale beneficiario.

In particolare, pare sottolinearsi l’incongruenza tra lo scioglimento del matrimonio (ovvero la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione dello stesso) ed il mantenimento, nel diritto vivente, di un parametro ancorato a quel rapporto di coniugio oramai spirato, la cui ultrattività è certamente da considerarsi illegittima, in considerazione dell’altrettanto illegittima locupletazione che essa determinerebbe.

La Suprema Corte, partendo dalla lettera dell’articolo 5, comma 6, della Legge 898/1970, ha ricordato e posto l’accento sulla necessità dell’utilizzo, da parte dell’interprete, di un procedimento bifasico (lasciando parlare la pronuncia in commento, di un “giudizio nitidamente e rigorosamente distinto in due fasi”), declinato nella primaria valutazione dell’an debeatur, finalizzata, appunto, all’accertamento o meno del diritto del coniuge ad ottenere l’assegno di divorzio e, solo in caso di esito positivo di tale primo stadio,  alla quantificazione di tale assegno.

Nello specifico, la fase dell’an debeatur condurrà ad un vaglio positivo solo laddove il richiedente non possegga mezzi economici adeguati e neppure abbia la possibilità di procurarseli per ragioni oggettive e non qualora ella o egli non sia nelle condizioni di mantenere il medesimo tenore di vita goduto in costanza di coniugio; se il giudizio in ordine all’adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi del richiedente ha sempre avuto, quale parametro di riferimento (ma ciò non è forse sempre vero nella sua interezza, soprattutto con riferimento a decisioni recenti) il “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio”, ora tale parametro, in coerenza con quanto sopra riportato, viene identificato nel “raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente”, sicché, se è accertato che il richiedente sia economicamente indipendente o potenzialmente in grado di esserlo, il relativo diritto gli sarà negato.

Orbene, nella pronuncia in parola viene alla luce tutta la fragilità scaturente dal tenere in vita il rapporto tra il crisma del ‘tenore di vita goduto in costanza di matrimonio’ ed il divorzio che, come tale, è istituto determinante una fattispecie estintiva del rapporto di coniugio: è piana ed evidente la contraddizione in termini che ne scaturirebbe, da un punto di vista fattuale e giuridico; in altre parole, non si comprende, per quale ragione se il rapporto matrimoniale si estingue sia sul piano dello status personale dei coniugi sia dei rapporti economici-patrimoniali debba rimanere in vita un parametro che a tale rapporto ormai sopito faccia riferimento.

Al riguardo, non ci si può esimere dal sottolineare un allineamento delle argomentazioni svolte dalla Cassazione anzitutto con la natura assistenziale dell’assegno di divorzio, come previsto e disciplinato dall’articolo 5, comma 6, Legge 898/1970, modificato dall’articolo 10 della Legge n. 74, del 1987 e, dunque, con la ratio della norma, ravvisabile, come noto, nella solidarietà economica postconiugale. Questo concetto giuridico -quello cioè della solidarietà post-coniugale- affonda del resto le proprie radici nell’articolo 2 della Carta Costituzionale e contempla la qualificazione dell’assegno eventualmente previsto a seguito di divorzio come ‘esclusivamente’ assistenziale, da corrispondere, altrettanto esclusivamente, a favore del coniuge economicamente più debole.

Neppure ci si può esentare dal rilevare ed accogliere positivamente altresì un altro avvicinamento – compiuto mediante il superamento del parametro del tenore di vita nella determinazione dell’assegno divorzile- vale a dire quello effettuato dalla giurisprudenza all’attuale tessuto sociale contemporaneo, con le sue sfaccettature e le sue finitudini spazio-temporali (connesse, ad esempio, all’attuale durata della vita), in cui i coniugi, venuto meno il presupposto del loro status, sono e debbono essere considerati e valutati alla stregua di ‘persone singole’ . Ed è proprio il moderno concetto di ‘persona singola’, inteso quale essere umano dotato di vita propria anche al di fuori, ed oltre, ed in futuro, rispetto al matrimonio, che viene in rilievo nel caso di specie e che il Giudicante dovrà prendere in considerazione, nell’esperire la valutazione finalizzata al riconoscimento del diritto alla corresponsione dell’assegno (la c.d. fase dell’an debeatur). D’altronde, proprio il concetto di ‘persona singola’ (e non già soggetto “parte di un rapporto matrimoniale ormai estinto”) è strettamente connesso al principio dell’autoresponsabilità economica che viene in rilievo, anche e soprattutto, dopo la pronunzia di scioglimento o cessazione degli effetti civili del vincolo; in altre parole, la giurisprudenza in esame si è perfettamente allineata al moderno contesto sociale dove non è più sufficiente ‘appoggiarsi’ su di un rapporto di coniugio ormai reciso e del cui tramonto ciascuno dei coniugi, sin dall’inizio, si assume pienamente il rischio. Tutto ciò è peraltro ancora più veritiero laddove il matrimonio è definito, con una formula di straordinaria efficacia, quale “atto di libertà ed autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”. E’ evidente il richiamo ad un’idea di ‘responsabilizzazione’ del singolo individuo in un’ottica postconiugale, perfettamente in linea con l’orientamento, sempre più granitico, reperibile anche in tema di prole maggiorenne, che condanna le “ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale sciolto”.

Ciò doverosamente premesso, è lecito domandarsi: quando ed in che modo si definisce il concetto di indipendenza economica? Il parametro cardine della indipendenza economica cui rapportare l’adeguatezza/l’inadeguatezza dei mezzi di sostentamento del coniuge richiedente va accertata ed individuata con l’ausilio di principali indici, identificati nel seguente elenco dalla Corte di legittimità nella sentenza in parola: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu imposti e del costo della vita nel luogo di residenza della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Con riferimento poi al regime dell’onere probatorio avente ad oggetto la “non indipendenza economica”, valgono i normali criteri dettati dall’articolo 2967 c.c. vale a dire che graverà sul richiedente il peso di dimostrare (mediante “tempestive, rituali e pertinenti allegazioni”) di “non avere mezzi adeguati” ovvero “di non poterseli procurare per ragioni oggettive” (anche oggetto di prova presuntiva saranno oggetto “le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale”).

Esperita la fase dell’an debeatur e, dunque, solo all’esito positivo di questa, il Giudicante giungerà ad occuparsi del quantum debeatur: in tale stadio, spiega la Suprema Corte, si dovrà tenere conto del principio della solidarietà economica verso il coniuge economicamente più debole, alla cui determinazione debbono concorrere tutti gli indici previsti dall’articolo 5, comma 6, Legge 898/1970 (letteralmente: “il Tribunale tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione famigliare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, del reddito di entrambi e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio…”).

Inutile dire che tale principio -quello cioè della solidarietà post-coniugale- trae linfa dal disposto di cui all’articolo 2 della Costituzione ed è certamente conforme alla natura e alla funzione stessa dell’assegno divorzile che è quella, come noto, assistenziale nei confronti del coniuge economicamente più debole.

In conclusione, si ritiene che, come anzidetto, tale pronunzia, scaturente da una sezione semplice ma avente portata e vocazione ‘da Sezioni Unite’, sia portatrice di una più moderna o, quanto meno, mutatis mutandis, maggiormente ancorata all’attuale tessuto sociale, immagine dei coniugi, quali individui considerati alla stregua di ‘persone singole’, che, come tali, non debbono essere sine die necessariamente vincolati ad un rapporto di coniugio ormai estinto, quantomeno laddove abbiano i connotati di soggetti economicamente indipendenti.

Certamente, quanto alle criticità che possono sollevarsi in ordine alla sentenza in parola, si è sottolineata l’esigenza di rapportare il superamento del parametro del tenore di vita al singolo caso concreto che l’interprete si trova davanti, con particolare riferimento al caso, relativo soprattutto a matrimoni, magari di lunga durata tipici degli anni passati ma non solo, in cui un coniuge, sulla base di un progetto comune, si sia speso per la famiglia, rinunciando a coltivare ambizioni professionali e relativi guadagni, mentre l’altro si dedicava ‘alla carriera’: in questa ipotesi, forse, sarebbe opportuno domandarsi se e come possa operare unicamente il concetto di ‘indipendenza economica’.

Lo stesso interrogativo, del resto, potrebbe sorgere in ordine ad uno degli indici dell’indipendenza economica, quello cioè della ‘capacità lavorativa attuale o potenziale’, che andrebbe -e andrà- necessariamente ancorata ad una ‘fotografia’ del caso concreto che tenga conto dell’età del coniuge, del contesto storico e geografico in cui ella od egli vive, delle possibilità effettive di ritagliarsi una posizione professionale nel mondo del lavoro odierno.

Un ultimo interrogativo: interverranno le Sezioni Unite?


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