La teoria dei controlimiti alla luce della Sentenza Taricco

La teoria dei controlimiti alla luce della Sentenza Taricco

L’impianto garantista che caratterizza l’ordinamento giuridico italiano, trova riconoscimento in forza del principio di legalità che sorregge la disciplina penalistica nazionale.

Il corollario della riserva di legge, richiamato dall’art. 25, comma 2, Cost., attribuisce al legislatore la competenza esclusiva nella definizione delle condotte penalmente rilevanti e delle sanzioni applicabili.

La ratio della disposizione richiamata, consiste nel riconoscere una monopolizzazione della criminalizzazione al Parlamento. Il legislatore, infatti, è tenuto a qualificare le condotte penalmente rilevanti e, al contempo, avvalersi di elementi descrittivi tali da rendere la norma penale accessibile e la sanzione susseguente prevedibile.

Orbene, l’esistenza di “nuove” norme – internazionali e comunitarie – crea sempre più frequentemente la circostanza in cui la legislazione nazionale deve rapportarsi con principi di diverso rango.

In particolare, l’intervento del diritto comunitario negli Stati interni, anche in materia penale, sembrerebbe sovvertire l’impostazione garantista predetta dando luogo ad una “nuova” competenza dell’Unione Europea.

Siffatta considerazione nasce alla luce di una folta giurisprudenza comunitaria, molto spesso intervenuta in ambiti di esclusiva competenza dello Stato italiano. Si pensi fra tutte alle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea relativamente alla delimitazione dei rapporti tra norme penali interne ( ad esempio la disciplina penale in materia di esercizio abusivo della professione o della pratica di scommesse sportive) e i principi comunitari.

Si tratterebbe, forse, di segnali di allarme, ovvero, di nuove frontiere che potrebbero condurre all’affermazione di una competenza delle istituzioni comunitarie in ambito penale.

La questione in parola, che pareva occupare una posizione marginale nella riflessione giuridica, è stata invece nuovamente riproposta dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Taricco.

Nella pronuncia da ultimo richiamata, infatti, i giudici comunitari hanno mosso una critica allo Stato italiano nella misura in cui la legislazione nazionale prevede l’applicazione degli artt. 160 e 161 c.p. (riformati dalla legge Cirielli) per il reato di cui al D.lgs 74/2000.

Più precisamente, la Corte ha segnalato il contrasto sussistente tra le disposizioni codicistiche richiamate e l’art. 325 TFUE, nella parte in cui quest’ultimo indica agli Stati membri di avvalersi di una legislazione interna tale da perseguire obiettivi comuni, tra i quali, la lotta alla frode fiscale.

Richiamato il principio del primato del diritto dell’Unione Europea su quello interno, la Corte, ha ritenuto necessario l’intervento del giudice nazionale chiamato a disapplicare le disposizioni interne ogni qual volta queste si pongano in contrasto con il fondamentale principio di leale cooperazione individuato, sebbene indirettamente, nella norma comunitaria predetta.

Ora, è evidente che la pronuncia in commento ha dato vita ad un acceso dibattito che investe temi tra loro connessi. Non solo la valutazione dei rapporti tra diritto interno e comunitario ma, altresì, l’individuazione della competenza delle istituzioni europee in ambito penale ed il richiamo alla cd teoria dei controlimiti da tempo dimenticata.

Preliminarmente va chiarito che l’I.V.A. costituisce un tributo armonizzato in parte destinato allo Stato italiano, in altra parte all’ordinamento comunitario. Cosicché, in questa prospettiva, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’applicazione delle norme penali nazionali sulla prescrizione del reato costituirebbe una violazione evidente dell’art. 325 TFUE quale norma programmatica, a cui ogni Stato membro è sottoposto, nella repressione della cd frodi carosello.

È evidente, dunque, che l’applicazione dei principi richiamati nelle famose sentenze Simmenthal e Granital comporterebbe l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria.

In tal senso, l’accoglimento o meno di tale impostazione comporterebbe una rivalutazione dei rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale. Forse, una “nuova primavera” della teoria dei controlimiti secondo i più garantisti, ovvero, l’ammissione di una attività diretta dell’Unione Europea nella disciplina penale interna.

L’impostazione da ultimo considerata, tuttavia, non pare possa trovare terreno fertile in un ordinamento ispirato ai principi fondamentali del diritto penale. Come già anticipato, l’affermazione del principio di legalità fa si che solo la legge dello Stato possa avere un ruolo determinante nella disciplina penalistica interna, negandosi qualsivoglia rilevanza a fonti di grado e natura differenti. Questo dato sostanziale sarebbe, dunque, già un primo segno della negazione della rilevanza comunitaria sul diritto penale nazionale.

D’altro canto, a corroborare tale impianto argomentativo sarebbe lo stesso TFUE che non contempla alcuna disposizione attributiva alle istituzioni comunitarie di una competenza penale.

Qualora si volesse ammettere, cioè, un’eventuale incidenza del diritto dell’Unione Europea su quello interno quest’ultima dovrebbe intendersi in via indiretta.

Attraverso la sentenza Taricco, dunque, la Corte di Giustizia ha sollecitato una legislazione nazionale poco attenta alla promozione degli interessi finanziari comunitari. In altri termini, l’applicazione del principio del primato del diritto europeo dovrebbe costituire, secondo il Giudice, lo strumento indirizzato a garantire la leale cooperazione tra gli Stati membri e Unione Europea stessa.

Le reazioni registratesi in ambito nazionale, però, non sono state certamente uniformi. Parte della giurisprudenza, infatti, aderendo all’impianto argomentativo della Corte di Giustizia ha disapplicato le disposizioni penali interne per contrasto con l’art. 325 TFUE. Si è trattato, evidentemente, di una corrente ancorata fortemente all’idea di un diritto dell’Unione forte, in grado di schiacciare ogni riferimento legislativo nazionale. Di diverso avviso, invece è stata la Corte di Appello di Milano che, proiettata in una dimensione garantista del sistema penale italiano basato sulla tutela di principi fondamentali, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale mediante l’impugnazione della legge di ratifica del TFUE e del relativo art. 325 nella parte in cui, quest’ultimo, è interpretato quale disposizione finalizzata ad imporre la disapplicazione della norma interna in malam partem.

Ciò posto, la lettura della sentenza della Corte di Giustizia richiede un’indagine meticolosa, orientata alla comprensione dei rapporti tra gli ordinamenti – comunitario e nazionale- anche in considerazione dei limiti discendenti dalla disapplicazione delle norme penali interne.

Laddove si intendesse accogliere l’argomentazione elaborata dai giudici comunitari, cioè, parte della dottrina ha reputato necessario individuare alcune restrizioni fondamentali all’esecuzione della sentenza in analisi.

In primis, l’orientamento in parola ha ritenuto che il riconoscimento automatico dell’ingresso della norma comunitaria nell’ordinamento nazionale, potrebbe tradursi nella lesione della tutela dell’affidamento del soggetto attivo del reato.

La questione dovrebbe affrontarsi in considerazione di due differenti ipotesi: da un lato la circostanza in cui il giudizio a cui è sottoposto l’imputato non è ancora terminato e la sentenza comunitaria sia già stata pronunciata; dall’altro, il caso in cui il processo si è già concluso e la decisione della Corte non sia stata ancora emessa.

Ebbene, seguendo l’orientamento della dottrina maggioritaria, in entrambi i casi la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. determinerebbe la lesione dell’affidamento, riposto dall’imputato, nella maturazione del termine di prescrizione del reato.

Nel primo caso, infatti, anche se il giudizio non è ancora concluso l’affermazione del primato della norma comunitaria  si concretizzerebbe nella violazione del diritto alla difesa, quale situazione giuridica soggettiva fondamentale di cui all’art. 24 Cost..

In ogni procedimento penale, infatti, il diritto defensionale si può estrinsecare nel tentativo di “agguantare” la prescrizione del reato. Pertanto, l’automatico ingresso dell’art. 325 TFUE nell’ordinamento nazionale, si perfezionerebbe in un’applicazione in malam partem della norma. La lesione subita dal soggetto agente si riscontrerebbe, in altri termini, nella violazione dell’affidamento che quest’ultimo aveva riposto nella decorrenza del termine di prescrizione del reato. La possibilità di ottenere la pronuncia di una sentenza di proscioglimento.

È chiaro che muovendosi in tale direzione, l’orientamento de quo ritiene non giustificabile il ragionamento compiuto dalla Corte di Giustizia.

Inoltre, l’applicazione della norma europea in malam partem, difficilmente si concilia con il principio di sussidiarietà del diritto penale, indirizzato sempre all’applicazione della disposizione favorevole al reo. Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui il processo a cui l’imputato è sottoposto sia già concluso, non possa trovare riconoscimento l’applicazione della norma comunitaria considerata dopo la pronuncia del Giudice comunitario. Tale ragionamento è, infatti, supportato dalla regola costituzionale e codicistica dell’irretroattività della norma sfavorevole. La disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p., dopo il termine del giudizio, si atteggerebbe  in una disapplicazione retroattiva sfavorevole. In questa circostanza, quindi, si produrrebbe la violazione del regola richiamata dall’ art. 25, comma 2, Cost..

Il riconoscimento dei principi affermati dalla Sentenza Taricco, quindi, coinvolgerebbe non solo aspetti di diritto penale sostanziale ma anche processuale. Il risultato a cui si arriverebbe è l’ammissione di una competenza dell’Unione Europea in materia penale, talmente ampia, tale da sovvertire anche i pilastri costitutivi del diritto nazionale.

Le linee argomentative delineate, tuttavia, non si esauriscono in una negazione del principio del primato del diritto europeo. Al contrario, attraverso un’analisi ermeneutica dello stesso art. 325 TFUE è possibile cogliere l’insussistenza dei presupposti applicativi del criterio in esame.

Più precisamente, la disposizione richiamata si presente all’interprete come una norma meramente programmatica e non precettiva. La sua funzione si estrinseca nell’indicazione agli Stati membri degli obiettivi da perseguire relativamente a particolari profili, tra cui, il contrasto all’evasione fiscale. In tal senso, il riconoscimento del primato della norma comunitaria – così come chiarito da consolidata giurisprudenza-  è possibile solo nei casi in cui il contrasto sussiste tra due norme aventi entrambe carattere precettivo. Pertanto, l’ammissione del ragionamento compiuto dalla Corte di Giustizia si convertirebbe in una “disapplicazione anomala” della norma interna.

D’altro canto, la sentenza comunitaria presenta profili di genericità ed indeterminatezza. Essa, cioè, rimette al giudice nazionale il compito di valutare, in base alla casistica sottoposta al suo vaglio, quando l’applicazione delle norme sulla prescrizione del reato si pone in contrasto con gli interessi finanziari comunitari.

Tale aspetto, infatti, ha spinto parte della dottrina a ritenere che, trattandosi di questioni e regolamentazioni normative, la competenza non dovrebbe essere attribuita al giudice ma allo stesso legislatore.

Seguendo questo ragionamento, de iure condendo , sarebbe allora necessario la determinazione di una procedura di infrazione sancendosi l’incompatibilità della disciplina nazionale interna con gli obblighi comunitari.

La soluzione ai profili di incertezza sollevati, dunque, dovrebbe individuarsi nella cd teoria dei controlimiti .

A partire dagli anni ’60, infatti, la visione dei rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale era filtrata da un atteggiamento di diffidenza nei confronti della norma comunitaria.

Invero, pur riconoscendosi i limiti alla sovranità territoriale di cui all’art. 11 Cost, si ammetteva la chiusura dell’ordinamento nazionale all’ingresso delle norme comunitarie ogni qual volta queste ultime potevano porsi in contrasto con i diritti fondamentali – “nocciolo” duro del nostro ordinamento – enucleati nella Carta Costituzionale.

Si è trattato, però, di una teoria man mano superata quando la stessa Unione Europea, a partire dal Trattato di Nizza, ha posto l’attenzione sui diritti medesimi. In altre parole, con la sentenza Taricco si è aperto un nuovo orizzonte.

Se da un lato, infatti, si riscontra l’atteggiamento di chi ritiene necessario superare la logica protezionistica, in luogo degli interessi finanziari dell’ordinamento sovranazionale; dall’altro, si assiste ad un’acuta riflessione più garantista, dedita al riconoscimento dei principi fondamentali quali: il diritto alla difesa, la separazione tra potere legislativo e giudiziario e la tutela dell’affidamento.

Soltanto in questo caso, infatti, si potrebbe proseguire con il riconoscimento di un’incidenza soltanto indiretta del diritto europeo nel sistema penale nazionale.

La definizione di uno “spazio comune”, in altri termini, non può atteggiarsi ad un’innovazione del sistema penale nazionale basato sulla tutela di diritti fondamentali. Sarebbe, forse, necessario abbandonare una visione giustizialista- sorta a difesa degli interessi finanziari dell’Unione Europea- e procedere verso un orizzonte protezionistico.

L’esigenza di sanzionare le condotte evasive, infatti, deve trovare un limite nella misura in cui si corre il rischio di comprimere i diritti fondamentali dell’imputato e i principi cardine del sistema penale nazionale.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Articoli inerenti