L’abuso del diritto

L’abuso del diritto

Il concetto di abuso del diritto, tanto controverso quanto affascinante, fu elaborato per la prima volta in Francia, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ad opera della dottrina, per poi essere utilizzato dalla giurisprudenza francese in tema di proprietà. La vexata quaestio che i giudici francesi dovettero dipanare fu quella di valutare se ogni forma di esercizio del diritto soggettivo fosse da considerarsi legittima[1]. Le risultanze di questo approccio critico sulla questione portarono la giurisprudenza a guardare con favore ad un controllo contenutistico del diritto soggettivo, fino ad allora espressione di una visione assolutistica ed individualista delle prerogative personali, le quali, seppur percepite come riprovevoli dai consociati, non erano, però, sanzionabili. Il dato che emerge da queste prime osservazioni è che, nella sua genesi, la nozione di abuso del diritto, inteso come “meccanismo di autocorrezione del sistema”[2] si configurò più come uno strumento di natura morale (come criterio correttivo extra-giuridico[3]) piuttosto che normativa.

Si tratta ora di capire di cosa consti tale abuso. La difficoltà nella proiezione del concetto ut supra risiede nell’intima contraddittorietà che si presenta, prima facie, analizzando le parole che ne compongono la nomenclatura: “abuso” e “diritto”[4]. Con il sintagma “diritto soggettivo” s’intende tradizionalmente il potere attribuito dall’ordinamento a ciascun individuo per la soddisfazione dei propri interessi protetti dalla legge. Il termine “abuso”, diversamente, allude alla possibilità che dall’esercizio dei comportamenti volti a perseguire un proprio interesse possano emergere delle responsabilità. Dove c’è diritto non può esserci abuso; dove c’è abuso già non c’è più diritto, i due termini si escluderebbero a vicenda[5]. Tanto il profilo della complessità del concetto di diritto soggettivo e di quello di abuso del diritto, quanto il profilo della loro inevitabile connessione sono stati elaborati compiutamente in una recente riflessione sul tema: “si nota subito come la teoria dell’abuso abbia il grado di complessità comune a tutti i dogmi che potrebbero definirsi di secondo grado, ossia ai dogmi che diano già per conosciuto e per accettato un altro dogma di primo grado. Naturalmente non è così. I dogmi di secondo grado devono assumere come un postulato proprio quello che è oggetto di una discussione ancor viva. Questa sorta di consapevole finzione è quasi sempre indispensabile per l’economia stessa del ragionamento. Anche nel caso dell’abuso del diritto, si resterebbe paralizzati fin dall’inizio se non si procedesse per necessità argomentativa dal postulato arbitrario che diritto nella sua proiezione soggettiva sia un concetto ormai immune da negazioni radicali”[6].

Per dirla, invece, come Aurelio Gentili “l’abuso non è altro che un uso. E nessuno potrebbe dire a priori che uso: qualsiasi uso nelle circostanze appropriate può essere detto abuso. E’ chiamato abuso, e non uso, in quanto ritenuto illegittimo. Illegittimo però tutto considerato. Perché a prima vista non è che un uso formalmente legittimo, che se non lo fosse lo chiameremmo abuso ma illecito”[7].

L’indagine sul concetto di abuso del diritto, dunque, non può non tenere conto di interessi intimamente contrapposti con riferimento allo svolgimento di un determinato rapporto.

L’abuso del diritto, com’è noto, è stato oggetto di copiosa trattazione dottrinale[8] e giurisprudenziale nonostante l’assenza, nel Codice civile del 1942, di una specifica enunciazione in materia di obbligazioni e di contratti. Ciononostante per la dottrina e la giurisprudenza prevalenti si possono riscontrare numerose norme che evocano il divieto di abuso del diritto: si pensi all’art. 1175 c.c. che impone al creditore e al debitore il dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza. Il principio di buona fede e correttezza può essere rinvenuto anche in materia contrattuale per ciò che concerne le trattative (art. 1337 c.c.), l’interpretazione (art. 1366 c.c.), l’esecuzione (art. 1375 c.c.).

Con la sentenza n. 3775/1994, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che: “il dovere di correttezza (art. 1175 c.c.) …si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse proprio”. La solidarietà sociale di cui all’art.2 Cost. incardina l’intero campo del diritto privato, non limitandosi alla materia obbligatoria stricto sensu[9].

In questo senso il principio di buona fede e correttezza si pone come fonte di doveri ulteriori che vincolano le parti ancorché non risultino dal titolo del rapporto obbligatorio e, pertanto, si è giunti alla formulazione dei c.d. “doveri di protezione”; sulla base di ciò si è sviluppato il dibattito intorno alla nozione di abuso del diritto, con riferimento alla correttezza come strumento per perimetrare i limiti entro cui il creditore può pretendere ovvero rifiutare l’adempimento[10].  La teoria che tenta di costruire il divieto di abuso del diritto sul principio di correttezza e buona fede nei rapporti obbligatori e contrattuali sembrerebbe, dunque, la via da seguire[11].

Tra le più significative applicazioni giurisprudenziali del divieto di abuso del diritto che la casistica ci propone, rilevano quelle in materia bancaria, e in particolare: l’esercizio del diritto di recesso della banca da un contratto di apertura di credito; l’abusiva concessione di credito.

Per quanto concerne la prima fattispecie, il giudice di legittimità ha già avuto modo di precisare che “sia con riferimento a fattispecie di apertura di credito a tempo indeterminato, che con riferimento ad ipotesi di contratto a tempo determinato nel quale le parti abbiano previsto la deroga alla necessità della giusta causa, non può ritenersi che il modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca sia assolutamente insindacabile, perché deve pur sempre rispettarsi il fondamentale e inderogabile principio secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (articolo 1375 c.c.)”[12]. Negli anni successivi, la Suprema Corte ha inoltre evidenziato come “alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta”[13]. Non integra, invece, abuso del diritto e si considera giustificato l’esercizio del diritto di recesso della banca in “presenza di concreti segni di affievolimento della credibilità commerciale” del soggetto finanziato tale da legittimare “l’allarme degli istituti” di credito[14].

Con riferimento alla seconda ipotesi, invece, si suole indicare quei casi in cui un istituto di credito eroghi finanziamenti ad un imprenditore o società pur conoscendo lo stato di difficoltà finanziaria in cui versa il soggetto finanziato ingenerando nei terzi l’opinione erronea della solidità di quest’ultimo[15]. Per la giurisprudenza, vi è responsabilità aquiliana verso i terzi che possono perciò esercitare azione risarcitoria extra-contrattuale nei confronti della banca creditrice. La giurisprudenza esclude il curatore fallimentare dal novero dei legittimati attivi e assimila l’azione a quella di cui all’art. 2395 c.c.[16]. La condotta della banca è ritenuta abusiva poiché, anziché ispirarsi ai principi di sana e corretta gestione del credito, risulta funzionale a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore decotto[17].

Un altro ambito in cui l’abuso del diritto ha avuto “maggiore fortuna” è quello relativo alla vita ed alle attività delle società di capitali, in particolare modo in riferimento alla formazione della volontà dell’ente, espressa dall’organo assembleare, situazione nella quale la regola maggioritaria risulta idonea a determinare abusi a danno dei soci costituenti la minoranza[18].

Le peculiarità dell’ambito societario, peraltro, richiedono che la nozione di abuso debba tenere conto del problema della dialettica tra “interesse sociale” e “interesse individuale” dei soci[19]: basti pensare alla disciplina del conflitto di interessi contemplata dall’art. 2373 c.c. Si assiste altresì ad una sempre maggiore attenzione, anche da parte della giurisprudenza, a tutte quelle condotte “abusive” poste in essere dai soci di minoranza, tali da configurare un vero e proprio “abuso della minoranza” corrispondente a quello “classico” della maggioranza assembleare.


[1] S. PATTI, voce Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv, I, Torino, 1987, cit., p. 1 ss.

[2] M. ATIENZA e J. RUIZ MANERO, Illicitos atipicos. Sobre el abuso del derecho, el fraude de la ley y la desviacion de poder, Trotta, Madrid, 2000 (trad. italiana Illeciti atipici: l’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, a cura di M. TARUFFO, Il Mulino, Bologna, 2004).

[3] G. MERUZZI, L’exceptio doli dal diritto civile al diritto commerciale, Padova 2005, p. 348.

[4] M. FRATTINI, L’abuso del diritto nel diritto dei contratti, Milano, cit., p. 1.

[5] M. GRANDI, L’abuso del diritto e sue applicazioni giurisprudenziali, cit., p.1.

[6] BRECCIA, L’abuso del diritto, in Dir. priv., 1997, III, cit., p. 68.

[7] A. GENTILI, L’abuso del diritto come argomento, in Riv. Dir. Civ. 2012, cit., p. 297.

[8] M. ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, 105 ss.; U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 37 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. Dir. Civ., 1965, I, 205 e ss., e ora in L’abuso del diritto, Bologna, 1998, ed. Il Mulino; S. ROMANO, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, I, Milano, 1958, p. 168 ss.; S. PATTI, Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv., Torino, 1987, 2 ss.; D. MESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. del diritto, II, Milano,1998, 1 ss.; C. SALVI, Abuso del diritto, in Enc. giur., I, Roma, 1988; A. GAMBARO, voce Abuso del diritto., in Enc. giur., I, Roma, 1988; AA.VV., L’abuso del diritto, in Diritto privato 1997, Padova, 1998.

[9] M. V. MARONGIU-S. PUGLIESE, I principi di buona fede e correttezza nel processo integrativo europeo, cit., p. 7.

[10] Op. cit., p. 12; F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, Padova, 1999, p. 548.

[11] U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento italiano, in Riv. Trim., 1958, p. 18.

[12] Cass. 21-05-1997 n. 4538, cit. supra

[13] Cass., 14-7-2000 n. 9321, cit. supra

[14] M. FRATTINI, Op. cit., p. 46; Cass., 21-2-2003, n. 2642, in Mass. Foro it., 2003.

[15] G. CHINÈ, M. FRATINI, A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, cit., pp. 700-701.

[16] M. FRATTINI, Op. cit., p. 47; Cass., 23-7-2010, n. 17284, in Fall., 2011, p. 305 ss., con nota di MARCINKIEWICZ.

[17] Cass. S.U., 28-3-2006, n. 7029; V. anche G. CHINÈ, M. FRATINI, A. ZOPPINI, Manuale di diritto civile, p. 700 nota 106.

[18] M. GRANDI, Op. cit., p. 145; In argomento si veda MARTINES, Teorie e prassi sull’abuso del diritto, Padova 2006, 107 ss.

[19] Un problema di centrale importanza per il fenomeno societario è rappresentato dalla definizione dell’interesse sociale e la sua distinzione rispetto agli interessi dei singoli soci; la questione dipende strettamente dall’accoglimento della teoria istituzionalistica o invece contrattualistica nella ricostruzione della natura delle società di capitali. A tal proposito PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, in Tratt. ColomboPortale, vol. 3, Torino 1993, p. 5, nel vigore della precedente disciplina delle società, con evidente rilevanza anche per la nozione di abuso: “in origine la distinzione atteneva alla qualificazione giuridica della s.p.a. come contratto o come istituzione e solo consequenzialmente al tema dell’interesse sociale (…); ormai, in presenza dell’art. 2247 c.c., non vi è dubbio sul fatto che la s.p.a. nasce da un contratto e non vi è quindi una istituzione. Si discute solo se la disciplina dei contratti si applichi ad essa anche dopo l’iscrizione o se invece da allora si applichino principi propri della disciplina delle organizzazioni”.


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