La violenza di genere ed il fenomeno del femminicidio

La violenza di genere ed il fenomeno del femminicidio

E’ sufficiente scrivere la parola “femminicidio” su Google per trovare una serie quasi infinita di articoli di stampa, tutti dello stesso tenore:

Lo scenario è sconcertante.

E’ bene però chiarire che l’espressione “femminicidio” non è una parola inventata dai giornali e dai mass media, ma si inserisce nel più ampio contesto della violenza di genere.

Quest’ultima consiste in ogni forma di violenza esercitata nei confronti di altro individuo a causa della sua appartenenza ad un genere e, nel caso della donna, al genere femminile.

In tale ambito possono farsi rientrare:

  • Violenza psicologica, ossia forma di coercizione che mira a offendere e mortificare la dignità della persona e che rende il terreno fertile per la manifestazione di altre azioni violente.

  • Violenza fisica, consiste in quella forma di violenza che tende a recare danni fisici, contro il corpo e l’integrità psico-fisica della persona (calci, pugni o spinte, schiaffi, lesioni, mutilazione organi genitali).

  • Violenza sessuale, si sostanzia in una invasione dell’altrui sfera sessuale, senza il consenso della persona o a fronte di un consenso iniziale in seguito revocato.

  • Violenza economica, la stessa origina da una situazione di dipendenza reddituale e patrimoniale rispetto al partner che sfrutta in tal modo la proprio posizione di forza, privando il coniuge o partner delle risorse necessarie ad assicurarsi una vita dignitosa.

  • Violenza assistita, viene in gioco in particolar modo nei contesti familiari ed interessa principalmente i minori costretti ad assistere ad episodi di violenza in danno di figure familiari di riferimento.

Il femminicidio si pone quindi come una forma specifica di violenza di genere, posta in essere ai danni delle donne a causa del loro essere donna e che culminano nel fatto più grave dell’omicidio.

Ad ogni modo la violenza di genere non riguarda solo le donne, ma anche anziani, bambini, omosessuali. Tuttavia, se ne parla principalmente rispetto al fenomeno che vede come vittime le donne visti i maggiori casi statisticamente rilevati.

A tal proposito, l’Organizzazione Mondiale della Sanità  ha rilevato, in una indagine del 2013, che una donna su tre (ben il 35% di tutta la popolazione femminile mondiale) ha subito una qualsiasi forma di violenza da parte di un uomo.

Non è un caso, quindi, che la normativa internazionale definisca il fenomeno della violenza di genere, nei seguenti termini:

“ogni  atto  di  violenza  fondato  sul  genere  che  comporti  o  possa  comportare  per  la  donna danno   o   sofferenza   fisica,   psicologica   o   sessuale,   includendo   la   minaccia   di   questi   atti coercizione  o  privazioni  arbitrarie  della  libertà,  che  avvengono  nel  corso  della  vita  pubblica  o privata”[1].

A questo punto sorge spontaneo chiedersi perché la donna finisce per essere vittima? Quali sono le cause del fenomeno?

In tal senso, l’antropologa messicana Marcela Lagarde ha individuato, a partire dagli anni ’90, la causa nella cultura “machista”, ossia nella connotazione sociale, culturale, politica e normativa che la donna assume all’interno di uno Stato.

E’ dunque un fenomeno culturale, non a caso la femminista francese Simone de Beavoir, in un saggio del 1949 sosteneva “donna, cioè essere umano in condizione di subordinazione, non si nasce ma si diventa”.

Da questo emerge come la differenza, e conseguente disparità, tra uomo e donna non risiede nelle caratteristiche biologiche e specificatamente sessuali, quanto piuttosto nelle strutture sociali e culturali costruite per risolvere i rapporti di potere, secondo una logica a dominanza maschile. Ne consegue l’assunzione di ruoli socialmente e politicamente differenti.

Lo stesso legislatore italiano del 1930 all’interno del codice penale mostrava di recepire, anche sotto il profilo normativo questa evidente distinzione tra i due generi.

All’articolo 559 c.p. puniva il solo adulterio della moglie in quanto si riteneva che quello del marito non fosse in grado di provocare riprovazione sociale quanto quello della donna. Il concubinato dell’uomo era invece punito solo se egli teneva “l’amante” sotto il tetto coniugale, oppure in altro luogo noto. Ancora più emblematico era l’art. 544 c.p. che lasciava impunito lo stupratore se accondiscendeva a sposare la donna abusata, in modo da salvarne l’onore personale e familiare.

I movimenti femministi hanno senz’altro contribuito ad una presa di coscienza e ad una svolta culturale, determinando il superamento di una visione arcaica del rapporto uomo-donna.

Non a caso la Corte di Cassazione, in un caso di maltrattamenti in famiglia, aveva escluso che potesse riconoscersi un minore disvalore alla condotta dell’imputato in quanto ancora legato ad una visione arcaica del rapporto marito-moglie, fondata sull’autorità assoluta ed indiscutibile del marito, che percepisce come “naturale” la sopraffazione dell’uomo sulla donna[2].

Il cambio di rotta si ha avuto a livello internazionale.

Può, infatti, ricordarsi la sentenza di “Campo Algodonero” del 10 dicembre 2009 con cui per la prima volta nella storia del diritto internazionale umanitario, uno Stato (il Messico), è stato dichiarato responsabile per non aver esercitato la dovuta diligenza per l’eliminazione di ogni forma di violenza contro le donne.

Nel 2011 è intervenuta  la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica che considera la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani.

Tale convenzione si ricollega alla conferenza ONU di Pechino del 1995 in cui gli Stati si sono dati una serie di obiettivi, inquadrabili in 5 categorie: 1. Promozione di una cultura che non discrimini le donne; 2. Prevenzione tramite l’adozione di misure idonee a prevenire la violenza maschile sulle donne; 3. Protezione delle donne che vogliono fuggire dalla violenza maschile; 4. Punizione dei crimini commessi nei confronti delle donne; 5. Risarcimento non solo economico delle vittime.

In recepimento di tale normative internazionali, il legislatore italiano ha introdotto nel 2009 il delitto di stalking e nel 2013, la prima legge sul femminicidio (l. n. 219/2013), inasprendo le pene per tutta una serie di reati (stalking, violenza sessuale, maltrattamenti) e apportando una serie di modifiche al codice di procedura penale anche in tema di misure cautelari (come l’applicazione del braccialetto elettronico al soggetto sottoposto alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare, art. 282 bis c.p.p.).

Nel 2017 è stato predisposto il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il periodo 2017-2020 in cui si individua come obiettivo l’introduzione di un apposito sistema di prevenzione diretto al rafforzamento del ruolo strategico del sistema di formazione e istruzione, nonché la sensibilizzazione dei mass media  sul ruolo degli stereotipi e del sessismo.

Ecco che si sposta il punto di riferimento da una mera introduzione di nuovi reati ed inasprimento delle pene, ad una logica basata sulla prevenzione e mutamento della cultura di base.

Recentemente è stato introdotto il cosiddetto “Codice Rosso” (D.D.L. 1200/2019) che velocizza le indagini e i procedimenti giudiziari per i reati di violenza domestica e di genere, si prevede un ulteriore inasprimento delle pene rispetto ai reati di maltrattamenti e stalking e in questo caso anche di omicidio (punito con l’ergastolo se aggravato dalle relazione personali), introduce il reato di revenge porn (punisce chi realizza e diffonde immagini o video privati, sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone rappresentate per danneggiarle a scopo di vendetta o di rivalsa personale).

Prevede inoltre l’attivazione di appositi corsi di formazione per il personale della Polizia di Stato, per i Carabinieri e Polizia penitenziaria in relazione alla prevenzione e perseguimento dei suddetti reati.

Come si nota nei diversi interventi normativi succedutisi nel corso del tempo, non è mai stato introdotto il reato di “femminicidio” inteso come omicidio di un soggetto appartenente al genere femminile.

E’ opportuno chiarire che tale condotta non può essere considerata semplicemente come “omicidio passionale” o frutto di un semplice momento d’ira incontrollata, infatti lo stesso è il risultato di un insieme di atteggiamenti, pratiche sociali o condotte violente misogine o sessiste motivate da un senso di superiorità dell’uomo sulla donna, per questo legittimato a possederla. Tale insieme di condotte finisce poi per degenerare nell’evento più grave, ossia nella morte della persona.

Si spiegano così i diversi interventi sociali diretti ad assistere le donne vittime di abusi e a spingerle a denunciare e ad allontanarsi da un compagno, ragazzo, marito, collega, amico incapace di rispettarla come essere umano.

Utile in tal senso è la lettura dell’ opera di Alessandra  Puancz, “Dire  di  no  alla  violenza  domestica  –  Manuale  per  le  donne  che  vogliono sconfiggere il maltrattamento psicologico”, pubblicato nel 2016 (Franco Angeli/Self-help57), volta ad aiutare la donna a comprendere la situazione d maltrattamento psicologico che sta vivendo, accompagnandola nella comprensione di tutte quelle dinamiche che in un primo acchito sembrano essere riconducibili a semplici litigi.

Tornando alla questione della mancata introduzione di uno specifico reato, previsto invece in altri ordinamenti (come ad esempio nel Guatemala), la spiegazione si rinviene sulla difficoltà di introdurre un reato di omicidio basato sulla sola differenza di sesso. Infatti, una tale soluzione non farebbe altro che rafforzare gli stereotipi e porre problemi di compatibilità con il principio di uguaglianza, assumendo la donna come un bene giuridico a sé stante meritevole di protezione particolare per il fatto di appartenere al genere femminile.

Inoltre, come detto, il femminicidio non è un unico fenomeno ma è il prodotto di una serie di situazioni di cui si deve necessariamente tener conto.

Ecco che si ricerca un’altra strada per contrastare la violenza di genere ossia rafforzare il sistema della prevenzione rispetto a quello della repressione, mobilitando le coscienza e superando in maniera definitiva un modo di pensare ancorato al passato.


Fonti: Violenza di genere e Femminicidio, Antonella Merli, Diritto Penale Contemporaneo, n. 1/2015; Femminicidio, di genere si muore, http://www.rai.it/dl/tgr/articolo/ContentItem-80494956-cf85-4230-8c8a-95f284cf7df3.html; Violenza contro le donne, Camera dei deputati, Servizio studi, XVIII legislatura, 4 marzo 2019; Violenza di genere: parliamone! Dagli stereotipi alle strategie di contrasto sociale, Annalisa Ditta, Tesi di Laurea, Dipartimento di filosofia e beni culturali, Università Ca’Foscari Venezia, 2017/2018

[1] Art. 1 – Declaration on the elimination of violence againts women, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 20/12/1993, New York
[2] Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 55.

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