L’abuso del diritto ovvero l’uso distorto del diritto

L’abuso del diritto ovvero l’uso distorto del diritto

Il legislatore del codice civile non ha positivamente disciplinato il principio  dell’abuso del diritto secondo il quale un diritto non può essere esercitato per finalità che eccedono i limiti sanciti dalla legge; tuttavia ciò non ha impedito alla nostra categoria di subire una vera evoluzione interpretativa, potendo, attualmente, affermare che esso non costituisce solo un concetto di natura sociale, ma anche un istituto giuridico.

Con la formula “abuso del diritto” si pone un limes esterno all’esercizio, potenzialmente assoluto, del diritto soggettivo che, in teoria, appartiene specificatamente a chi lo esercita o lo rivendica, ma, in concreto, non comporta alcun beneficio apprezzabile e meritevole di tutela giuridica a favore di costui, mentre determina delle conseguenze dannose a carico di un altro individuo, contro cui esso viene esperito, proprio per tale esclusivo fine; sic et simpliciter.

Sappiamo che ogni diritto deve essere esercitato attraverso il bilanciamento delle esigenze che l’appartenenza ad un contesto sociale esige necessariamente per la soddisfazione di un interesse reale ed effettivo: se quindi un comportamento è solo fittiziamente conforme all’esercizio di una situazione giuridica di potere, ma in verità è confliggente con l’interesse per il conseguimento del quale il predetto potere è stato conferito dal legislatore, tale comportamento deve ritenersi privo tout court di ogni protezione giuridica o, addirittura, illecito.

Secondo l’orientamento forense prevalente il fondamento normativo dell’abuso del diritto è da rinvenire nell’art. 833 c.c., rubricato Atti di emulazione, ai sensi del quale “il proprietario non può far atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri”. E’ necessario nondimeno aggiungere che essa non è l’unica fattispecie a fungere da referente normativo alla figura in esame, altri c.d. fondements logiques sono rintracciabili negli artt. 1438 c.c. e 2598 c.c., che riguardano rispettivamente la minaccia di far valere un diritto e il divieto di concorrenza sleale.

Le suddette norme sottendono l’abuso del diritto, che si realizza ogniqualvolta il titolare di un diritto soggettivo non ne faccia un uso confacente alla funzione economico-sociale e, quindi, persegua finalità diverse rispetto a quelle per le quali l’ordinamento ne ha improntato in origine la tutela originaria.

E’ indubbio anche il collegamento dell’abuso del diritto alla clausola generale della buona fede. Alla luce del parametro di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione e dalla CEDU, la buona fede non è intesa semplicemente come un criterio per valutare la condotta delle parti, ma anche come un limite alle pretese e ai poteri delle medesime: operando, dunque, come fonte integrativa degli effetti degli atti di autonomia privata, restringendo ovvero ampliando gli obblighi reciprocamente assunti dalle parti in sede contrattuale o precontrattuale.

Il rimedio attraverso il quale è possibile neutralizzare la condotta abusiva del creditore è l’ exceptio doli generalis, di matrice romanistica, sebbene non trovi anche’essa un riconoscimento esplicito nel codice civile, è giustificabile alla luce della clausola generale di buona fede. Tale eccezione permette di stigmatizzare, nello svlgimento del processo, una pretesa fondata su un interesse meritevole solo in via astratta, ma in concreto finalizzata al raggiungimento di uno scopo ingannevole e trufaldino.

Una figura particolare di abuso di diritto è la c.d. abusiva concessione di credito, consistente nell’erogazione di finanziamenti da parte della banca ad un imprenditore di cui la stessa conosce lo stato di dissesto economico e, quindi, di insolvenza; causando dei danni ingiusti ai creditori, indotti in errore, e mantenendo artificialmente attiva un’impresa che dovrebbe uscire dal mercato.

Un altro esempio è riconducibile all’abuso della personalità giuridica, che indica un utilizzo distorto della compagine sociale; nello specifico, si determina una scissione, la c.d. fictio iuris, tra la persona giuridica e le persone fisiche che la gestiscono. In tal caso infatti lo schermo della società è il mezzo che consente ad alcuni di gestire di fatto l’attività imprenditoriale della medesima, avvalendosi prevalentemente delle c.d. teste di legno, senza sopportarne i rischi, ovvero conseguendone semplicemente i vantaggi economici.

Situazione analoga si verifica anche nell’ipotesi di socio sovrano, ossia quella in cui la partecipazione al capitale sociale sia (quasi) pienamente detenuta da un unico soggetto, mentre le partecipazioni dei soci di minoranza si configurano, in concreto, come fraudolente. La ragione di un tale abuso è in primis la gestione dei propri affari economici, beneficiando anche della responsabilità patrimoniale limitata.


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