La violenza di genere: una lenta battaglia per la non violenza

La violenza di genere: una lenta battaglia per la non violenza

Un approfondimento sulla violenza nei confronti delle donne e sulla lenta diffusione della cultura della non violenza

 

Sommario: 1. Introduzione – 2. L’evoluzione della violenza di genere nel nostro ordinamento giuridico – 3. Le misure normative a livello europeo – 4. La violenza di genere e le sue varie estrinsecazioni nel diritto penale italiano – 5. La violenza nei confronti delle donne durante l’emergenza sanitaria da Covid-19 – 6. Nuove frontiere di tutela: il cat-calling 

1. Introduzione

L’estrema violenza da cui è permeata la vita quotidiana ha condotto a movimenti che, negli anni, hanno coniato un principio del tutto nuovo nel panorama mondiale: il principio della non violenza. Formalmente teorizzato negli anni Venti del secolo scorso, dal Mahatma Gandhi, esso ebbe un peso notevole. All’esempio di Gandhi, difatti, si sono richiamati esplicitamente diversi movimenti pacifisti, ecologisti e per i diritti civili, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. La giornata del 2 ottobre, data di nascita di Gandhi, è stata, peraltro, scelta come Giornata Internazionale della non violenza.

Il movimento della non violenza consiste in una opposizione forte al potere, soprattutto politico, portata avanti nel rifiuto di ogni atto di violenza, nella disobbedienza a determinati ordini (obiezione di coscienza) o altre norme e codici, nonchè nelle forme del boicottaggio e della non-collaborazione (resistenza nonviolenta).

Il concetto di violenza permea, dunque, la cultura di tutti noi e si presta a molteplici applicazioni nel campo del diritto. In primo luogo, ad esempio, nell’ambito del diritto civile la violenza viene descritta come una forma di coazione della volontà che impedisce la libera di determinazione; in altri termini  la volontà si forma dietro una minaccia che la altera portando il soggetto a concludere negozi giuridici che, in assenza di tale minaccia, egli non avrebbe concluso o avrebbe compiuto in modo diverso. Pertanto la violenza costituisce causa di annullabilità del negozio giuridico.

In diritto penale, d’altro canto, essa viene intesa quale azione o comportamento compiuto tramite utilizzo della forza fisica (con o senza l’impiego di armi od altri mezzi d’offesa), che comprende, nella accezione più ampia del termine, le sevizie morali, le minacce ed i ricatti; tale comportamento, o atto, è mirato ad obbligare altri ad agire o a cedere, contro la propria volontà, tramite la costrizione e l’oppressione. Il concetto di violenza in diritto penale presenta più estrinsecazioni: dalla violenza privata alla violenza sessuale, sino alla violenza domestica e agli atti persecutori; espressioni, peraltro, della sempre più diffusa violenza di genere.

Le Nazioni Unite definiscono la violenza di genere come fenomeno che comprende “ogni atto legato alla differenza di sesso che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale, psicologico o una sofferenza della donna, compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o l’arbitraria privazione della libertà sia nella vita pubblica che nella vita privata”

Negli ultimi decenni, si è assistito ad un forte cambiamento sociale cui ha fatto seguito una evoluzione della tutela nei confronti della violenza generalmente intesa, con specifica attenzione alla violenza di genere. Difatti mentre in passato veniva apertamente giustificavo il potere dell’uomo sulla donna, ad oggi si assiste ad un cambiamento radicale dovuto soprattutto al fatto che la violenza di genere ha raggiunto livelli allarmanti in qualunque modo essa si manifesti.

Il nostro ordinamento, dal canto suo, è stato a lungo permeato dalla violenza di genere: basti pensare che fino al 1956 era ancora in vita il c.d. jus corrigendi, ossia il potere correttivo del pater familias che comprendeva anche la forza, mentre, ad esempio, è solo nel 1996 che la violenza sessuale è stata inserita tra i reati contro la persona.

Nonostante la attuale crescente sensibilità alla gravità del fenomeno e nonostante la mobilitazione di associazioni per contrastare ogni forma di violenza di genere, la cultura della violenza sopravvive alle diverse azioni di contrasto e continua ad alimentarsi a causa di luoghi comuni.

Da ultimo, la giornata del 25 novembre è stata, infine, scelta come Giornata internazionale dedicata in particolare proprio alla violenza sulle donne, un fenomeno che è esploso in questi ultimi anni, ma che ha radici culturali profonde.

2. L’evoluzione della violenza di genere nel nostro ordinamento giuridico

Il tema della violenza è purtroppo parte integrante della nostra cronaca quotidiana: si sente troppo spesso palare di violenza sulle donne,  sui bambini, sui migranti, sui disabili, ovvero sugli anziani, categorie che, nell’immaginario collettivo, sono considerate fragili e manipolabili. Viene naturale chiedersi come possa tutt’ora sopravvivere una mentalità che configura il rapporto di coppia in termini di controllo. Basti pensare che le inversioni di rotta del nostro ordinamento (e cultura), in tema di violenza sulle donne, sono intervenute ben dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione e, in particolare dell’art. 29 che proclama la “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Ebbene, occorre considerare l’antico retaggio della storia e di certe radicate tradizioni che per lungo tempo sono state considerate come un valore positivo: precetti religiosi, valori, tradizioni e persino leggi che consideravano la violenza domestica un fatto naturale, giustificabile e socialmente accettato. Ad una concezione culturale di rapporto di coppia basato sulla supremazia dell’uomo, in cui la famiglia rappresenta il primo luogo di organizzazione del potere maschile sulle donne, si sono ispirate alcune norme penali del Codice Rocco, il Codice Penale italiano del 1930 (e ancor prima del Codice Penale Zanardelli del 1889). Tale complesso di norme, rimaste in vigore fino a pochi decenni addietro, legittimava un sistema sociale fortemente discriminatorio nei confronti delle donne, confermando le diseguaglianze tra i generi presenti negli altri rami dell’ordinamento e nella società. Nello specifico:

  • solo nel 1956 la Corte di Cassazione ha deciso di eliminare lo ius corrigendi che l’art. 571 c.p. riconosceva al marito nei confronti della moglie e dei figli, ossia il potere educativo e correttivo del pater familias che comprendeva anche la coazione fisica;

  • solo nel 1969 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 c.p. che puniva l’adulterio, unicamente commesso dalla donna;

  • solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, il nostro ordinamento giuridico ha sostituito il concetto di famiglia strutturata gerarchicamente con un nuovo modello di famiglia paritaria, in cui i coniugi hanno eguali diritti e doveri reciproci;

  • solo nel 1981 la legge n. 442 ha abrogato la rilevanza penale della causa d’onore: il Codice puniva la commissione di un delitto di omicidio o lesioni personali perpetrato a danno del coniuge, figlia o sorella (o della persona con essi sorpresa), perpetrato al fine di salvaguardare l’onore proprio e della propria famiglia a causa di una illegittima relazione carnale (art. 587 c.p.);

  • sempre dopo tale legge del 1981 non avrebbe trovato più spazio nel nostro ordinamento l’istituto del matrimonio riparatore (art. 544 c.p.), che prevedeva l’estinzione del reato di violenza carnale nel caso in cui il soggetto resosi colpevole nei confronti di una donna minorenne accondiscendesse a sposarla, salvando così l’onore della famiglia;

  • solo nel 1996 è stata approvata la legge n. 66 che dettava nuove “Norme sulla violenza sessuale” e trasferiva queste tipologie di reato fra i delitti contro la persona, mentre il precedente Codice Rocco li aveva relegati nella categoria dei reati contro la moralità pubblica e il buon costume,

Oggi l’immaginario patriarcale non è più presente nelle leggi, nei codici e nella giurisprudenza, sebbene purtroppo continui a sopravvivere nei comportamenti. La violenza, considerata nella generalità delle sue estrinsecazioni, costituisce una gravissima violazione dei diritti fondamentali: quelli alla vita, alla libertà, alla sicurezza, alla dignità, all’integrità fisica e mentale, nonchè, nell’accezione di violenza di genere, all’uguaglianza tra i sessi. Vero è che a partire dagli anni settanta del secolo scorso si è costituito un vero e proprio movimento contro la violenza di genere, che tuttavia ha trovato solo da qualche anno una risposta legislativa efficace. Ben vengano gli interventi legislativi, da quelli di carattere strettamente penale, intesi soprattutto a rafforzare l’effettività delle sanzioni, a specifiche leggi anti-violenza; tuttavia si tratta un problema complesso a cui si devono contrapporre interventi di vario tipo, non limitati unicamente all’inasprimento delle pene a carico dell’autore della violenza. E fuori di dubbio che la repressione di questo tipo di comportamenti illeciti sia necessaria, ma sfortunatamente interviene dopo che la violenza ha avuto luogo e deve, pertanto, essere affiancata da altre misure che abbiano la capacità di prevenire la violenza prima che si manifesti.

3. Le misure normative a livello europeo

Con la locuzione “violenza sulla donna” si intendono tutte le forme di violenza di genere, e più dettagliatamente quelle previste nel capitolo V della Convenzione di Istanbul, ossia la violenza psicologica, gli atti persecutori, generalmente definiti col termine stalking, le violenze fisiche, la violenza sessuale, ma anche il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzati. La violenza di genere deve essere intesa quale stretta conseguenza della discriminazione basata sul sesso e violazione dei diritti umani fondamentali. La Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) condanna ogni forma di violenza domestica e di genere, fornendo altresì, agli Stati, strumenti di prevenzione e tutela e di contrasto alla discriminazione. È il primo trattato giuridicamente vincolante in Europa contro le violenze sulla donna, specificamente diretto alla prevenzione, protezione delle vittime e criminalizzazione dei responsabili. Esso pone l’accento su tre punti fondamentali: il principio della parità fra donne e uomini, da introdurre nelle Costituzioni degli Stati aderenti che non lo prevedono e nelle disposizioni di legge, il divieto di discriminazione nei confronti delle donne, e conseguente ricorso a sanzioni nel caso di trasgressioni, ed il diritto della donna di vivere una vita libera da violenze fisiche e morali, sia nella sfera pubblica che in quella privata. L’articolo 1 della Convenzione stabilisce, fra gli obiettivi: la protezione delle donne da ogni forma di sopruso tramite prevenzione e perseguimento della violenza domestica, il contributo ad eliminare la discriminazione di genere, la predisposizione di un quadro globale di politiche e la promozione della cooperazione internazionale al fine di ottenere tale risultato. Il campo di applicazione riguarda tutte le forme di violenza contro le donna: l’articolo 3 definisce come violenza nei confronti della donna ogni discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, mentre sono definiti come violenza domestica gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Ad oggi solo alcuni Stati dell’UE, fra cui l’Italia, hanno ratificato la Convenzione, mentre altri non hanno proceduto alla ratifica contestando, fra le altre cose, che l’Unione Europea possa avere competenza in tale materia; a ben vedere si tratta, difatti, di un accordo comprendente materie che rientrano nel quadro delle competenze dell’UE, ma anche materie in cui hanno competenza esclusiva gli Stati membri.

Nella difesa della donna contro la violenza è di primaria importanza anche la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, in quanto dotata di un meccanismo giurisdizionale (la Corte EDU, di Strasburgo) che permette una effettiva tutela dei diritti. L’articolo 2 CEDU stabilisce che “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge” mentre l’articolo 3 afferma che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. L’articolo 14 vieta, più specificamente, ogni forma di discriminazione “in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

L’Unione europea si fonda su una serie di valori ed obiettivi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.  La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce, all’articolo 1, l’inviolabilità della dignità umana, all’articolo 2 il diritto alla vita, all’articolo 4 il divieto a trattamenti inumani, e all’articolo 21 il diritto alla non discriminazione fondata sul genere; infine include all’articolo 23 il principio di parità tra uomini e donne.

Il principio della parità tra uomini e donne è sancito, inoltre, dai principali trattati europei. L’articolo 8 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) prevede che “nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne”, mentre l’articolo 10 afferma che “l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso”. L’articolo 19 consente, poi, l’adozione di provvedimenti legislativi atti a combattere tutte le forme di discriminazione, incluse quelle fondate sul sesso: pur non avendo una portata precettiva, giacché non introduce specifici divieti di discriminazione, costituisce  una base giuridica importante per l’adozione di misure di contrasto alla disparità di genere. L’articolo 157 TFUE promuove, infine, il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e impiego.

Di estrema importanza risulta, poi, lo strumento legislativo delle Direttive. La Direttiva 2011/99/UE sull’ordine di protezione europeo, stabilisce un meccanismo per il reciproco riconoscimento delle misure di protezione in materia penale tra gli Stati membri. La Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e Consiglio ha istituito le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, con la libertà per gli Stati di ampliare i diritti in essa previsti per assicurare maggiori tutele; la Direttiva 2012/29/UE stabilisce inoltre specifici diritti di protezione della vittima, fra cui quello di audizione, informazione, assistenza, rimborso spese, tutela della vita privata.

La normativa europea a tutela della violenza di genere mostra, tuttavia, alcuni limiti, in quanto manca a livello dell’Unione un quadro normativo di riferimento unico, sul quale basare una strategia comune contro la violenza nei confronti delle donne.

4. La violenza di genere e le sue varie estrinsecazioni nel diritto penale italiano

La violenza di genere matura nelle più diversificate forme, prevalentemente nel contesto domestico e all’interno di relazioni affettive, e si presta a essere indagata in un’ottica plurima, che consente di avere una visione d’insieme del fenomeno. Il Decreto Legge del 14 agosto 2013, n. 93, convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119, ha introdotto nel settore del diritto penale, sostanziale e processuale, una serie di misure, preventive e repressive, per combattere la violenza per motivi di genere. La violenza di genere racchiude al suo interno una serie di fatti di reato di diverso tipo (quali omicidio, maltrattamenti, stalking, ecc.), accomunati dal contesto e dal soggetto passivo cui sono diretti. L’iniziativa governativa, oggetto di una particolare attenzione mediatica, è stata motivata dall’esigenza di rispondere all’allarme pubblico circa il tema della violenza maschile sulle donne, tramite alcune disposizioni in relazione a  categorie di reati che sicuramente costituiscono la cornice del fenomeno.

Già prima dell’emanazione del citato decreto legge, l’Italia, nel giugno 2013, alla luce e in considerazione dello standard internazionale di tutela in materia di violenza di genere, aveva ratificato la Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica, il cui aspetto più innovativo è senz’altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani e uno dei principali ostacoli al conseguimento della parità di genere e dell’emancipazione femminile.

– IL FEMMINICIDIO

La legge n. 119 del 2013 è detta anche legge sul femminicidio, sebbene non abbia introdotto nè una fattispecie ad hoc di femminicidio, cioè un reato di omicidio che faccia riferimento all’uomo come autore e alla donna come vittima e al contesto o al movente di genere, e quindi distinto dagli omicidi di donne con motivazioni diverse, né ha considerato il femminicidio come circostanza aggravante, prevedendo ad esempio un aumento di pena per l’omicidio se perpetrato da un uomo in danno di una donna nell’ambito di una relazione coniugale o semplicemente affettiva.

Il femminicidio è un’espressione che descrive il fenomeno ponendo in risalto la posizione o il ruolo dell’autore e che viene utilizzata per esprimere la violenza esercitata dall’uomo sulla donna con un movente di genere (cioè non come violenza occasionalmente diretta nei confronti della vittima) per ragioni contingenti, per casuali motivi passionali, per reazione impulsiva o come esito di devianze sociali, e tramite comportamenti strutturali e sistemici. Il termine, utilizzato al posto di quello letteralmente e politicamente neutro di omicidio, viene introdotto dalla letteratura criminologica e sociologica femminista per dare un nome a un fenomeno, altrimenti senza nome, e un fondamento teorico a un problema spesso disconosciuto o del tutto ignorato, anche a livello istituzionale. Ovviamente la nozione abbraccia un insieme più ampio di condotte rispetto a quella di uxoricidio (composto dal latino uxor, moglie, e da un derivato di càedere, uccidere, letteralmente omicidio del coniuge di sesso femminile, che allude all’uccisione di una donna in quanto moglie e che viene esteso anche al marito, cioè all’uccisione del coniuge in generale), in quanto la fattispecie di uxoricidio è circoscritta all’ambito di protezione della famiglia mentre quella di femminicidio ha un ambito di applicazione più ampio perché mira a proteggere la donna all’interno di qualsiasi rapporto affettivo, anche non formalizzato, dunque indipendentemente da qualsiasi vincolo familiare.

In tema occorre aggiungere che il legislatore, per l’effetto della legge 23 aprile 2009, n. 38, a cui si è aggiunta la recente introduzione della legge 1 ottobre 2012, n.172, ha inserito nel codice penale alcune forme aggravate di omicidio che possono considerarsi assimilabili al femminicidio, e sebbene realizzabili anche da una donna in danno di un uomo, esprimono, in qualche misura, la volontà di riconoscimento giuridico del fenomeno. Dunque, le nuove fattispecie di omicidio aggravato inserite nel Codice prima della cosiddetta legge sul femminicidio del 2013, e punite con l’ergastolo, si configurano in cinque ipotesi; le prime quattro ipotesi sono codificate dal disposto dell’art. 576, comma 1, n. 5, c.p, e sono:

1) l’omicidio connesso al delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi,

2) l’omicidio commesso in occasione della perpetrazione di uno dei delitti contro la libertà sessuale, violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, violenza sessuale di gruppo,

3) l’omicidio realizzato da un soggetto che in precedenza abbia commesso il reato di atti persecutori (stalking) nei confronti della stessa vittima,

4) l’omicidio commesso in occasione della perpetrazione del delitto di prostituzione minorile o di pornografia minorile;

Una quinta forma di omicidio per motivi di genere può inoltre configurarsi in relazione all’aggravante comune prevista dall’art. 61, n. 11, c.p. (“l’avere commesso il fatto con abuso… di relazioni domestiche”):

5) nell’ipotesi in cui l’omicidio sia commesso da un uomo in danno di una donna o viceversa, approfittando del rapporto sentimentale con la vittima.

– LA VIOLENZA DOMESTICA

Con la legge 19 luglio 2019, n. 69, sono state apportate “modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere“. La violenza domestica è il comportamento abusante di uno o entrambi i compagni in una relazione intima di coppia, quali il matrimonio e la coabitazione, nei confronti dell’altra parte della relazione affettiva, ovvero la violenza nei confronti dei figli, o più in generale la violenza all’interno della famiglia. Dunque, con l’espressione “violenza domestica” si ricomprendono molteplici tipi di violenza (sessuale, economica, ecc.), che non colpiscono solo le donne ma anche altri soggetti (ad esempio bambini ed anziani, rientranti nelle c.d. fasce deboli della popolazione, ai quali si applicano le medesime norme di tutela), e designa la violenza nella sfera familiare e, più in generale, nella sfera affettiva, quindi non solo all’interno della famiglia in senso stretto. La violenza domestica ha rappresentato a lungo un tabù socio-culturale, che ha fatto sì che molti reati restassero impuniti, e rimane tutt’ora un fenomeno difficile da accertare e perseguire, in particolare per la riluttanza delle vittime a denunciare. Ad ogni modo essa si caratterizza per l’esistenza di una relazione (familiare appunto, o affettiva) tra autore del reato e soggetto passivo, cioè per il fatto che l’autore della violenza è il partner della vittima, o altro membro del gruppo familiare, indipendentemente da dove la violenza si manifesta e dalla forma che essa assume. Il concetto di violenza domestica comprende, in aggiunta alla violenza fisica, sessuale o psicologica, la violenza economica, una forma più sottile di violenza, che consiste nel rendere la donna economicamente dipendente dal coniuge o partner, e che racchiude in sé ogni forma di privazione e controllo che limiti la sua indipendenza economica.

L’articolo 572 del Codice Penale punisce i “Maltrattamenti contro familiari e conviventi“, ossia le condotte reiterate nel tempo, che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti, fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di una persona della famiglia, di un convivente, o di una persona che sia sottoposta all’autorità del soggetto agente o sia a lui affidata. Modificata dall’art. 4, della l. 1 ottobre 2012, n. 172, in precedenza tale disposizione recitava: “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli“. Il concetto di persona facente parte della famiglia, che tradizionalmente veniva circoscritto ai coniugi, consangunei, affini, adottati e adottanti, viene ad oggi interpretato in maniera estensiva: vi rientrano, nello specifico, tutti i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, nonché i collaboratori domestici, a patto che vi sia convivenza (requisito importante che comporta l’ammissibilità della fattispecie in esame anche nei confronti del mero convivente more uxorio).

Il fenomeno può manifestarsi in una serie di forme differenti. Analizziamo le due più frequenti e generiche:

    • La violenza fisica: include una ampia categoria di atti che spazia dalle percosse all’uccisione, e comprende attacchi mediante un’arma, immobilizzazione o impedimenti al movimento e mancato soccorso. Una forma particolarmente invalidante di violenza fisica è costituita dagli attacchi con l’acido.

    • La violenza psicologica (violenza emotiva): include atti come l’umiliazione, l’intimidazione, le minacce, gli insulti, il danneggiamento; essi possono essere indirizzati verso l’individuo stesso o verso gli amici di quest’ultimo, la sua famiglia, i suoi bambini, le sue proprietà. Una delle forme più note di violenza psicologica è denominata gaslighting, nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione.

– LA VIOLENZA SESSUALE

Nella riformulazione della legge simbolo, la n. 66 del 1996 ,l’art. 609-bis c.p. recita: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minor gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. L’art. 609-bis c.p. ha mantenuto la scelta, propria della normativa precedente, di imperniare la condotta incriminata sugli elementi della violenza, fisica o psichica, della minaccia, della induzione o dell’ abuso d’autorità quali mezzi tipici di coercizione al rapporto sessuale; da questo punto di vista la riforma non può che considerarsi incompleta, per non dire fallimentare, se solo si considera che altri interessi individuali, quale ad esempio l’inviolabilità del domicilio, sono protetti sulla base del semplice dissenso. Una ulteriore questione in tema concerne l’indeterminatezza della nozione di atti sessuali, che ha di frequente alimentato sospetti di illegittimità costituzionale della norma sotto il profilo della violazione del principio fondamentale di tassatività, o sufficiente determinatezza, della fattispecie penale. Secondo la visione della dottrina penalistica, per individuare la corretta nozione di atto sessuale occorre far riferimento non solo alle zone genitali, ma anche tutte le altre parti del corpo che secondo la scienza medica, antropologica e psicologica sono solitamente considerate come zone erogene.

L’ipotesi centrale di violenza sessuale è rappresentata dalla costrizione mediante violenza fisica.  La norma contempla, poi, l’ipotesi di violenza mediante minaccia o violenza morale, ossia la minaccia di un male futuro e ingiusto alla vittima o ad altri. La violenza o minaccia non deve persistere per tutto il tempo della condotta, dal momento che può anche essere solo iniziale. Vi sono, infine, le ipotesi dell’abuso d’autorità e quella, per vero molto poco frequente, della violenza mediante induzione (ad esempio tramite la sostituzione di persona). Sul concetto di abuso di autorità la dottrina è fortemente divisa ma è fuori di dubbio che essa agisca nell’ambito dei rapporti interpersonali, caratterizzati da una posizione di supremazia di un soggetto forte nei confronti di un soggetto debole, dove il soggetto forte abusa della propria autorità per costringere il soggetto debole a compiere o subire atti sessuali.

Inoltre si vuole operare un cenno alla rafforzata tutela nei confronti dei minori: gli artt. 609-ter (circostanze aggravanti) e 609-quater e quinquies (atti sessuali con minorenne e corruzione di minorenne), si allinea all’opinione condivisa secondo cui  vi sono minori possibilità di difesa o di consapevole assenso qualora l’aggressore sia persona a vario titolo provvista di autorità sulla parte lesa, minorenne. In tali casi, viene negata ogni efficacia al consenso del soggetto passivo, e l’età diventa dunque essenziale: tanto minore è l’età tanto maggiore sarà la gravità del reato.

La vera novità della novella del 1996 è la disciplina autonoma della violenza sessuale di gruppo: ex art. 609-octies la violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis. Sono considerati compartecipi non solo coloro che pongono in essere atti sessuali, ma anche quelli che sostengano od incoraggino tale condotta. Il delitto di violenza sessuale di gruppo persegue un obiettivo politico-criminale: evidenziare con forza la carica particolare di disvalore etico-sociale e la particolare forma di aggressività che connota questi fatti gravissimi.

Un’ultima questione centrale, frutto di ampio dibattito, concerne il regime di procedibilità del reato di violenza sessuale: l’art. 609septies prevede, alla stregua nel regime previgente, la procedibilità a querela della persona offesa, con un termine più lungo però rispetto ai tradizionali tre mesi: il termine è fino a sei mesi dalla commissione del fatto, al fine di privilegiare la volontà della vittima subordinando l’interesse pubblico alla repressione all’interesse concreto della vittima. Tuttavia sono stati mantenuti alcuni casi di procedibilità d’ufficio. Inoltre la querela è irrevocabile: infatti, l’ulteriore esposizione della donna a minacce e ricatti potrebbe nascere dalla possibile revocabilità della stessa.

– GLI ATTI PERSECUTORI (LO STALKING)

Lo stalking, che colpisce nell’80% dei casi soggetti femminili spesso ad opera di un partner (o di un ex partner) e che entra a pieno diritto nel concetto di violenza di genere, è fenomeno profilato nella prassi già da tempo. Ciò nonostante la legge italiana, è di formazione assai recente.
La legge 23 aprile 2009 n. 38, di conversione, con modificazioni, del decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, ha introdotto nel nostro codice penale il reato di stalking (che significa letteralmente “fare la posta”), denominato “Atti persecutori”, dalla rubrica dell’art. 612 bis c.p. La norma punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Elemento costitutivo, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 612-bis c.p., è innanzitutto, la reiterazione delle condotte persecutorie, idonee, alternativamente, a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura, a ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita. Secondo la Giurisprudenza per la configurabilità del reato sono sufficienti anche due sole condotte di minaccia o molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (si veda, ad esempio, Cass. n. 45648/2013 e Cass. n. 6417/2010).Quanto al contenuto di tali condotte, a titolo esemplificativo, si sottolinea come la giurisprudenza più recente abbia considerato atti persecutori, idonei ad integrare il delitto di stalking, anche comportamenti che non necessitano della presenza fisica dello stalker, quali l’invio di lettere, sms, e-mail e messaggi tramite internet, nonché la pubblicazione di post o video a contenuto ingiurioso, sessuale o minaccioso sui social network, oltre al danneggiamento dell’auto della vittima. Costituiscono altresì esempi di stalking le aggressioni verbali effettuate alla presenza di testimoni nonchè gli apprezzamenti e gli sguardi insistenti e minacciosi; infine, secondo le pronunce più prossime, alle telefonate può essere sostituito l’invio di messaggi tramite applicazioni di messaggistica istantanea.
La reiterazione delle condotte, come accennato, non è sufficiente da sola all’integrazione del reato, occorrendo che le medesime siano idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice:

  1. un perdurante e grave stato di ansia o di paura,

  2. un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva,

  3. una costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita.

Da ultimo si segnala che con la legge n. 103/2017, il Codice di Procedure Penale è stato  corredato di una nuova previsione, all’articolo 163-ter, che prevede l’estinzione del reato per condotte riparatorie. Tuttavia, tale disposizione ha subito destato forti critiche circa la sua operatività in riferimento a reati considerati particolarmente odiosi, quale lo stalking, tanto che il legislatore ha previsto l’esclusione dell’applicabilità dell’articolo 163-ter c.p.p. ad ogni manifestazione del reato di atti persecutori.

– LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI

L’articolo 583 bis c.p. è stato aggiunto al Codice Penale dalla Legge 9 gennaio 2006, n. 7. La norma punisce le condotte alternative di mutilazione e lesione (quest’ultima qualora determini una malattia nel corpo o nella mente) di organi genitali femminili. Tale delitto ricomprende tutte le mutilazioni tipiche richiamate dalla norma stessa (escissione, infibulazione e clitoridectomia), che rievoca la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; per espressa previsione rimane estranea al reato la condotta di circoncisione maschile, l’evirazione ed altre pratiche dirette agli organi maschili, potendosi comunque punire ai sensi dell’art. 582 c.p., “Lesioni personali“. Le due condotte alternative previste dall’art. 583 bis riguardano, nel caso delle lesioni, il danneggiamento degli organi genitali interni, mentre la mutilazione di cui al primo comma è espressamente riferita alle tre pratiche specifiche di escissione, infibulazione e clitoridectomia. Trattasi di pratiche cruente con conseguenze dannose enormi, sia a breve che a lungo termine, diffuse prevalentemente nell’Africa Subsahariana, ma che l’immigrazione ha fatto conoscere anche in Europa e in Italia. La fattispecie di cui al presente articolo è stata introdotta nel nostro ordinamento, a tutela del bene giuridico della salute ed integrità fisica delle donne, al fine di porre un freno a pratiche presenti in determinate culture e considerate abiette nel nostro legislatore, nell’ottica del ripudio della teoria della scriminante culturale. Tramite la scriminante culturale si tendeva, soprattutto in passato, a lasciare impunito qualsiasi comportamento illecito che venisse, però, ricondotto al fattore culturale e religioso, a tutela del diritto di manifestare la propria religione o credo.

Secondo una stima dell’OMS sono dai 100 ai 140 milioni le donne che, nel mondo, sono state sottoposte a tali pratiche e che le bambine sono, ogni anno, circa 3 milioni.

– L’ABORTO PROCURATO

La pratica aborto, fino agli anni ’70 illegale in Italia e perseguibile penalmente a norma delle disposizioni contenute nel titolo X del libro II del Codice Penale, ha subito una sorte normativa difficoltosa e tutt’ora sembra necessitare di ulteriori riforme. In primo luogo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27 del 1975, dopo aver riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela del concepito nell’art. 2 Cost. consentiva, per la prima volta in Italia, la soppressione del feto quando la gravidanza implicasse danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della donna. La Consulta sanciva così, implicitamente, il principio cardine della successiva e molto nota legge n. 194/78, principio della prevalenza della vita della donna su quella del feto. Il filo conduttore di questa norma sono il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione, assicurato tramite la concessione del diritto di poter interrompere volontariamente la gravidanza in una struttura pubblica, in presenza di determinati presupposti. Recentemente, il Decreto Legislativo  n. 21 del 2018 ha abrogato due norme contenute nella Legge 194/78, ossia l’art. 17 e l’art. 18, ed ha contestualmente introdotto nel Codice Penale l’art. 593 bis e l’art. 593 ter: il primo rubricato “Interruzione colposa di gravidanza”, il secondo “Interruzione di gravidanza non consensuale”; a ben vedere il decreto si è limitato a trasferire le due preesistenti fattispecie di reato dalla legge speciale al Codice Penale, senza variarne il contenuto. Analizziamo le norme in questione, poste a tutela della libera determinazione della donna a portare a termine la gravidanza:

Art. 593 bis c.p.: la norma in esame disciplina una autonoma fattispecie colposa di reato per chi cagioni per colpa l’interruzione della gravidanza ovvero la prematura nascita del feto.

Art. 593 ter c.p.: il primo comma prevede una fattispecie di reato che punisce chi provochi un aborto senza il consenso della donna. Nei commi successivi al primo è tutelata anche la salute della donna stessa, oltre alla salute del feto: la norma punisce chiunque provochi l’interruzione della gravidanza, o l’acceleramento del parto, con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.

La disposizione di cui al secondo comma dell’articolo 593 ter abroga, dunque, implicitamente la fattispecie di aborto preterintenzionale di cui all’art. 18 comma 2, della Legge n. 194/1978. L’articolo sanzionava la condotta di chiunque cagionasse l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. La presente norma è stata abrogata almeno per quanto riguarda le lesioni, mentre rimane in vigore qualora l’interruzione preterintenzionale di gravidanza sia causata da percosse.

5. La violenza nei confronti delle donne durante l’emergenza sanitaria da Covid-19

Secondo uno studio dell’Onu nei primi tre mesi di confinamento, aggressioni e femminicidi sono incrementati del 20% in tutti gli Stati membri. I confinamenti e le quarantene che si susseguono in tutti i paesi, essenziali per ridurre il Covid-19, possono infatti intrappolare le donne con partner violenti.

I tempi della giustizia, già lunghi, hanno subito un ulteriore arresto nel periodo della pandemia; il fermo della giustizia colpisce larghissima parte degli Stati e ciò rappresenta un’ulteriore difficoltà che le donne vittime di violenza si trovano ad affrontare, soprattutto in un periodo di distanziamento fisico. Appare di primaria importanza, infatti, che le donne ottengano in tempi brevi e con modalità semplici un aiuto.

Sembra, tuttavia, che un segnale attivo e positivo provenga dalle associazioni che si occupano di fornire aiuto ed assistenza alle donne vittime di violenza; queste associazioni, fin dall’inizio della pandemia, si sono messe in contatto tra loro, formando una rete informale, grazie agli strumenti tecnologici. Questa rete informale ha permesso di creare un contatto tra le realtà diverse, ma anche di scambiarsi informazioni e consigli pratici sul come operare. Inoltre queste associazioni hanno un ruolo fondamentale, poiché possono rappresentare un ponte tra le donne e le istituzioni.

6. Nuove frontiere di tutela: il cat-calling 

La giovanissima Linda Guerrini, insieme ad alcune amiche, ha recentemente lanciato la petizione “Rendere il catcalling un reato” e la campagna “WannaBeSafe Italia”. L’obiettivo è quello di vedere una proposta di legge per rendere il cosiddetto cat-calling una fattispecie di reato. Difatti il semplice camminare per strada può  diventare per una donna una esperienza caratterizzata da frasi volgari, a sfondo sessuale; si tratta di molestie verbali a tutti gli effetti, molestie “da strada”, che comprendono battute, frasi di scherno, commenti sessualmente espliciti, ingiurie, fino ad atti di esibizionismo o pedinamenti. Un fenomeno, questo, che non può esser minimizzato. Quando si parla di cat-calling, però, si assiste sistematicamente alla minimizzazione o negazione del fenomeno.

Ricordiamo che l’art. 660 del codice penale punisce coloro che in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, recano a taluno molestia o disturbo. Si tratta di una contravvenzione che, tuttavia è posta a tutela della tranquillità pubblica, per l’incidenza che tali comportamenti possono avere nei confronti dell’ordine pubblico, e pur trattandosi di offesa ad un interesse privato il soggetto riceve una tutela meramente riflessa.

 

 

 

 

 


  1. www.interno.gov.it 
  2. F. MANTOVANI, Diritto Penale, parte speciale I, dei delitti contro la persona, CEDAM, 2018
  3. R. GAROFOLI, Compendio di diritto penale. Parte speciale, NEL DIRITTO, 2019-2020
  4. Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali
  5. Convenzione di Instanbul
  6. TUE, TFUE
  7. Legge n. 119/2013
  8. Legge n. 38/2009
  9. Legge n. 66/1996
  10. Legge n. 69/2019

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Claudia Ruffilli

Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.

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