La valenza intertemporale della protezione umanitaria, Corte di Cassazione sent. 4890/2019

La valenza intertemporale della protezione umanitaria, Corte di Cassazione sent. 4890/2019

Con la Sentenza. n. 4890/2019, depositata il 19 febbraio scorso, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha risolto i dubbi in tema di regime intertemporale della nuova disciplina sulla protezione umanitaria.

In particolar modo fa luce su qulla precisa norma del c.d. Decreto Salvini che ha cancellato, di fatto, la protezione umanitaria.

Le 22 pagine firmate dai giudici Maria Acierno e Stefano Schirò – la cui decisione in camera di consiglio risale al 23 gennaio 2019 – rappresentano in qualche modo uno spartiacque importante nel quadro stravolto dal recente intervento governativo.

Prima del dl 113/2008, l’art. 5, comma 6, T.U. immigrazione (d.lgs 286/1998) così disponeva:

«Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione».

Il permesso di soggiorno umanitario si affiancava al permesso di soggiorno rilasciato ai titolari dello status di rifugiato e ai titolari dello status di protezione sussidiaria (vds. l’art. 23 d.lgs 251/2007). Lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria compongono la protezione internazionale. In base all’art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008 (vigente prima del dl 113/2008), nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, T.U. immigrazione.

Il T.U. immigrazione prevedeva (prima del dl 113/2018), oltre al generale permesso di soggiorno umanitario, casi speciali di rilascio del permesso di soggiorno: «per motivi di protezione sociale» (art. 18), «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater). Si trattava di casi tipici del permesso di soggiorno umanitario  che si aggiungevano alla previsione generale dell’art. 5, comma 6.

I sopra citati art. 5, comma 6, T.U. e art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008 sono stati modificati dal dl 113/2018: nell’art. 5, comma 6, è venuta meno la generale previsione del permesso di soggiorno per «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» , e corrispondentemente l’art. 32, comma 3, non rinvia più al “generico” permesso di soggiorno umanitario di cui all’art. 5, comma 6, T.U. ma ai casi di cui all’art. 19, comma 1 e 1.1, T.U. immigrazione, che ricalcano le condizioni dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria.

Inoltre, il dl 113/2018 ha eliminato i riferimenti all’art. 5, comma 6, T.U. nelle disposizioni relative ai permessi «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis T.U.) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater, T.U.) e ha aggiunto nel testo unico altri tre casi di speciali permessi di soggiorno: quello «per cure mediche» (art. 19, comma 2, lett. d-bis), quello «per calamità» (art. 20-bis) e quello «per atti di particolare valore civile» (art. 42-bis).

Detto ciò, occorreva affrontare due quesiti:

a) il dl 113/2018 va inteso nel senso di escludere il rilascio del permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto prima del 5 ottobre 2018?;

b) se fosse così, sarebbe accettabile dal punto di vista costituzionale?

Il principio stabilito nell’art. 11 delle preleggi (“la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”) non gode di copertura costituzionale e, conseguentemente, può essere derogato dal legislatore entro determinati limiti.

La giurisprudenza di legittimità, con orientamento del tutto costante ne ha modulato l’ambito applicativo, anche in mancanza di una disciplina normativa puntuale, affermando che in tema di successione delle leggi nel tempo, il principio dell’irretroattività, fissato dall’art. 11 delle preleggi, comporta che la norma sopravvenuta è inapplicabile, oltre che ai rapporti giuridici esauriti, anche a quelli ancora in vita alla data della sua entrata in vigore, ove tale applicazione si traduca nel disconoscimento di effetti già verificatisi ad opera del pregresso fatto generatore del rapporto, ovvero in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso (Cass. 3845 del 2017).

Il principio è stato ulteriormente precisato: “(…) la legge nuova può essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sé stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore” (S.U. n. 2926 del 1967; 2433 del 2000; 14073 del 2002; Cass.16620 del 2013).

Alla luce del chiaro paradigma conformativo dell’operatività del principio d’irretroattività della legge sostanziale, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità si può affermare che l’applicazione del principio non riguarda soltanto i cd. diritti quesiti (S.U. 5939 del 1991) ma anche le situazioni giuridiche soggettive sottoposte ad un procedimento di accertamento ove la nuova disciplina legislativa modifichi il fatto generatore del diritto o le sue conseguenze giuridiche attuali o future.

Il principio esposto è una diretta conseguenza del parametro del cd. “fatto compiuto”, elaborato dalla dottrina costituzionalistica al fine dì evitare effetti pregiudizievoli sulla tutela di diritti, dettati dall’insorgenza di un nuova norma che ne limiti o comprima la titolarità, il contenuto e l’esercizio, in virtù di un paradigma diverso rispetto a quello applicabile al momento in cui se ne è chiesto l’accertamento, così da creare disparità ingiustificate ed irragionevoli di trattamento dovute esclusivamente ad un fattore, del tutto estrinseco ed accidentale quale la durata del procedimento di accertamento.

La nuova legge, ove non si applicasse il principio sopra illustrato finirebbe per sconvolgere le situazioni giuridiche sorte durante il periodo di vigenza della vecchia legge, solo perché non esaurite al momento dell’entrata in vigore della nuova (in quanto svolgentesi nell’ambito di un durata ancora in corso) e perché tuttora oggetto di accertamento giudiziale.

L’applicazione del paradigma sopraindicato al diritto soggettivo del cittadino straniero che ne ha richiesto l’accertamento nella vigenza dell’art. 5, c. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 e che non ha avuto una risposta definitiva all’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, è, alla luce dei canoni sopraindicati, agevole.

La qualificazione giuridica del diritto sopra illustrata e la natura meramente ricognitiva del giudizio di accertamento cui esso è assoggettato nella fase amministrativa e giudiziale dell’esame dei presupposti, inducono univocamente a ritenere che la nuova disciplina legislativa incida direttamente sul fatto generatore del diritto e sui suoi effetti e conseguenze giuridiche così da non poter esse applicabile ai procedimenti in corso, come paradigma valutativo.

Il cittadino straniero ha il diritto ad un titolo di soggiorno fondato su “seri motivi umanitari” desumibili dal quadro degli obblighi costituzionali ed internazionali assunti dallo Stato, che sorge contestualmente ai verificarsi delle condizioni di vulnerabilità, delle quali ha richiesto l’accertamento con la domanda. La domanda, di conseguenza, cristallizza il paradigma legale sulla base del quale, per la richiamata qualificazione giuridica del diritto azionato e per la natura ricognitiva dell’accertamento statuale, deve essere scrutinato.

La Corte di Cassazione ha perciò affermato il seguente principio di diritto: <<La normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dall’art. 5, c. 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione. Tuttavia in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dei presupposti esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura “casi speciali” e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, c.9, di detto decreto legge>>.

Sia in dottrina che in giurisprudenza è stato riconosciuto rango costituzionale al diritto al permesso di soggiorno umanitario: esso è stato considerato, in primo luogo, manifestazione del diritto di asilo di cui all’art. 10, terzo comma, Cost.

In effetti, le situazioni che impediscono – nel Paese di provenienza dello straniero − «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» non sono solo quelle che precludono l’esercizio dei diritti che più direttamente attengono alla democrazia (libertà di espressione, di associazione etc.) ma tutte quelle che incidono sui diritti fondamentali e sulle condizioni minime di una vita sicura e dignitosa. Come noto, infatti, i diritti alla vita, alla salute, all’istruzione etc. sono il presupposto per l’esercizio delle libertà (più strettamente) «democratiche».

Quali sono le conseguenze della modifica introdotta dal dl 113/2018?

Si possano ipotizzare due percorsi.

Il primo parte dalla constatazione che l’art. 10, terzo comma, Cost. è considerato norma direttamente applicabile (e infatti è stato oggetto di applicazione diretta nei lunghi anni di inattuazione legislativa dell’art. 10, terzo comma, Cost.) e perviene, in sostanza, a “sterilizzare” – almeno in parte − la modifica normativa, in quanto manterrebbe la possibilità di rilasciare il permesso umanitario là dove esso sia attuativo del diritto di asilo (cioè, nei casi di privazione dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza).

Secondo la Cassazione, «il diritto di asilo è […] interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale» (Cass. civile, sez. VI, n. 10686/2012, confermata da Cass. civile, sez. VI, n. 16362/2016).

Dunque, venuta meno una delle forme di attuazione del diritto di asilo, potrebbe “rivivere” la diretta applicabilità dell’art. 10, terzo comma, Cost.

Il secondo percorso parte da una diversa lettura del dl 113/2018, non nel senso della mancata previsione del permesso umanitario ma nel senso della preclusione di esso (cioè, come se disponesse che non è ammesso il rilascio del permesso umanitario al di fuori dei casi espressamente previsti).

Qualora il dl 113/2018 escludesse il rilascio del permesso di soggiorno per motivi «risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», la sua incostituzionalità parrebbe risultante palese.

Dunque, sarebbe ipotizzabile una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) dl 113/2018, nella parte in cui ha eliminato la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno umanitario “generico”, per violazione (perlomeno) degli artt. 2 e 10, terzo comma, Cost.

Infatti, la legge cui rinvia l’art. 10, terzo comma, Cost. ha il compito di precisare le condizioni del rilascio e i requisiti del richiedente, di regolare la procedura del riconoscimento e i casi di cessazione, forse ha la possibilità di fissare limiti numerici ma non può limitare il diritto di asilo a un gruppo di soggetti (gli aventi diritto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria), escludendo tutti coloro che si trovano in altri modi privati dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza.

In relazione ai migranti che hanno maturato il diritto al permesso umanitario prima del 5 ottobre 2018, si può, quindi, immaginare il prevalere, nella giurisprudenza ordinaria, della soluzione della non retroattività del dl 113/2018; dunque, la Corte costituzionale potrebbe non essere investita – sotto questo profilo − della questione di legittimità costituzionale del dl 113/2018.

Invece, quanto ai migranti “futuri”, è ipotizzabile che la Corte costituzionale sia investita delle questioni di costituzionalità sopra delineate, apparendo difficile immaginare un compatto orientamento dei giudici ordinari nel senso della applicazione diretta dell’art. 10, terzo comma, Cost.


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Agostina Stano

Avvocato del Foro di Milano Volontaria presso l'associazione Avvocato di Strada Onlus di Milano

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