La tutela del marchio registrato

La tutela del marchio registrato

Sommario: 1. Premessa – 2. Interventi normativi e profili processuali – 3. Conclusioni

1. Premessa

Il marchio è, per sua stessa definizione, il segno distintivo dei prodotti e dei servizi dell’impresa offerti nel pubblico mercato.

Il sistema giuridico antecedente la riforma del 1992[1] vedeva innestarsi, nella funzione di indicazione di provenienza, la sua primaria fonte di tutela.

Il fine, quello della distinzione.

Il “carattere distintivo” d’altronde, viene posto dal Codice della Proprietà Industriale quale elemento essenziale del marchio, che possa servire a ricondurre determinati prodotti e servizi, ad un’impresa determinata. A seguito della menzionata riforma, tuttavia, la regola della correlazione tra marchio e impresa, viene meno al cadere dell’obbligo di circolazione del marchio unitamente all’impresa. L’intervenuta riforma ha depotenziato la tutela concessa alla funzione di indicazione di provenienza, accordando alla funzione di garanzia di qualità ed alla funzione attrattiva, un’attenzione che il sistema anteriore non riconosceva[2]. Nel panorama legislativo, e conseguentemente giurisprudenziale, viene riconosciuta la legittimità dell’utilizzo contemporaneo di un unico marchio da parte di più realtà imprenditoriali.

Stesso marchio, più produttori. Cionondiméno, permane l’obbligo per gli utilizzatori di conservare l’omogeneità del prodotto o del servizio specifico. L’intento del legislatore è quello di tutelare il pubblico dall’inganno. Una tutela stringente, ampia allo stesso tempo, che con la riforma ha visto scindere il binomio impresa – marchio, connaturando quest’ultimo ad istituto a sé.

I confini della tutela giudiziale, civilistica e penale, vengono ampiamente definiti attraverso progressivi interventi legislativi.

Da ultimo, con il D. Lgs. n. 15/2019 di attuazione della direttiva europea (UE) 2015/2436, la tutela del marchio ha raggiunto un ulteriore apice, agendo sia su elementi sostanziali, che su elementi procedurali.

2. Interventi normativi e profili processuali

L’acquisto del diritto all’utilizzo esclusivo del marchio avviene con la registrazione davanti i pubblici uffici dell’UIBM o presso le Camere di commercio; unico caso di segno distintivo peraltro, in cui la legge prevede apposito procedimento amministrativo.

L’esclusività si configura nel momento in cui è depositata la domanda, con efficacia immediata su tutto il territorio nazionale.

Ad integrare la tutela del diritto all’esclusiva, l’art. 11 del D.M. 33/2010[3] prevede un ampliamento delle indicazioni che deve contenere la domanda: generalità della persona fisica, denominazione, sede e nazionalità della persona giuridica richiedente, i colori del marchio, se si tratti o meno di marchio collettivo, e perfino un esemplare della riproduzione del marchio oggetto della domanda. Risulta chiaro, dunque, come all’aumentare della tassatività e specificità delle disposizioni in materia, corrisponda una sempre più rigorosa applicazione di quelle norme che da un lato conferiscono autonomia al marchio rispetto all’impresa, dall’altro ne tutelano il titolare del diritto all’uso esclusivo.

L’efficacia della tutela garantita dalla registrazione, produce effetti erga omnes: i divieti previsti per i terzi sull’utilizzo del marchio altrui, sono parimenti tassativi e rigidi[4].

Ulteriori divieti relativi alla registrazione sono stati di recente introdotti con il D. Lgs. n. 15/2019. Tali divieti, interessano soprattutto il segmento agroalimentare andando a definire le cause di impedimento assoluto alla registrazione di un marchio che sia in conflitto con  preesistenti denominazioni d’origine e indicazioni geografiche (DOP/IGP). Come accennato in premessa, la tutela del marchio segue un iter di crescita progressivo, senza cedere il passo ad alcuna riduzione. In altri termini, l’istituto del marchio registrato, si differenzia in modo rilevante dalla disciplina degli altri segni distintivi: ciò avviene attraverso un sistema di norme nel quale i principi di non confondibilità e capacità distintiva si frazionano negli elementi essenziali dello stesso istituto, favorendo così la posizione del registrante. Chi attua la registrazione infatti, gode non solo di un’ampia tutela, ma viene anche esonerato da pesanti oneri probatori[5].

Una forma di tutela, seppur ridotta rispetto a quella garantita dalla registrazione, è quella prevista per il marchio non registrato.

Sul punto, il Codice Civile detta per il marchio una disposizione assai vicina a quella prevista per il preuso in materia di brevetti. L’art. 2571 conferisce, a chi abbia fatto uso di un marchio non registrato, di continuare tale uso nei limiti della diffusione locale.

L’uso di fatto, nei limiti suindicati, è ammesso anche quando il marchio sia stato successivamente registrato da un terzo. La tutela non viene meno dunque, neanche nel caso di mancata sussistenza del requisito ermetico della registrazione.

Per ciò che concerne l’aspetto giudiziale, la tutela è stata pedissequamente aggiornata ed ampliata dai numerosi interventi normativi degli ultimi anni.

È centrale l’analisi dell’elemento confondibilità.

A tal proposito occorre puntualizzare sulla distinzione, operata sin dagli anni 20 e 30 del secolo scorso dalla nostra giurisprudenza, fra la disciplina del giudizio di confondibilità in materia di concorrenza sleale e quella attinente al marchio registrato. La prima di natura personale, la seconda di natura reale. Impostazione, questa, inaugurata da una risalente sentenza della Cassazione del 1929, è stata adottata anche di recente da Cass. 19 giugno 2008, n. 16647.

Parte della dottrina critica questa formula ormai da tempo.

Altra autorevole dottrina, invece, ricollega la portata della formula all’“astrattezza” con cui debba essere condotto il giudizio di confondibilità, vale a dire, tenendo conto esclusivamente di quanto riportato nella registrazione. In ottemperanza a tale tesi dunque, si deve prescindere dal modus in cui venga usato e apposto il marchio.

Un principio generale, tuttavia, non sembra desumibile da una siffatta impostazione; la stessa giurisprudenza comunitaria ha più volte ribadito che nel giudizio di contraffazione non solo deve farsi riferimento a tutti i fattori pertinenti del caso interpretati secondo la “percezione del pubblico[6], ma anche che ai fini di una valutazione puntuale dell’eventualità che il titolare del diritto possa opporsi ad un uso specifico (contraffattorio), è necessario limitarsi alla circostanza del caso, non potendo accertare un uso del medesimo segno in situazioni diverse[7].

In tali casistiche, la giurisprudenza comunitaria del Tribunale e della Corte tendono ad esaminare le probabilità di conflitto tra due segni distintivi sul mercato, non anche nei registri.

Parimenti a quanto si prospetta in tema di concorrenza sleale, non è superfluo chiedersi dove sia individuabile una genesi confusoria: è pacifico che si possa configurare confusione nel momento in cui il consumatore acquista un determinato prodotto o servizio. Quanto alla c.d. post- sale confusion, confusione in capo a terzi successiva alla vendita del prodotto, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che debba applicarsi la norma ex art. 20, comma 1, lett. b) del c.p.i. (orientamento peraltro condivisibile).

Superando la fase di definizione della confondibilità, è necessario analizzare i criteri in base ai quali possa stabilirsi, in un giudizio, se sussista o meno confondibilità tra marchi.

La giurisprudenza, sul punto, non ha lasciato spazio a dubbi.

Ai fini della verifica, si procede anzitutto con una valutazione in via sintetica di entrambi i segni distintivi, senza prescindere in un secondo momento, ad un approfondimento analitico che vada oltre i caratteri essenziali. La giurisprudenza, inoltre, ha dato modo di dedurre che nei giudizi di confondibilità viene in considerazione anche l’elemento non trascurabile dell’attenzione culturale del pubblico ad un determinato marchio, e dunque, alle ripercussioni sulle scelte nel mercato del prodotto al dettaglio[8].

La tutela del marchio, oltre alla disciplina della confondibilità, si estende anche a tutti gli utilizzi distorti del segno distintivo.

Le azioni previste a tutela del titolare del diritto infatti, consentono di contrastare qualsivoglia registrazione o utilizzo abusivo, scorretto e dannoso del marchio altrui[9].

L’azione di rivendica è esperibile in tutti i casi in cui vi sia stata registrazione abusiva di un marchio da parte di un non avente diritto[10]. Con questa azione, l’avente diritto può chiedere al giudice l’accertamento della titolarità in un giudizio a cognizione ordinaria. Essendo presupposto essenziale per esperire l’azione di rivendica la mancanza di identità tra il titolare del diritto e il soggetto depositante, è chiaro come l’onere probatorio sia a carico di chi impugni la registrazione. La tutela del registrante si applica dunque, a prescindere dalla presunzione d’ illegittimità.

Quanto alla tutela penale, la misura volta ad ottenere l’accertamento dell’abusiva riproduzione del marchio, è l’azione di contraffazione.

La fattispecie del delitto di contraffazione è integrata ogni qualvolta vi sia violazione del diritto di marchio altrui, e nello specifico, quando per contrassegnare prodotti che appartengano allo stesso genus, o che siano affini al prodotto già coperto da marchio registrato, si usi un marchio uguale o simile, generando confusione. Sul punto il legislatore è intervenuto ben due volte tra il 2006 e il 2008, inasprendo i provvedimenti giudiziali in caso di accertamento della contraffazione[11]: la sentenza infatti può inibire la fabbricazione, il commercio e l’uso delle cose costituenti la violazione, ordinarne il ritiro dal commercio, o addirittura, disporne la distruzione. In merito a tale questione, l’art. 260 c.p.i. ha subito un’integrazione di carattere ancor più incisivo con la L. 125/2008 (c.d. Pacchetto sicurezza): il legislatore infatti, ha previsto l’intervento della polizia giudiziaria in funzione alla distruzione delle cose oggetto di violazione a seguito del sequestro.

Il sequestro è solo una delle possibili misure cautelari che, su accurata valutazione del giudice, possono essere concesse in corso di causa, o anche prima di una eventuale azione di contraffazione.

Le azioni di descrizione, sequestro e inibitoria, si applicano qualora la contraffazione possa cagionare al titolare della proprietà industriale un pregiudizio irreparabile. Si concretizzano non solo in vantaggi probatori per il titolare, ma anche in obblighi di facere o non facere per il presunto contraffattore.

Altro istituto introdotto dal D. Lgs. 131/2010, è stata la consulenza tecnica preventiva, strumento processuale assai utile, nonché garante in molti casi di soluzioni stragiudiziali.

Le conciliazioni cui le parti si siano potute fermare prima di arrivare in giudizio, hanno certamente prodotto un effetto inibitorio sul sovraccarico della macchina giudiziaria.

Lo scopo del legislatore, è stato quello di orientare la giurisprudenza ad un sempre più elevato livello di efficienza nella lotta alla contraffazione, andando a fornire strumenti necessari anche in sede civile per il risarcimento del danno.

Segno di un tale orientamento, è stata anche la riunificazione della competenza in capo allo stesso giudice per la disposizione delle misure cautelari.

Infine, a testimonianza di un potenziamento della tutela della proprietà industriale, il D.L. 1/2012 (c.d. Decreto Liberalizzazioni) conv. in L. 27/2012, è intervenuto sul D.Lgs. 168/2003 istituendo le sezioni specializzate in materia di impresa, e soprattutto apportando modifiche radicali all’art. 3 del predetto decreto. L’articolo è stato integralmente riscritto[12], conferendo una competenza di gran lunga più vasta alle sezioni specializzate, che comprende tutto il contenzioso relativo alle attività economiche.

3. Conclusioni

Le questioni sopra esposte, inducono alle seguenti osservazioni conclusive.

La tutela del marchio registrato, sostanziale e giudiziale, segue un’evoluzione progressiva.

Dall’analisi giuridica dell’istituto, emerge senza dubbio una continua livellatura legislativa, ampiamente seguita dalla giurisprudenza maggioritaria.

La definizione sempre più frazionata, ma precisa, degli elementi essenziali del marchio, ed il profondo cambiamento che già nel 1992 ha portato ad una identità dello stesso scissa dall’“identità d’impresa”, continua a garantire una tutela efficace ed efficiente.

Gli interventi legislativi degli ultimi anni, hanno senz’altro facilitato l’autorità giudiziaria in materia di proprietà industriale, ma le hanno anche consentito di approntare misure quanto più protettive dell’avente diritto.


[1] D.Lgs. n. 480/1992
[2] V. Di Cataldo A., I segni distintivi, Milano, Giuffrè, 1993, p. 20
[3] Regolamento di attuazione del Codice della Proprietà Industriale
[4] Art. 20 Cod. Propr. Ind.
[5]A. VANZETTI E V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, VIII, Giuffrè, 2018, 236 SS.
[6] Corte Giust. CE, 10 aprile 2008, caso Adidas/Marca Mode
[7] Corte Giust. CE, 12 giugno 2008, caso O2; il Tribunale CE, sent. 14 luglio 2005, caso Aladin
[8] Corte Giust. CE, 26 aprile 2007, caso Alcon
[9] A. VANZETTI E V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, VIII, Giuffrè, 2018, 260 SS
[10] Art. 118, Cod. Propr. Ind.
[11] Art. 124, Cod. Propr. Ind., come modif. dal D. Lgs n. 140/2006
[12] Come modif. dal D.Lgs. 35/2017

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