La sentenza n. 23283 del 2016 e “il colpo di spugna” del legislatore

La sentenza n. 23283 del 2016 e “il colpo di spugna” del legislatore

Il problema della ricerca di un limite alla responsabilità professionale del medico a titolo di colpa (per i reati di omicidio e lesioni personali peculiari all’esercizio di un’attività rischiosa quale è quella del sanitario), sconta l’inesistenza di una disciplina normativa organica a causa della difficoltà, tanto del legislatore quanto della giurisprudenza, di rintracciare un punto di equilibrio tra “due opposte esigenze: quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie del cliente in casi di insuccessi e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista[1]. D’altronde, agganciare la rilevabilità della colpa medica ad una posizione troppo rigorosa (ossia in ogni caso di esito infausto in seguito all’esercizio della prestazione) oppure ad una posizione diametralmente opposta (ossia eccessivamente indulgente), conduce a conseguenze non accettabili in punto di tutela del bene primario della salute.

Nel voler tracciare un excursus in merito alla ricerca di un punto di equilibro tra la tutela della salute del paziente e una “calibrata” colpa ascrivibile al sanitario, l’ago della bilancia pare pendere a favore della classe medica perlomeno fino agli anni ’90, trovando avallo nella nota sentenza della Corte Costituzionale n.166 del 1973, chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità – in sede penale – del parametro di matrice civilistica offerto dall’art 2236 c.c., in combinato disposto con l’art 1176 comma 2 c.c. Giustificando il ricorso a tali disposizioni importate dal mondo civile mediante il richiamo del principio dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico (onde non considerare uno stesso fatto civilmente lecito e penalmente illecito), l’accertamento della colpa generica del medico si mostrava, infatti, notevolmente indulgente poiché, applicando l’art. 1176 comma 2 c.c. (secondo cui la diligenza esigibile dal debitore di una prestazione professionale deve essere valutata “avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata”), se ne ricavava di dover sanzionare penalmente la condotta del sanitario in caso di errore grave ed inescusabile perché macroscopico, cioè dovuto alla mancanza di quel livello minimo di diligenza, prudenza e perizia esigibili da chi esercita la professione sanitaria. Tale rimando a principi di matrice civilistica, veniva completato con la precisazione di cui all’art 2236 c.c., secondo cui, nel caso di prestazione implicantw la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il professionista intellettuale (quale è il medico) deve rispondere dei danni cagionati solo in caso di colpa grave o dolo.

Dunque, la portata esimente dell’art 2236 c.c. è stata sì applicata anche in sede di accertamento della responsabilità penale del sanitario, ma in senso restrittivo: sussistendo un quadro clinico particolarmente complesso, la colpa lieve escludeva la responsabilità del medico, rilevando esclusivamente la colpa grave quando l’errore consisteva in una violazione delle leges artis (imperizia). Diversamente, nei casi di negligenza o imprudenza, la responsabilità colposa doveva essere accertata secondo i criteri di normale severità ex art 1176 comma 2 c.c., ossia sanzionando la mancata diligenza qualificata, esigibile in un’attività professionale, anche in caso di colpa lieve. Tale indirizzo giurisprudenziale, nonostante l’avallo ricevuto dal suddetto intervento della Corte Costituzionale, non ha retto: difatti, così come rilevato dalla nota sentenza Cantore del 2013, si trattava di un orientamento troppo indulgente, che aveva “finito col coprire anche casi di grave leggerezza” determinando una situazione privilegiata per la categoria[2].

Così, in senso diametralmente opposto, altra parte della giurisprudenza si è rivelata più rigorosa ritenendo di dover rintracciare un limite alla colpa medica all’interno degli stessi principi generali vigenti, nel diritto penale, in tema di colpa (art 43 c.p.), laddove l’equivoca esimente “introdotta” mediante il ricorso all’art 2236 c.c. non poteva che creare un vulnus in punto di colpevolezza (art 27 Cost.): se di unità doveva parlarsi, occorreva fare riferimento al sistema penale, ignaro di gradi differenti della colpa.

Difatti, se il parametro valutativo offerto dall’art 2236 c.c. può fondare la sindacabilità dell’esatto adempimento contrattuale, lo stesso non può porsi come metro di giudizio per una condotta colposa che incide su interessi primari quali la vita e l’integrità fisica: occorre, pertanto, volgere l’attenzione al diritto vivente così come ricostruito nel panorama giurisprudenziale assolutamente oscillante.

Il contenzioso avente come imputato il soggetto medico è divenuto, negli anni, sempre più numeroso a fronte di un’idealizzazione del sanitario quale soggetto infallibile. Il progresso della scienza medica ha, senz’altro, accresciuto le aspettative di guarigione nell’immaginario collettivo dei pazienti, rendendo gli stessi sempre meno disposti ad accogliere e tollerare un possibile esito negativo del trattamento terapeutico: se non si può, certamente, negare che l’attività medica sia ad alto rischio di rimprovero stante il peculiare confronto con beni primari quali la vita e la salute del paziente, è pur vero che tale ineliminabile considerazione non può legittimare un ricorso spasmodico al processo penale. L’incremento del contenzioso giudiziario avverso gli esercenti la professione sanitaria ha reso sempre più impellente l’esigenza di porre un freno che, in prima battuta, è stato fornito proprio dalla classe medica, adottando un “sistema di autodifesa”: così potremmo, in effetti, definire il fenomeno della “medicina difensiva.

Ebbene, la ricerca di un limite alla responsabilità professionale del medico da parte della giurisprudenza costituisce il primo strumento endogeno alla classe sanitaria mediante il quale si è cercato di ridurre la pericolosa difesa posta in essere. Tuttavia, lo scudo protettivo offerto alla categoria non si è rivelato in grado di soddisfare le istanze di depenalizzazione sempre più pregnanti: né avrebbe potuto esserlo, necessitando – l’accertamento della responsabilità penale del sanitario –  una base certamente più stabile ed incisiva, quale è stata (o sarebbe dovuta essere), la novella del 2012. La legge Balduzzi ha, senz’altro, positivizzato l’orientamento giurisprudenziale più indulgente ma, nel legittimare l’esimente della colpa lieve esclusivamente nel perimetro segnato dalle linee guida accreditate dalla comunità scientifica, ha condotto la giurisprudenza di legittimità ad un’interpretazione discutibilmente restrittiva della novella: mediante un sillogismo “imperfetto” (poiché costruito sull’idea che le linee guida richiamate dall’art 3 della legge in questione contengano esclusivamente regole di perizia) la funzione esimente della colpa lieve è stata circoscritta alle sole condotte imperite del sanitario.

Giova, a tal proposito, dar conto di una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (n. 23283, depositata in data 06.06.2016) con la quale la IV Sezione era tornata a pronunciarsi sull’ammissibilità – in un ordinamento ispirato ai principi di legalità e tassatività delle fattispecie incriminatrici, nonché ragionevolezza e uguaglianza – di un accertamento della responsabilità penale (del sanitario) ripensato abbandonando la lettura tradizionale del principio di colpevolezza (ruotante attorno ai due poli opposti di dolo-colpa) ed elevando a criterio di attribuzione della responsabilità un elemento che, nella sistematica codicistica, costituisce esclusivamente parametro valutativo per la graduazione della pena (art 133 c.p.) piuttosto che circostanza aggravante (art 61 n.3): trattasi del grado della colpa[3]. Ancora, la IV Sezione aveva ritenuto di dover fornire un’esegesi della cornice legale di riferimento senz’altro più rispettosa del dato letterale che, a ben vedere, coinvolgerebbe tutte le declinazioni della colpa generica già conosciute nell’ambito della teoria generale del reato (colposo), così gettando fondamenta marcatamente garantistiche verso la classe medica: difatti, riconoscere un ambito applicativo più ampio all’art 3 della legge Balduzzi equivaleva a prospettare alla medicina difensiva la possibilità di avvicinarsi,  per la prima volta, a quel tanto ricercato punto di equilibrio tra l’alto valore sociale dell’attività medica e il proporzionale rischio di rimprovero connesso. Trattasi, pertanto, di una presa di posizione molto forte da parte della Suprema Corte, in particolar modo perché rappresentativa di una più coraggiosa rottura con l’orientamento consolidato, teso a delimitare  l’irrilevanza penale dell’attività del sanitario mediante il ricorso al principio culpa levis sine imperitia non excusat, forgiato dalla nota sentenza Pagano[4] all’indomani dell’entrata in vigore dell’art 3 della legge Balduzzi (L 8 novembre 2012, n. 189), confermato a più riprese dall’esegesi forzatamente costruttiva della giurisprudenza successiva e, in ultimo, autenticato dall’intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 295 del 2014)[5].

 Tuttavia, l’evoluzione giurisprudenziale di cui la sentenza richiamata rappresenta la punta di diamante, ha subito un forte arresto, rectius, una brusca retrocessione: il legislatore del 2017, anziché recepire e valorizzare il lavoro svolto dalla giurisprudenza, ha optato per l’adozione di una disciplina che, solo in parte, tiene conto di quanto sostenuto dall’orientamento prevalente della IV Sezione della Suprema Corte, riportando l’elemento soggettivo fondante l’imputabilità della responsabilità penale del medico nell’alveo del tradizionale concetto di colpa non graduata.

Di fronte ai profili di problematicità sollevati dalla legge Balduzzi (grado di vincolatività delle linee-guida, indeterminatezza del concetto di colpa grave totalmente estraneo alla teoria generale del reato e relativo ambito di applicazione), il legislatore ha risposto con l’approvazione definitiva del Disegno di legge (n.2224) Gelli-Bianco (“Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario”),  entrato in vigore il 04.04.2017, ma con il quale pare aver perso – per l’ennesima volta – l’occasione di creare una disciplina della responsabilità medica organica e, soprattutto, rispettosa dei principi costituzionali più rilevanti in ambito penale.

In realtà, la formulazione finale è frutto di un emendamento approvato dalla Commissione Igiene e Sanità in data 18 ottobre (n. 6.100 e presentato dal relatore Amedeo Bianco). Il testo originario del D.d.l. prevedeva, infatti, la responsabilità penale del sanitario per i reati di cui gli art 589 e 590, sempre riconducendo la lesione del bene tutelato “a causa di imperizia” ma “solo in caso di colpa grave”, ossia positivizzando quella graduabilità della colpa quale frutto dell’interpretazione giurisprudenziale del decreto Balduzzi, nonché consolidando la rilevanza delle linee-guida quali parametro di accertamento della responsabilità penale del medico: tuttavia, in sede di approvazione definita si è preferito fare qualche passo indietro.

Tenendo a mente i criteri dettati dalla legge Balduzzi per la rilevanza penale della condotta (imperita) del sanitario fondata sulla valorizzazione delle linee-guida da una parte e sulla graduazione della colpa dall’altra, è agevole comprendere il sistema introdotto dalla legge Gelli e lo sforzo esegetico che la giurisprudenza di legittimità ha dovuto compiere al fine di rimediare all’evidente incompatibilità logica contenuta nella nuovo art.590 sexies del codice penale. Difatti, “si è in colpa per imperizia e al contempo non lo si è”, sottolinea la Corte di Cassazione nella più recente pronuncia n. 28187 del 2017, poiché l’interpretazione letterale della nuova fattispecie codicistica porterebbe a dover ritenere punibile la condotta imperita del sanitario laddove lo stesso abbia, comunque, diagnosticato in modo corretto la patologia e abbia individuato le linee-guida da applicare perché in astratto adeguate al caso concreto.  Detto altrimenti, come si può essere imperiti avendo rispettato le linee-guida appropriate? E, inoltre, può bastare la mera aderenza a tali criteri direttivi ai fini di un’effettiva tutela del diritto della salute?

Indubbiamente, in un diritto penale costituzionalmente orientato (alla persona) la risposta non può che essere negativa, dovendo considerare i fattori contestuali nonchè continuare ad attribuire alle linee-guida la natura di meri criteri direttivi, nella consapevolezza di non poter realmente cristallizzare il sapere medico che, ontologicamente, è in continua evoluzione. Tale conclusione sembrerebbe trovare conferma nel riferimento legislativo alle buone pratiche assistenziali, ritenendo – a parere di chi scrive – di poter recuperare per tale strada quel riferimento ad una graduabilità della colpa, scomparso dalla formulazione letterale della norma. Ad ogni modo, lo statuto penale del medico è stato, senz’altro, peggiorato nella misura in cui la causa di esclusione della punibilità viene riferita alla sola condotta imperita, lasciando al tradizionale accertamento processuale dell’elemento soggettivo del reato (ossia effettuato secondo i normali criteri di severità) le condotte negligenti e/o imprudenti.

Alla luce delle argomentazioni svolte, se risulta difficile al giurista più esperto comprendere quando si debba punire, a fortiori sarà ancor più complesso per il medico valutare quando una sua determinata condotta potrà risultare penalmente rilevante: converrà, allora, attenersi alle linee-guida cristallizzate nel decreto ministeriale, a danno del principio di libertà terapeutica, nonché del diritto alla salute dei pazienti. Difatti, è indubbio che il medico sarà spinto a discostarsi sempre meno da quelle linee direttive, consapevole di potersi – post accertamento giudiziale – giocare la carta dell’eventuale “immunità”, laddove il discostarsi dalle leges artis amplifica le probabilità di essere ritenuto responsabile penalmente: forse, al fine di placare gli animi della medicina difensiva, sarebbe stato più funzionale – e si auspica che in tale direzione si muova il futuro legislatore – eliminare la rilevanza penale di tutte le condotte (negligenti, imperite e/o imprudenti) poste in essere dal sanitario se e in quanto caratterizzate da colpa lieve.

Gli interventi normativi in materia di responsabilità (penale) medica, appaiono come la perfetta fotografia della società moderna, tesa ad una ricerca costante di un colpevole e non più disposta a tollerare neanche più quel “rischio consentito” che rende lecita la prestazione del sanitario: esiste un “prototipo di vittima che non ammette la possibilità che il fatto di avere sofferto sia dovuto a una ‘propria colpa’ o, semplicemente, al caso. Si parte sempre dall’assioma per cui deve esserci sempre un terzo responsabile (…)[6]. E tale contesto socio-culturale non può che avere riflessi negativi sul modo in cui il medico vive la sua stessa attività: non si ha timore della sentenza penale del giudice, bensì dell’incardinarsi di un procedimento penale, con indubbia compressione della stessa idea del diritto penale quale extrema ratio.

In conclusione  – e a parere di chi scrive – la sentenza Denegri del 2016 aveva gettato fondamenta maggiormente garantistiche per il sanitario, ma il legislatore del 2017 non ha ritenuto di dovervi edificare la necessaria “fortezza giuridica” per tale categoria professionale, scegliendo di cancellare con un colpo di spugna il lavoro incessante di dottrina e giurisprudenza teso a trovare la risposta giuridicamente più corretta alle istanze della classe medica che, nell’immediato futuro, corre il rischio di essere composta da meri esecutori della professione, appiattiti su linee-guida cristallizzate, nell’obiettivo di sottrarsi all’eventuale insorgenza di un procedimento penale anziché procedere, come necessario e a seconda del caso concreto, verso la miglior cura del paziente.


[1] Così, Corte Costituzionale, sentenza 28 novembre 1973, n.166 nella parte in cui richiama la Relazione del Guardasigilli al codice civile n.917

[2] Sent. Cantore, cit.

[3] Con ciò non si vuol, certamente, ritenere che la colpa non sia graduabile: ma che la graduabilità ai fini della pena è cosa ben diversa dalla graduabilità ai fini della colpevolezza. Tuttavia non è mancato chi, in dottrina, già prima della Legge Balduzzi, evidenziava l’inesistente differenza ontologica tra colpa penale e colpa civile, “…la teoria della non graduabilità della colpa penale (fondata sulla premessa che questa comprenderebbe solo la culpa levis e non la culpa levissima, dell’uomo medio e non del vir diligentissimus, e che portava a concludere che la colpa media o c’è o non c’è), se poteva essere avanzata sotto il codice dell’89, silente sul punto, non è più sostenibile sotto l’attuale codice (…)”; e ancora “(…) la graduazione penalistica della colpa è ammessa dall’art 133, che tra gli indici della gravità del reato annovera “il grado della colpa”, nonché dagli artt 43 e 61.n.3, che configurano la “colpa cosciente” come un grado particolare, non come una figura autonoma, di colpa.”, così F. MANTOVANI, Diritto Penale, parte generale, Padova, 2011, 357.

[4] Cass. pen. Sez. IV 24 gennaio 2013 (dep. 11 marzo 2013), n.11493

[5] Nell’ordinanza di inammissibilità della Corte Costituzionale (ord. 06 dicembre 2013 n.295) viene inserito un obiter dictum in cui si dichiara che “la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata viene in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia”

[6]  Così, M. SILVA SANCHEZ, L’espansione del diritto penale, Milano, 2004, p.22


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