La sentenza Taricco: incontro-scontro tra giurisdizioni

La sentenza Taricco: incontro-scontro tra giurisdizioni

Sommario : 1. Il caso – 2. I profili problematici – 2.1. La teoria dei controlimiti costituzionali – 2.2. La prescrizione: natura sostanziale o processuale? – 3. Osservazioni conclusive.

1. Il caso. La Corte di Giustizia Europea, con la pronuncia della Grande Sezione datata 8 settembre 2015 (causa C-105/14), ha toccato il sensibile aspetto dei rapporti tra giurisdizioni nazionale e comunitaria, disponendo un’importante impostazione interpretativa di alcune norme del nostro codice penale inerenti il decorso della prescrizione in rapporto al verificarsi di eventi interruttivi.

Il caso ineriva ad una pregiudiziale di compatibilità tra gli artt. 160 comma 3 e 161 comma 2 c.p. , come modificati dalla l. 251/2005, e gli obblighi derivanti dai Trattati comunitari di impegno attivo e cooperativo nella lotta contro “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’ Unione” (art. 325 TFUE). (Il giudice del ricorso leggeva inoltre le disposizioni in potenziale violazione di ulteriori disposizioni dei Trattati, ma, essendo state tali tesi rigettate, non verranno trattate in questa sede). La disciplina del codice, infatti, rischiava di vanificare tale obiettivo programmatico, impedendo di perseguire il corrispondente obbligo di risultato, considerando da un lato la necessaria lunghezza delle indagini relative ai fatti penalmente rilevanti, e dall’altro le disposizioni normative applicabili al caso di specie, secondo cui “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere“, combinato disposto comportante un’ impunità de facto. Nel riportare le doglianze del giudice a quo, infatti, la Corte scrive: “La durata del procedimento, cumulati tutti i gradi di giudizio, sarebbe tale che, in questo tipo di casi, l’impunità di fatto costituirebbe in Italia non un’evenienza rara, ma la norma” .

Un primo ordine di questioni affrontato dal Collegio, di carattere prevalentemente pubblicistico, riguarda i rapporti tra fonti normative. Ai fini della valutazione di compatibilità tra esse, la sentenza tiene conto di due criteri, derivanti dall’ art. 325 TFUE: il principio di adeguatezza, o di efficacia- proporzione, integrato dall’assunzione, da parte degli Stati membri, di misure dotate di efficacia e dissuasività, pur nel riconoscimento del c.d. margine di apprezzamento, e il principio di assimilazione, o equivalenza, tra gli interessi finanziari statali e comunitari, che richiedono il medesimo livello di protezione. A questi, rispondenti alla lettera della legislazione europea vigente, si aggiunge la necessità di verificare la sussistenza o meno di un sufficiente livello di “estensione” della patologia applicativa delle norme penali in esame “in un numero considerevole di casi” e la gravità dei delitti commessi, principio riconducibile a quello di offensività, di rilevanza penale di una condotta solo se lesiva (o idonea ad esserlo) di un bene giuridico tutelato dall’ ordinamento.

Verificati questi presupposti, il giudice nazionale, in forza del principio del primato del diritto dell’ Unione, vale a dire di quella regola di prevalenza sul diritto interno in caso di contrasto, sarà chiamato a disapplicare i richiamati commi degli artt. 160 e 161 c.p. , come scrive la Corte, “senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” . Questo presume l’efficacia diretta delle disposizioni sovranazionali considerate, ovvero la loro idoneità ad attribuire diritti e/o obblighi direttamente in capo ai singoli cittadini europei, a condizione che la disposizione, in questo caso l’art. 325 TFUE, sia chiara, precisa, self-executing, e la Corte l’ha ritenuta tale.

Un secondo ordine di questioni, maggiormente problematico, è invece il potenziale contrasto tra tale disapplicazione e il principio di legalità in materia penale. Esso non si rinviene soltanto nella nostra Carta fondamentale, al secondo comma dell’art. 25 (trasposto in modo pressochè analogo agli artt. 1 e 2 comma 1 c.p.), ma anche all’art. 49 della c.d. Carta di Nizza (Carta dei Diritti Fondamentali dell’ Unione Europea) , che fa riferimento non solo alle norme incriminatrici di matrice sostanziale, ma anche al trattamento sanzionatorio, e all’art. 7 della CEDU. La Corte, per risolvere la quaestio iuris, innanzitutto precisa le modalità con cui le due norme sovranazionali interagiscono: per mezzo dell’art. 52, terzo comma, della Carta di Nizza, quando le due fonti garantiscono i medesimi diritti, questi sono da interpretarsi, nel loro significato e nella loro portata, come previsto dalla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’ Uomo e delle Libertà Fondamentali, se non in modo da fornire una tutela più ampia. E questo è proprio il caso del princìpio, suddetto, di legalità, che la giurisprudenza di Strasburgo, richiamata nella pronuncia, non ritiene violato dalla disapplicazione in materia di prescrizione: il reo verrebbe punito per una condotta che, al tempus commissi delicti, era penalmente rilevante, e non viene in alcun modo modificata la sanzione prevista.

2. I profili problematici. Pur apparendo lineare, tale elaborazione pretoria ha cagionato non pochi contrasti. Sono individuabili due principali temi caldi: in primis l’invocabilità, e se sì entro quali limiti, di princìpi nazionali,contrastanti con quanto statuìto dalla Corte di Lussemburgo, ed in secondo luogo la profonda discrasìa individuabile tra essa e il nostro ordinamento riguardo alla natura, rispettivamente ritenuta processuale e sostanziale, dell’istituto della prescrizione.

2.1. La teoria dei controlimiti costituzionali. Dal punto di vista della conformità della sentenza al nostro assetto giuridico, i profili rilevanti risultano essenzialmente due: quello di legalità e quello di irretroattività della legge penale in malam partem. Il quesito è il seguente: sono da ritenersi controlimiti, ovvero princìpi fondamentali dell’ordinamento e/o diritti inviolabili della persona tali da schermare la nostra giurisdizione interna dall’obbligo di conformarsi al provvedimento esaminato, oppure possono essere disapplicati, in ossequio al già citato princìpio del primato del diritto dell’ Unione?

Tuttavia, è preliminarmente necessario precisare in quali termini essi rilevino. In relazione al principio di legalità, questo è già stato accennato; con riguardo alla retroattività, essa verrebbe in essere in quanto le pronunce della Corte di Giustizia interpretative dei Trattati hanno efficacia ex tunc fin dall’ entrata in vigore della disposizione pattizia considerata (tranne nel caso di espressa decisione dello stesso organo), e nel caso di specie l’art. 325 TFUE è stato formalizzato con il Trattato di Lisbona, nel 2009, mentre i fatti oggetto di regiudicanda ineriscono agli esercizi fiscali compresi tra il 2005 e il 2009 e la normativa penale contestata risale al 2005. Questo meccanismo avverrebbe inoltre in peius per il reo per l’effetto di allungamento dei termini massimi di prescrizione, di contro al principio sancito dall’art. 2 comma 4 c.p., secondo cui “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo (…)” . Difatti, in sede disapplicativa verrà in essere il regime “ordinario”, di decorso della prescizione ex novo al venir meno del fenomeno interruttivo.

Il problema è stato, ad esempio, sollevato dalla Corte d’Appello di Milano (ordinanza 18 settembre 2015, sez.II), nell’operare un rinvio pregiudiziale di costituzionalità della legge di esecuzione del Trattato di Lisbona (legge 2 agosto 2008, n.130) : si riconduce la disapplicazione in esame alla violazione di un “principio fondamentale di ordine costituzionale” , richiedendo dunque la “valutazione della opponibilità di un “controlimite” alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’ Italia all’ ordinamento dell’ Unione Europea ai sensi dell’ art. 11 Cost. , in funzione del rispetto del principio fondamentale dell’assetto costituzionale interno“.

Non è immediato rispondere al quesito sopra esposto, in quanto i suddetti controlimiti non sono espressamente previsti nel nostro ordinamento. E’ dunque necessario fare riferimento alle evoluzioni giurisprudenziali, a partire dalla stessa Corte Costituzionale, con l’individuabilità di due principali orientamenti. Uno è quello espresso, ad esempio, nella sent. 236/2011, la quale sancisce che il divieto di retroattività in malam partem è, come il principio di legalità, riflesso della libertà di autodeterminazione individuale nella valutazione delle conseguenze delle proprie condotte. Ai sensi di questa pronuncia, dunque, il divieto di cui sopra non solo è ricondotto nell’alveo dell’art. 25 Cost., con equiparazione tra norme incirminatrici nella loro tipicità e disposizioni relative al trattamento sanzionatorio, ma è anche definito come valore assoluto, nemmeno bilanciabile con altri aventi rilievo nella Carta. Una differenza di copertura costituzionale è stata invece evidenziata nella sent. 264/2012, che riporta il carattere eccezionale del meccanismo di efficacia ex tunc, data l’ingerenza del potere legislativo nella sfera dell’ amministrazione della giustizia che può comportare, ma che tuttavia scrive: “divieto di retroattività della legge, che pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost.“.

Anche la Cassazione penale si è pronunciata successivamente in casi analoghi, con esiti ondivaghi. Nella sent. 2210/2016 si aggiunge che gli artt. 160 e 161 c.p. sarebbero in contrasto già con il “precedente storico” dell’art. 325 TFUE, ovvero l’art. 280 TCE; dunque, sin da prima delle modifiche adottate con il Trattato di Lisbona: non si rinviene alcuna applicazione retroattiva di norme incriminatrici. La pronuncia, inoltre, sancisce espressamente che la disapplicazione “imposta” a livello europeo non inerisce alla disciplina sostanziale della prescrizione, lasciando intoccato l’art. 157 c.p. , ma soltanto alla durata massima dell’interruzione, in relazione alla quale “il soggetto non ha alcun diritto soggettivo che prevale sulla pretesa punitiva dello Stato” , non potendosi affermare una giuridicamente rilevante aspettativa dell’imputato al maturarsi della prescrizione. Dello stesso tenore è la sent. 7914/2016, che accoglie i criteri individuati dalla Corte di Lussemburgo, ponendo una questione di diritto intertemporale: scinde infatti, in sede di disapplicazione, i casi di fatti a prescrizione già maturata e fatti in relazione ai quali essa è ancora pendente rispetto alla pubblicazione della sentenza interpretativa della Corte, ovvero dal 3 settembre 2015. Nel primo caso, non può aversene vanificazione da un’interpretazione sopravvenuta dell’art. 325 TFUE, nel secondo caso la sentenza Taricco sarà applicabile. La sent. 28346/2016, invece, manifesta parere opposto, conformandosi alla tesi secondo cui l’irretroattività della legge penale in malam partem sia da assurgere a valore assoluto, riconducibile al principio della riserva di legge ex art. 25 Cost. : in quanto riconosciuto in molteplici ordinamenti democratici, sulla base del criterio del “best standard” nel sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali (vale a dire, il riconoscimento, il tale struttura, del grado più elevato di garanzia degli stessi).

Ad ogni modo, in tutte queste pronunce si evidenzia un elemento comune: l’ incidenza radicale del tema-problema della natura dell’istituto della prescrizione.

2.2. La prescrizione: natura sostanziale o processuale? Tale questione è meno problematica della precedente: nel nostro ordinamento, è pacifica la natura sostanziale dell’istituto, sulla base di diverse osservazioni. Innanzitutto, sul piano sistematico, la punibilità è ritenuta come elemento costitutivo della fattispecie penalmente rilevante, essendo necessario per il concretizzarsi delle conseguenze giuridiche della condotta criminosa posta in essere. In secondo luogo, fulcro di questa tesi è che l’istituto estingue il reato (art. 157 c.p.), rappresentando il venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva, data la distanza cronologica dal tempus commissi delicti e la conseguente maggiore difficoltà nella raccolta o nella ricostruzione del materiale probatorio. Altro argomento è quello per cui l’art. 129 c.p.p. impone al giudice l’ immediata declaratoria di non punibilità anche nel caso in cui il reato sia estinto: il decorso della prescrizione, dunque, non ha alcun effetto preclusivo sulla pronuncia di merito. La giurisprudenza costituzionale, sul punto, è allineata: la garanzia della riserva di legge copre tutti gli aspetti relativi al penalmente rilevante, ivi compresi quelli relativi alla punibilità, e dunque alla prescrizione e alle cause di interruzione o sospensione di essa (una tra tutte: sent. 393/2006) .

Diverso è invece l’orientamento sovranazionale, secondo il quale l’istituto è afferente alle condizioni di procedibilità dell’azione penale, alla dimensione processuale dunque, e il suo effetto è quello di estinguere non il reato sostanziale ma l’esercizio dell’azione stessa.

La conseguenza essenziale di questa divergenza è data dall’operatività di due diversi meccanismi di regolamentazione dell’istituto: rispettivamente, quello del nullum crimen sine lege e del tempus regit actum.

La già citata sentenza della Cassazione penale 28346/2016 riporta, infine, pur non condividendole, altre due tesi minoritarie di dottrina. Una ipotizza la natura processuale dell’ istituto sulla base di alcuni effetti derivanti dal reato persisenti pur per sopravvenuta prescrizione (ad esempio, le obbligazioni civili). La seconda, invece, elabora una “doppia natura” dell’ istituto: sostanziale fino all’ esercizio dell’azione penale, e processuale dopo; in tal caso, l’interruzione del decorso rientrerebbe nella dimensione processuale.

3. Osservazioni conclusive. E’ evidente che il caso presenti elementi di scontro con il nostro ordinamento, un’accoglienza che pare difficoltosa. La sentenza della Corte di Giustizia si pone in contrasto con la nostra Carta fondamentale non solo per quanto riguarda i principali profili sopra esposti, ma anche in relazione ad altri aspetti: ad esempio, l’art. 27, sulla finalità rieducativa della pena, compromessa dalla volontà comunitaria atta a trasformarla in tutela degli interessi finanaziari dell’ Unione, con una sorta di “strumentalizzazione” dell’individuo e delle limitazioni di libertà che subìsce con la sanzione penale; oppure il combinato disposto di riserva di legge e art. 117 comma 2 lett. l, il quale attribuisce alla competenza statale la disciplina dell’ ordinamento penale nel suo complesso (oltre che delle norme processuali: dunque, anche accogliendo la tesi sovranazionale della natura di rito della prescrizione, il problema della giurisdizione competente permarrebbe); l’art. 3, in chiave sia di eguaglianza che di ragionevolezza, data la sua operatività in relazione non a reati omogenei, ma a fatti omogenei, essendo l’unico discrimen la lesività dei già menzionati interessi finanziari dell’ Unione; i princìpi, infine, di tassatività e determinatezza della legge penale, data la genericità del criterio sancito dalla Corte di Lussemburgo della gravità del fatto, la cui valutazione è demandata al giudice nazionale, caso per caso.

Ad avviso di chi scrive, è tuttavia da notarsi una contraddizione nella giurisprudenza interna più recente: data la pacificità della nozione sostanzialistica della prescrizione, non risulta chiaro come non sia altrettanto condivisa l’idea che la disapplicazione operata nel caso Taricco comporti un effetto retroattivo della legge penale, in violazione dunque del principio di legalità, con conseguente “assorbimento” dell’irretroattività nell’ oggetto dell’art. 25 Cost. . Altro elemento che rende difficoltosa l’assunzione di una posizione netta in casi simili a quello analizzato è, inoltre, la forse eccessiva incertezza relativa ai suddetti “controlimiti”.

Infine, è da ricordare che l’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione Europea, al comma 4, dà riconoscimento alle tradizioni costituzionali degli Stati membri nell’interpretazione dei diritti nella stessa individuati, tra i quali si ha la legalità-irretroattività sia dei reati che delle pene, ex art. 49; vincolo gravante sulla Corte di Giustizia che dovrebbe essere sufficiente per affermare l’impossibilità di accettare la soluzione adottata, seppur condivisibile nella sua finalità politico-criminale.


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Lara Gallarati

Avvocato presso il Foro di Milano.

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