Laicità e governo delle differenze nel tempo del pluralismo confessionale e culturale

Laicità e governo delle differenze nel tempo del pluralismo confessionale e culturale

La questione della laicità si lega oggi, in modo inestricabile, a quella dell’integrazione e della convivenza in società fortemente pluraliste e caratterizzate dall’avvento del multiculturalismo[1]. E’ evidente che i recenti avvenimenti geopolitici e il crescente fenomeno della globalizzazione[2] hanno determinato oltre all’accentuarsi e talvolta all’esasperarsi delle peculiarità locali[3] che, ripiegandosi su se stesse, rimarcano le differenze[4], da un lato, una rivisitazione della nozione stessa di “società multiculturale”[5], dall’altro, uno stravolgimento degli ordinari criteri di valutazione giuridica[6] e un mutamento dei vari istituti giuridici[7].

Del resto, le attuali comunità socio – politiche si presentano particolarmente promiscue nella propria composizione, in continuo sviluppo e sempre alla costante ricerca di un equilibrio fra i plurimi interessi[8], a volte fortemente contrastanti.

La società multiculturale è, così, spesso terreno fertile per conflitti tra diverse identità culturali che, inevitabilmente, riguardano anche la sfera giuridica. «La sfida strutturale che il pluralismo multiculturale pone al diritto è quella di rendere compatibile il soddisfacimento delle pretese avanzate da mondi e gruppi culturali che in partenza ambirebbero all’autosufficienza e alla mera conservazione della propria identità – dunque in qualche misura alla propria assolutizzazione, che però significherebbe la fine della normatività del diritto – con la simultanea presenza di un complesso di regole comuni quelle proprie di un sistema politico-giuridico democratico- costituzionale».[9]

Nelle società multiculturali si può ben comprendere la continua tensione all’instabilità culturale e sociale. Le relazioni stesse che vengono a crearsi tra le differenti comunità culturali presenti in una società sono espressione, sovente, di conflittualità perché spesso continuano a rapportarsi tra loro come blocchi a se stanti completamente differenti[10]. Vi sono gruppi che, in nome di usanze ed interessi comuni, si pongono tra loro in termini collaborativi e di reciproco rispetto; vi sono gruppi minoritari che, pur volendo interagire e stringere rapporti con gli altri, rimangono isolati e penalizzati dall’ordinamento; vi sono, ancora, altri gruppi che non vogliono un rapporto collaborativo ma cercano di imporre i diversi valori di cui sono portatori [11].

E’ allora innegabile che fenomeni di grande rilevanza quali la globalizzazione ed il multiculturalismo oltre a comportare inevitabili ricadute sulle istituzioni[12], determinano ed accentuano anche la crisi della sovranità statale[13] «che è divenuta oggetto di articolati processi di erosione e di riconfigurazione non solo sul piano interno (si pensi ad esempio ai processi di tipo federalistico e alle cessioni di potere dal centro alla periferia), ma anche e soprattutto sul piano esterno»[14]. E’ evidente, dunque, che tali fenomeni agiscono come forze disgregatrici della sovranità dei singoli Stati (sempre più sensibile agli effetti dell’azione di altri soggetti e sempre più attore tra gli altri) e che «l’identificazione sintetica della politica con lo Stato come espressione di una comunità di vita, che per molti secoli si era conservata indiscussa e immutata, nel nostro tempo è divenuta improponibile»[15]. Il processo di globalizzazione tende inevitabilmente ad inserirsi in primo luogo nelle varie articolazioni della sfera politica, condizionandone le relative dinamiche sia a livello interno sia a livello internazionale[16]. Per ciò che attiene all’aspetto politico[17], infatti, la globalizzazione tende a portare i governanti a convergere verso linee d’azione comuni e ad agire possibilmente secondo direttrici operative tracciate sulla base di principi generali universalmente condivisi[18]. I Paesi che non accettano di allinearsi o conformarsi a tale processo politico di graduale convergenza attorno a valori e a principi collettivamente evidenziati risultano, di fatto, tagliati sempre più fuori dal generale fenomeno di mondializzazione, volto a rimodellare la società umana- per sua natura multipolare e asimmetrica- secondo un preciso progetto di villaggio globale ovvero di Stato universale all’interno del quale, «ciascun individuo potrà godere, sul piano politico, di un particolare status civitatis del tutto nuovo consistente in una sorta di cittadinanza planetaria cui vanno connessi determinati diritti e doveri specifici. Tale processo tende a determinare una graduale crisi della tradizionale sfera di sovranità politica e nazionale dei singoli Stati a vantaggio della progressiva costituzione politica di un nuovo ordine mondiale»[19].

Una società pluralista nella quale convivono etnie, religioni, linguaggi diversi che rivendicano le loro autonomie in una universale corsa alla autodeterminazione e al pieno riconoscimento delle identità i «diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch’esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia»[20].

Del resto, l’incremento dei flussi migratori ha portato con sé «il diffondersi di nuove istanze di tutela delle identità e della appartenenza dei gruppi»[21], determinando situazioni di convivenza inedite e la nascita del cosiddetto villaggio globale. Così, il dovere dello Stato democratico moderno, che a differenza di quelli antichi si professa rispettoso, inclusivo ed aperto alle differenze, consisterebbe dunque nel riconoscere apprezzabili strumenti di partecipazione politica dei vari gruppi culturali e nell’adozione di norme che proteggano, garantiscano e promuovano la diversità culturale e la dignità degli individui, escludendo, di fatto, l’imposizione di politiche di assimilazione al contesto maggioritario[22].

In effetti, all’interno dell’ormai mutato orizzonte sociale vi è un incontro-scontro tra culture, identità[23] e valori[24]. Come si è detto il contesto sociale odierno ha perso i caratteri di omogeneità ed evidenzia diseguaglianze sempre più marcate. La molteplicità dei gruppi, la contraddittorietà delle loro culture con le loro dimensioni normative di riferimento costringono le società occidentali a tener conto delle altre dimensioni culturali e non consentono più di racchiudersi in un etnocentrismo[25] che pretende di assolutizzare i propri valori culturali e ricondurre a sé ogni altra cultura[26].

In questa nuova prospettiva sociale diventano elementi essenziali, nell’ineludibile necessità di comunicare con l’altro, il tema dell’identità[27], dell’alterità e dell’extraneus[28].

In una società multiculturale, che accomuna differenti tradizioni, il dialogo[29] con l’altro, la sua inclusione[30] e la convivenza con l’altro[31] presuppongono le idee di identità[32] e di alterità[33].

Questo ultimo concetto, a sua volta, presuppone quello di diverso, quello di “altro” da “noi”[34], di estraneo con il quale dobbiamo confrontarci e imparare a convivere [35].

La relazione che ne deriva presuppone proprio la diversità e la unicità di ciascuno poiché non ci può essere identità individuale senza diversità, così come non vi è dialogo se non tra diversi [36].

Nell’indispensabile relazione con l’altro la diversità fa emergere differenze nel pensare e nell’agire che arricchiscono la nostra vita, seppure, contestualmente, ne amplificano i conflitti e le difficoltà[37]. In questa relazione emerge tutta la difficoltà del doversi rapportare necessariamente con l’altro[38], che possiamo sempre più avvertire come un estraneo, un pericolo, una presenza ostile [39].

Innanzi a questo scenario, allora, « il riconoscimento delle alterità e dei differenti patrimoni tradizionali e religiosi, che appartengono alle differenti comunità, le quali coabitano per destino storico e politico in uno stesso territorio, diventa un atto politico imprescindibile per un sistema sociale alla ricerca delle regole cui orientare la convivenza tra i diversi soggetti e il contemperamento tra i diritti dei singoli e il diritto della società»[40]. Così, le domande di riconoscimento pubblico delle appartenenze religiose hanno inevitabilmente rinvigorito il dibattito non solo sul significato sociale e sul ruolo pubblico delle religioni ma anche, più in generale, sulla regolazione politica del pluralismo religioso in una prospettiva di rispetto della laicità dello Stato. Il tema, in fin dei conti, si collega a quello che investe il significato, i confini e le implicazioni della neutralità dei pubblici poteri. Del resto, per l’affermazione e l’ampliamento di diritti e di libertà in una logica di inclusione e di non discriminazione, una rinnovata analisi delle diverse concezioni della laicità dello Stato e della sua posizione rispetto alle istanze religiosamente qualificate pone inevitabilmente l’accento anche sulla necessità di ripensare l’attitudine alla neutralità delle istituzioni pubbliche.

Centrale appare, dunque, comprendere quali sono le conseguenze che possano venire sul piano dell’inclusione da una rinnovata applicazione del principio di laicità quale modello di integrazione e riferimento necessario per la pianificazione di strategie capaci di rispettare le diverse identità e di determinare una società pluralista e inclusiva. L’individuazione del modello di laicità più adatto alla composizione dei problemi della convivenza contemporanea e ad una corretta ed equilibrata disciplina dei rapporti tra le diverse identità non può che partire dalla sottolineatura di alcune caratteristiche comuni alle odierne società occidentali. Si pensi, ad esempio, in controtendenza rispetto ad ogni tentativo di privatizzazione della fede, alla rinnovata centralità nella sfera pubblica del fattore religioso[41]. Infatti, se e è vero che l’odierna globalizzazione ha evidenziato il fenomeno del multiculturalismo, è altrettanto vero che con essa si è palesato ancora più fortemente anche il fenomeno della multireligiosità che si intreccia e si esprime con le pluralità culturali di matrice religiosa[42] ed è caratterizzata da un pluralismo di valori prima ancora di un pluralismo normativo. Del resto nel concetto di cultura[43] rientrano una complessità di valori, norme, regole e principi che i membri di un dato gruppo rispettano e sono tenuti ad osservare. Inoltre, deve essere sottolineato che «filosoficamente, sia la cultura che la religione sono elementi costitutivi dell’identità[…]. Antropologicamente, i concetti non hanno un’autonomia ontologica e del tutto simili sono i processi cui vanno incontro. Entrambi i concetti pongono problematiche simili per quanto riguarda, ad esempio, i rapporti tra la cultura/religione in astratto e le loro incarnazioni concrete nei singoli individui, nonché le trasformazioni che nel tempo una cultura o una religione può vivere. A ciò si aggiunga che agli antropologi la distinzione appare conseguenza di una forma mentis occidentale in quanto simili categorizzazioni non sussistono in molti altri sistemi semiotici. Il risultato è che nell’antropologia la religione, così come la lingua, è una species del genus più ampio cultura. Giuridicamente sia la cultura che la religione possono essere settori in cui si sviluppa una discriminazione da rimuovere. Inoltre, entrambe appaiono dotate di un valore e connaturate al principio democratico in quanto fonte di pluralismo di idee e di orizzonti di senso e di quel principio di diversità di scelte di vita, che ogni società aperta promuove. Di converso, il problema delle rivendicazioni delle così dette “minoranze illiberali” tocca trasversalmente sia minoranze culturali che religiose»[44]. A ciò, inoltre, si deve aggiungere che la modernità e il pluralismo sembrano aver contribuito alla progressiva acquisizione della consapevolezza dell’accettazione dell’elemento religioso quale «una delle variabili principali, quasi sempre protagonista»[45] nella sua accezione culturale, delle società contemporanee accanto alle dimensioni nazionali ed etniche. Come affermato da Dalla Torre «la religione è cultura […]come patrimonio dogmatico, morale, liturgico, legato ad un insieme di credenze attinenti ad un ordine superiore, trascendente, sovrannaturale, costituisce un forte sistema di valori identificante un gruppo umano; quel gruppo umano che i giuristi definiscono con l’espressioni di “confessione religiosa”»[46] La religione, quindi, si intreccia con la cultura stessa di un popolo e concorre a definire l’orizzonte dei significati individuali e sociali influenzando l’area privata, quella pubblica ed anche quella regolata dal diritto[47].

E’ evidente dunque, che cultura e religione non possono essere considerati isolatamente perché la religione rientra a pieno titolo nella cultura stessa di un popolo.[48] La religiosità, infatti, si esprime in diverse forme che vanno da una religiosità cultuale, che viene fuori da tutte quelle manifestazioni esteriori che attengono al culto, ad una religiosità culturale, espressa attraverso gli strumenti che riguardano la cultura come l’arte e la letteratura, ad una religiosità tradizionale che viene espressa attraverso le forme tipiche che appartengono ad un dato popolo. Si potrebbe arrivare a dire che la cultura di un gruppo non solo ha spesso un’origine religiosa ma che affida alla presenza e alla vitalità della sua base religiosa la sua durevolezza e la sua forza identitaria poiché vi è sempre qualcosa di religioso nella totalità di senso che una cultura pretende di conferire e nei legami che avvincono ad essa coloro che vi appartengono, anche in quelle culture che non credono in un essere superiore[49]. Il rapporto tra cultura e religione[50] appare, dunque, fondamentale in quanto il legame che li unisce spiega perché le cifre di senso di ogni circuito culturale siano strettamente intrecciate con le corrispondenti tradizioni religiose. Gli oggetti di fede, in qualità di saperi culturali, sono trasmessi attraverso le generazioni sotto forma di abiti, di imperativi pratici, di schemi di interpretazione e categorizzazione del mondo[51].

In questa ottica si può comprendere come il problema culturale delle immigrazioni sia coinciso con il risveglio delle grandi religioni dell’umanità associato, talora, ad una forte interferenza delle stesse nella sfera pubblica delle società multiculturali tanto che, sempre più spesso, i conflitti tra i differenti gruppi culturali diventano conflitti religiosi[52].

Così, l’irruzione della religione nella sfera pubblica e nel dibattito pubblico, favorito dall’ormai incessante circolazione delle culture e dagli imponenti flussi migratori che hanno determinato un significativo indebolimento della percezione dell’identità e del senso di appartenenza delle società occidentali, ha finito per produrre costanti interferenze con la libertà dei singoli, con i loro diritti fondamentali e, quindi, con gli strumenti che il potere statale[53] deve porre a loro tutela[54].

Inoltre, un secondo elemento da tenere in considerazione e con cui il modello contemporaneo di laicità è tenuto a fare i conti è dato dalla particolare forma assunta dal pluralismo delle nostre società.

Così, «Innanzi al diffondersi di nuove istanze di tutela delle identità e della appartenenza dei gruppi»[55], le società che vogliano continuare a definirsi e strutturarsi nella logica della neutralità e della non identificazione tra apparati statali ed orientamenti ideali[56] devono, per scongiurare una «crisi regolativa del diritto»[57], procedere ad una profonda riflessione sulle tecniche legislative e soprattutto sull’adeguatezza delle medesime in un momento in cui, sotto l’incalzante pressione dei mutevoli bisogni individuali e sociali, si accentuano la sperimentazione e la temporaneità delle leggi, il ritmo crescente della loro caducazione[58]. E’, infatti, del tutto evidente che innanzi ad una “pluralizzazione del pluralismo”[59], connotata non semplicemente dalla sussistenza sullo stesso territorio di diverse etnie ed identità ma dalla sovrapposizione di diversi ordinamenti, tradizioni locali e appartenenze identitarie, lo spazio pubblico appare segnato da un’inedita e radicale polverizzazione della diversità, in cui all’indebolimento del tradizionale monopolio di essa da parte di una singola tradizione culturale si accompagna una rinnovata e accentuata moltiplicazione di credenze, pratiche e regole. Così, la pluralità di gruppi culturali[60] e il conseguente pluralismo giuridico intrasistemico[61], generati da differenti concezioni culturali che ispirano diverse interpretazioni del diritto, fa emergere l’impossibilità di soddisfare le richieste di giustizia mediante un «diritto come integrità»[62] e determina un conflitto perenne e reciproco tra le istituzioni politiche e i soggetti del pluralismo sociale.

Ancora, un ulteriore elemento, è dato dal carattere ancor più marcatamente identitario che recentemente hanno assunto la dimensione religiosa e l’appartenenza confessionale.

Infatti, nel processo di radicamento dei diversi gruppi sociali caratterizzati da identità culturali diverse e lontane rispetto a quelle tradizionali [63], il ritorno del sacro[64] sulla scena pubblica ha avuto enorme impatto sull’attuale contesto sociale. Del resto, la presenza sulla scena pubblica dei paradigmi di riferimento propri delle diverse confessioni religiose si è manifestata non solo attraverso una trasformazione del proprio patrimonio dogmatico foriero spesso di un più intenso individualismo religioso ma anche grazie ad una rinnovata dimensione normativa[65] che si estrinseca in precetti retti da un superiore sentimento di doverosità che invece di restare confinati soltanto nella vita privata, proiettandosi ed innestandosi sulle relazioni sociali, irrompono invece nel mondo del diritto. È frequente infatti che i complessi valoriali/simbolici delle tradizioni religiose riescono a sopravvivere in un contesto secolare e multi religioso, proprio perché svolgono un ruolo di consolidamento delle identità collettive e di condizionamento dell’agire giuridico dell’uomo.

Si tratta, allora, di stabilire entro quali limiti si debba riconoscere pubblicamente un certo tipo d’identità, proteggendone le manifestazioni più significative e cruciali, e tutelandone la diversità contro il peso delle pratiche maggioritarie, esattamente come si fa, e si è fatto, con altre identità minoritarie a carattere non-religioso (le minoranze linguistiche o etniche, ad esempio); il fatto che tali identità si cristallizzino intorno a una dottrina religiosa emerge come conseguenza, non come aspetto primario e fondante la tutela giuridica.

Sotto questo profilo, si è reso evidente come il tema della laicità sia venuto a connettersi profondamente sia alle riflessioni relative al necessario riconoscimento delle identità dei singoli e dei gruppi religiosi di minoranza sia al problemi di conflitto tra valori, che, tuttavia, risultano essere secondari rispetto alle preminenti questioni identitarie.

E’, allora, all’interno di questo orizzonte che, al fine di chiarire in che modo una particolare configurazione della neutralità e della non identificazione possa risultare utile per la gestione della odierna convivenza, deve essere collocata l’idea di laicità.

In particolare, bisogna chiarire in che modo una particolare nozione di laicità – quale che sia – possa gestire le dinamiche d’integrazione sociale in contesti pluralistici, e di rispondere alle richieste di riconoscimento pubblico avanzate anche in nome di identità religiose (il rigetto di tali richieste, come si vedrà, è pur esso una possibile risposta, coerente con una certa nozione di laicità).  Un punto di partenza, comune alla gran parte delle definizioni di laicità oggi diffuse, è l’abbandono di ogni pretesa di neutralizzazione piena dello spazio pubblico: tale pretesa sarebbe, peraltro, incoerente con il nucleo problematico cui la laicità è chiamata a rispondere. Se si deve offrire (o negare) riconoscimento alle identità minoritarie, e alle identità religiose in quanto identità minoritarie, la pretesa di una laicità radicale che privatizzi le identità religiose (ma non quelle di genere, o quelle etniche, ad esempio) è inattuale e contraddittoria. Le identità vanno riconosciute (o misconosciute) pubblicamente, perché è proprio nello spazio pubblico che esse avanzano le loro pretese di riconoscimento.

Certo, storicamente, come è noto, la laicità è stata assunta dagli ordinamenti nazionali come strumento per emanciparsi dalla tutela ecclesiastica e come principio fondante per far fronte al bisogno di costruire valori civili (autonomi dal gradimento delle Chiese) ai quali ispirarsi, per indicare ai consociati i principi cardine della vita in comune.

La laicità è stata, così, lo strumento per la creazione di un’etica possibile e relativa, che permette alla persona umana di essere diversa e al tempo stesso uguale, di non essere prigioniera di un orientamento ideale e spirituale ‘totalizzante’, ma che consente ad ognuno di partecipare con gli altri consociati alla costruzione di un modello di convivenza in cui si è liberi di ricercare se stessi nella propria unicità e, al tempo stesso ed eventualmente, in un Dio. Così, proprio «(…) per questa sua attitudine a garantire tutti senza chiedere garanzie, o adesioni culturali o religiose ai movimenti storici da cui è nata, la laicità conserva la capacità di fungere da criterio direttivo delle politiche di riconoscimento delle differenze in un quadro di uguaglianza dei diritti pur nel mutato scenario della società multiculturale[66]».

In tal senso, la laicità, così inestricabilmente legata oggi al tema dell’integrazione in società fortemente pluraliste, non può essere come senso di neutralizzazione piena dello spazio pubblico. Ciò, tuttavia, non significa che la nozione di neutralità vada abbandonata quanto, piuttosto, che la stessa vada correttamente semantizzata[67]. Per i motivi detti, essa non può significare assenza dallo spazio pubblico dei valori religiosamente qualificati, e cioè irrilevanza delle rivendicazioni fondate su ragioni (anche) religiose, né può tradursi in un’astensione dello Stato dall’intervento su questioni rilevanti per le comunità religiose (per gli stessi motivi: lo Stato è messo di fronte, in modo non trascurabile, a richieste di riconoscimento e di legittimazione, in relazione a pratiche religiosamente giustificate dal carattere fortemente identitario. Qualunque risposta, anche negativa, è un intervento su tali questioni).

Essa può essere definita quale nucleo di valori identificabili sinteticamente nell’eguaglianza dei cittadini, nella tolleranza civile per ogni concezione religiosa o meno, di vita, nell’autonomia dello Stato e nella libera determinazione per tutte le chiese[68]

La laicità, altresì, può assumere il significato di imparzialità dello Stato e dell’intervento pubblico tra le religioni, o di non confessionalità delle ragioni giustificative di tale intervento, in merito a questioni rilevanti per le varie comunità religiose. Solo così la laicità può essere allo stesso tempo strumento essenziale sia di gestione che di governo della appartenenze nelle società multiculturali sia di tutela delle diversità che vivono in un contesto sociale caratterizzato da continue rivendicazioni. Solo attraverso lo strumento della laicità, che implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale[69], gli attuali ordinamenti possono riuscire a garantire le diverse appartenenze identitarie e a preservare il bene fondamentale della pace. La laicità, così, assume il valore di formante culturale, di strumento operativo che permea di sé l’ordinamento, inserendosi ed insinuandosi nelle norme che regolano i diversi istituti giuridici, così da plasmarli e da renderli tra di loro coerenti, contribuendo a fornire al sistema giuridico i mezzi per l’assicurazione della libertà e di una efficace gestione dei conflitti[70].

Pertanto, se vogliamo perseguire l’integrazione sociale in modo laico (e viceversa: se vogliamo costruire uno stato laico, capace di integrare le diverse identità religiose) dobbiamo prendere le mosse da un’idea di laicità che, implicando l’imparzialità e non confessionalità delle istituzioni e delle scelte pubbliche,consenta interventi di sostegno o promozione di alcuni aspetti della vita religiosa nella misura in cui sono funzionali al riconoscimento di quelle specifiche identità e all’integrazione sociale.

In altri termini, se realmente si intende perseguire e costruire uno Stato capace di includere ed integrare le diverse identità ideali e religiose, è necessario partire da un’idea di laicità che implichi la chiara delle istituzioni e dello spazio pubblico. Una laicità che consente nei limiti della ragionevolezza appropriate differenziazioni pur nell’eguale garanzia di libertà[71]; che permette allo Stato di non doversi identificare con nessuna particolare corrente artistica, o letteraria, o religiosa ma che, allo stesso tempo, non necessariamente gli impone di astenersi dal sostenere l’arte, la letteratura, la religione[72]. Una laicità che permetta alle istituzioni pubbliche di garantire ai soggetti condizioni d’eguaglianza al di là delle loro convinzioni religiose; una laicità che possa, dunque, consentire e favorire, nella logica propria dello Stato sociale, interventi di sostegno o di promozione di alcuni aspetti della vita spirituale, nella misura in cui essi possano essere funzionali al riconoscimento delle specificità ideali dei singoli e delle formazioni sociali, nella logica costituzionale del perfezionamento della persona umana[73]. Così, le istituzioni civili dovrebbero «(…) mettersi laicamente a servizio dell’esplicazione della personalità umana, dotandosi di norme ed altri strumenti idonei a garantire il pluralismo etico-culturale in condizioni di effettiva parità, senza cioè consentire ad alcuna particolare convinzione di monopolizzare la sfera pubblica[74]». Allo stesso tempo, sarebbe opportuno giungere all’individuazione di un modello di laicità in grado di garantire il contesto giuridico strumentale alla realizzazione di una convivenza che, nel rispettare il pluralismo ideale, possa creare «(…) un vincolo di solidarietà in grado di competere con le lealtà particolari e di neutralizzarne le spinte centrifughe[75]».

Se questi sono i presupposti, o i confini di un’idea di laicità che sia coerente con le sfide dell’integrazione sociale, siamo ancora ben lungi dall’averne individuato i contenuti. Tuttavia, l’oggetto di tali riflessioni non è quello di proporre una nuova idea di laicità, ma solo quello di verificare le conseguenze di una nozione di laicità accettabile sul piano delle politiche per l’integrazione sociale. Una laicità il cui contenuto minimo e imprescindibile sia rappresentato dalla neutralità come imparzialità, dalla garanzia della libertà di religione e di culto, dal riconoscimento del rilievo pubblico del fattore religioso e di alcune sue manifestazioni. E’ dunque all’interno di questo orizzonte che la laicità può assicurare l’adozione di regole organizzative decifrabili ed apprezzabili dall’intera collettività. Del resto, solo attraverso un metodo laico è possibile riflettere sulla interrelazione tra dinamiche religiose e della religiosità e diritto applicato, verificare come gli strumenti giuridici vigenti vengono concretamente utilizzati e individuare quali tra questi permettono non solo di soddisfare i diversi interessi coinvolti ma anche di delineare regole capaci di essere accettate indipendentemente dalle differenti convinzioni e fedi religiose dei destinatari. Intesa in questo senso, così, la laicità appare inclusiva verso ogni dimensione di pluralismo attraverso consente non la pretesa di offrire una definizione oggettiva delle dimensioni dell’humanum (ad esempio, una visione oggettiva della famiglia, dei rapporti tra i sessi, della dignità umana, dell’uso delle risorse economiche, ecc.), ma con un atteggiamento critico. «Laico è l’atteggiamento di chi accetta l’irriducibilità reciproca dei tanti sistemi religiosi e culturali che tentano di rendere comprensibile la realtà; ed è laico chi, accettando tale irriducibilità, rinuncia a tematizzare (anche sul piano giuridico) un singolo centro di comprensibilità del reale e delle relazioni umane. La laicità non è una dottrina, o un sistema, neppure un nobile sistema qual è quello dei diritti umani, o dei principi costituzionali. Laico è un atteggiamento umano che nasce dalla consapevolezza dell’irriducibilità della diversità umana».[76] La laicità, dunque, proprio per i ricordati caratteri di imparzialità ed equidistanza, diviene test di ragionevolezza e di resistenza costituzionale dei prodotti dell’attività legislativa e diviene strumento di salvaguardia delle differenze e di garanzia di tutti i paradigmi identitari. In quest’ottica, pur essendo un prodotto giurisprudenziale, la laicità è un portato diretto della Costituzione e, oggi, sempre più, si propone come strumento di governance della complessità determinata dalle diversità culturali e religiose della società contemporanea, in cui, inevitabilmente, come ha precisato la Consulta nelle sentenze nn. 440 del 1995 e 508 del 2000, devono convivere fedi, culture e tradizioni diverse[77]. Da quanto detto, allora, la laicità non può che essere pacificatrice poiché per un verso ha secolarizzato i poteri pubblici spingendoli a rinunciare ad una propria etica religiosamente ispirata e, per un altro permette di collocare sullo stesso piano l’esercizio positivo e negativo della libertà di religione. Proprio per questa sua attitudine la laicità, riconoscendo il valore delle differenze ed in funzione anche della salvaguardia della libertà di coscienza[78], assicura che lo Stato, in sintonia con il carattere necessariamente relativistico della democrazia[79], appaia separato da ogni cultura nella misura in cui, non privilegiandone alcune, le rispetta tutte in egual misura.

Così, una pari considerazione delle diverse identità culturali (e cultuali) e non la semplice ed asettica estraneità per le diverse espressioni ideali e confessionali, permette, lontano da logiche di diffidenza e di contrapposizione e attraverso una eguale indifferenza verso gli interessi in campo[80], la promozione di un pluralismo ideale capace e la composizione della conflittualità sociale nell’attuale scenario multiculturale[81]. La laicità, così, oggi deve essere intesa come «co-elemento indispensabile per garantire il senso di appartenenza, di unità, di solidarietà fra soggetti diversi, ma che si legano fortemente nell’identità condivisa di nazione, di popolo, di comunità coesa, per il raggiungimento di beni comuni come la pace, la prosperità, la felicità, senza imporre una omogeneità assoluta di convinzioni ideologiche o di modi di vita. In questa chiave la laicità riconosce le religioni, tutte le religioni seguite in un determinato contesto, ma anche l’ateismo e l’indifferentismo religioso, come modi di essere diversi di individui uguali per dignità, per genere (maschile e femminile), razza, religione, lingua o altro, in quanto solidalmente uniti[82]» per il conseguimento di una pacifica convivenza.

In tema, poi, non manca poi chi, assieme ad una rinnovata applicazione del principio di laicità, insiste per una riproposizione anche del principio di tolleranza[83]. Si afferma, infatti, che la laicità, in fondo, significa proprio tolleranza e capacità di farsi portavoce di un credo, consapevoli dell’esistenza legittima di altri[84].

Del resto le società multiculturali ci pongono prepotentemente di fronte al problema della differenza, della opposizione tra noi e gli altri, e richiamano ancora in campo il concetto di tolleranza[85]. Questo concetto ha origini nell’epoca medioevale e affonda le sue radici nel terreno religioso quando la pluralità di credo diede luogo ad importanti fratture sociali e a consistenti fenomeni migratori. Mentre, però, in quei tempi le diversità erano avvertite come anomalie del sistema culturale giuspolitico, creando fratture nei sistemi sociali dell’epoca, si può osservare che dalla Riforma protestante in poi le differenti correnti culturali cominciarono ad essere in qualche modo accettate come prospettive differenti di una stessa realtà. «La strategia che condusse a questo risultato fu incentrata, come è noto, sull’idea di tolleranza, variamente e diversamente articolata dalle correnti di pensiero che per essa si battevano. Lentamente, la differenza religiosa rese necessaria la tolleranza e la tolleranza, a sua volta, rese possibile ed alimentò la differenza. Alla lunga ne scaturirono le dichiarazioni dei diritti universali e l’accettazione di un pluralismo che […] si secolarizzò»[86].

In tal senso va ricordata l’analisi di Rawls[87] che vede proprio nella Riforma Protestante l’origine storica del liberalismo politico scaturito necessariamente da un pluralismo culturale tanto irreversibile da generare quella tolleranza che ha permesso, a mano a mano, di comprendere le differenze culturali come fisiologiche del sistema sociale. Ulteriori contributi all’elaborazione di una teoria sulla tolleranza sono stati offerti da Wolff e Marcuse. Per il primo, infatti, che prende in considerazione la società americana, non può parlarsi di piena tolleranza poiché i diritti fondamentali sono riconosciuti solo ai gruppi e alle corporazioni e non agli individui che da loro si distaccano. Marcuse, invece, critica il modello di tolleranza delle democrazie avanzate poiché esse tendono a conservare le loro strutture e non seguono fino in fondo il principio di tolleranza che, applicato fino alle sue estreme conseguenze, genererebbe permissivismo e presenterebbe una natura sovversiva e fortemente liberale[88].

Infine, importante è anche il contributo di Michel Walzer che, con la sua opera Sulla tolleranza, riconosce varie forme e diversi gradi che può assumere la tolleranza[89]. Così la tolleranza può essere accettata con rassegnazione, solo per evitare conflitti, oppure si può accettare con entusiasmo. Il primo grado non è ancora tolleranza, l’ultimo è già oltre. Tra questi due poli si dispongono una varietà di atteggiamenti che si sono manifestati in tipi politici di convivenza che hanno assunto, nel corso della storia, alcune forme identificabili in idealtipi che Walzer chiama “regimi di tolleranza[90].

Dopo questi rapidissimi cenni sul significato che la tolleranza ha assunto nell’epoca moderna può sembrare un ulteriore passo avanti quanto affermato all’inizio del novecento da Ruffini, secondo il quale «lo Stato non deve più conoscere tolleranza, ma solamente libertà: poiché quella suona concessione graziosa dello Stato al cittadino, questa invece diritto del cittadino verso lo Stato. Ora la religione è appunto un campo in cui lo Stato nulla può dare, il cittadino invece tutto può prendere»[91]. Tale affermazione di per sé ineccepibile sottintende la convinzione secondo la quale laddove vi siano diritti, soprattutto in una concezione del diritto soggettivo inteso come esercizio di libertà ed arbitrio, «tolleranza e diritti si escluderebbero a vicenda secondo una alternanza rigida del tipo: o tolleranza o diritti»[92]. In tal senso, nelle società moderne non vi sarebbe più bisogno di tolleranza tuttavia, però, si potrebbe correre il rischio di interpretare i propri diritti come assoluti e non suscettibili di un bilanciamento con i diritti degli altri.

Proprio per questo, allora, potrebbe essere importante riformulare l’idea di tolleranza ereditata dal liberalismo classico per assumerla come principio normativo metagiuridico e renderla adeguata alle istanze del multiculturalismo e al riconoscimento delle differenze sociali[93]. Una tolleranza, dunque, che possa assurgere a valore di principio normativo quale regolatore dell’esercizio dei diritti.

Più le nostre società diventano multiculturali più la tolleranza, quindi, acquista la sua funzione primaria di regolatrice dei conflitti interreligiosi ed interculturali divenendo, così, non solo un criterio di ordine etico ma anche un principio giuridico necessario ad assicurare una pacifica convivenza fra culture diverse[94]. La tolleranza, dunque, troverebbe la sua ragion d’essere non tanto nelle relazioni verticali tra Stato e cittadini[95] ma nei rapporti orizzontali tra gruppi ed individui[96].

In quest’ottica, assieme alla laicità[97], è normale che si riaffermi anche il principio di tolleranza, da non intendersi, naturalmente, come concessione del potere costituito o del gruppo dominante, ma come disponibilità[98] a mettere in discussione le proprie convinzioni e a non vedere nell’altro un nemico, ma un interlocutore[99].

In tal senso, dunque, appare necessaria anche una rilettura del concetto di tolleranza che tenga conto del diverso ruolo che essa oggi è chiamata a svolgere. Essa, infatti, se si è sviluppata «come strumento per l’affermazione progressiva dello Stato moderno e per la laicizzazione della politica in rapporto alla religione» e «come tappa del cammino che porta all’affermazione della libertà religiosa», della quale sarebbe solo un mero presupposto, oggi «la dimensione multiculturale e multireligiosa che le società moderne vanno assumendo, impone una riflessione più attenta sul diverso ruolo che il concetto di tolleranza assume rispetto all’accettazione delle differenze e delle identità rivendicate dalle diverse comunità nei confronti degli Stati». In questo senso la tolleranza «riacquista la sua valenza in quanto […] paradigma di valutazione e controllo della regola democratica della convivenza pacifica. La tolleranza, dunque può essere considerata non solo una virtù politica, ma un valore essenziale per l’esplicazione della funzione del diritto»[100].

In questa direzione si procede, così, verso un relativismo e pluralismo etico che non è perdita di valori ma, piuttosto, capacità di porre sullo stesso piano, in condizioni di eguaglianza, tutti i sistemi assiologici espressi dal tessuto sociale.

Non è, infatti, un caso che uno dei principali assertori moderni del principio di tolleranza, John Locke (1632-1704), abbia potuto anche sostenere che un ateo – cioè un negatore della proposizione fondamentale di ogni religione e di ogni morale: “esiste Dio” -, non possa essere “tollerato” in nessuno Stato[101], dal momento che – ecco l’argomentazione del filosofo inglese – una volta eliminato Dio anche soltanto sul piano teorico, non risulterebbero più stabili né i patti, né i giuramenti, né la parola data, cioè tutti i vincoli della società umana e tutte le sfere che implicano interventi di magistrati e di legislatori per la tutela dei diritti umani. Certo, nella sua famosa Epistola de tolerantia, Locke[102] appare fermo nella convinzione che la coscienza umana individuale sia incoercibile e sembra compiere ogni sforzo affinché le opinioni puramente speculative e tutto quanto abbia a che fare con il culto possano essere ritenute di “stretta competenza personale”[103] in maniera che in tali affari, dunque, non entri alcun magistrato ed alcun potere politico, non avendo essi “rilevanza politica”. In seguito, soprattutto nella sua fase di permanenza in Olanda, Locke si mostrerà ancora più convinto che, per conseguire una vera pace religiosa, le fedi non debbano più nutrire la pretesa di poter ricorrere a mezzi coercitivi, dal momento che l’unico rimedio efficace contro chi non condivide gli ideali di una fede religiosa, non sia certo l’imposizione bensì la “convinzione”.

In questo senso, la necessità di gestire le diverse appartenenze nella società ormai pluriculturale e di tutelare delle diversità che percepiscono la contraddizione di vivere in uno spazio sociale costantemente rivendicato da ognuna di esse come proprio ed esclusivo ma che è in realtà destinato ad una necessaria ed inevitabile condivisione, non può che restituire oggi al supremo principio di laicità dello Stato il ruolo di «machinery of governance della complessità sociale alimentata dalle diversità culturali delle società contemporanee»[104], di metodo di attuazione di un pluralismo democratico in cui la mediazione tra le diverse posizioni impedisce «il terrore dell’attuazione immediata e automatica dei valori»[105]. Una «laicità dialogante»[106] ed inclusiva[107], aperta al confronto e portatrice di valori diversi ma comuni in democrazia[108], che nell’accompagnare ogni scelta politica non può apparire come «un blocco di granito, contro il quale si infrangono tutte le ondate della società civile, ma piuttosto un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze concrete della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario»[109].

Quale luogo di dialogo entro cui ciascuno deve poter esprimere la propria opinione senza prevaricare l’altro, nella consapevolezza di una regola giuridica invalicabile, la laicità deve essere intesa anche come «strategia in grado di integrare le proiezioni dell’esperienza religiosa nel lessico dell’uguaglianza giuridica»[110] e, dunque, come riconoscimento e tutela, da parte delle istituzioni pubbliche, di tutte le diverse confessioni e idealità culturali[111].

In questo senso, tralasciandone il suo contenuto sostanziale, la laicità, acquistando la funzione essenzialmente procedurale di garantire la neutralità e l’imparzialità dei pubblici poteri, diviene regola di parametro per lo Stato chiamato a disciplinare i rapporti con le diverse confessioni e con i vari gruppi sociali che, come le prime, hanno statuti morali e valoriali destinati ad indirizzare le condotte dei propri componenti.

Laicità, quindi, «come “attenzione” e “pari tutela” dello Stato nei confronti del fenomeno religioso»[112] capace di «promuovere un’unità che non può e non vuole divenire uniformità, ma che è capace di garantire il rispetto delle differenze nazionali e delle diverse tradizioni culturali, che costituiscono una ricchezza nella sinfonia europea, rammentando, d’altra parte, che “la stessa identità nazionale non si realizza se non nell’apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi»[113]. Laicità qui da intendersi, quasi istintivamente, quale «architrave portante delle democrazie costituzionali, […] un plusvalore di garanzie o, se si preferisce un meta–valore, un contenitore che consente come nessun altro agli ordinamenti più diversi di manifestarsi liberamente entro regole»[114]. Intesa sia come principio giuridico che come modo di essere, la laicità rappresenta quindi la capacità di «vivere senza idoli»[115] ed impedisce che «l’ordinamento giuridico generale si identifichi con uno o più etiche in particolare, badando che queste vengano saggiamente declinate in una tavola di valori accettabili da tutti i concives»[116] e legiferando non «velut Deus non daretur e neanche in fondo velut Ecclesia non daretur (sarebbe un’altra strumentalizzazione ideologica)»[117] ma, piuttosto, attraverso un «procedimento di articolazione delle relazioni tra eguaglianza e differenza (confessionale, ma non solo)»[118] che prenda in considerazione i diversi punti di vista. Al diritto, così, «non spetta imporre, grazie ai suoi strumenti coercitivi, il modello di vita buona proprio di una certa morale, investita della valenza di unica morale, bensì creare le condizioni e approntare le garanzie per la coesistenza e, ancor prima, per l’esplicazione delle autonomie e delle diverse morali che, attraverso l’esercizio dell’autonomia, trovano espressione, senza, peraltro, mai perdere di vista, in una prospettiva di responsabilità, le conseguenze collegate alle soluzioni normative adottate. Un diritto, quindi, che se per un verso pone gli individui al riparo dal rischio di dover rinunciare alle proprie convinzioni o credenze morali, per altro verso, si preoccupa di contemperare la libertà degli individui con irrinunciabili esigenze sociali, facendosi carico del problema di porre limiti, ma che, nel farlo, individua nell’impedimento di danni concretamente ipotizzabili ad altri, l’unica valida ragione per restringere […] il potere di decisione e d’azione degli individui nelle sfere che direttamente li riguardano»[119]. Solo cosi si possono individuare concetti, categorie, norme e strumenti giuridici che nel governo delle diversità siano capaci di assicurare la pacifica convivenza nel rispetto della libertà, dell’uguaglianza e, al tempo stesso, dell’identità di ciascuno.

Del resto, è stato opportunamente osservato che «la democrazia ha nella neutralità dello Stato e nel rispetto per tutte le credenze, religiose e non, un presupposto indispensabile. Potremmo spingerci più in là e sostenere, con Rawls, che la democrazia non si limita ad accettare il pluralismo delle credenze, ma lo richiede come condizione»[120]. Lo Stato laico, dunque, deve rispettare la visione del mondo di ciascun individuo[121], «frutto di un processo di identificazione delineato attraverso numerosi atti quotidiani e decisionali di autodeterminazione, più o meno espliciti e consapevoli, che la persona compie all’interno di modelli collettivi (quali sono anche quelli religiosi e familiari) disponibili nell’ambiente sociale»[122]. Il che vuol dire pieno rispetto della coscienza e dell’autonomia individuale[123], che diviene l’asse di legittimazione di un contesto normativo ed istituzionale e, dunque, bene fondamentale su cui poggia l’azione di ogni Stato democratico che, astenendosi da premesse religiose o etiche date, voglia garantire e salvaguardare il pluralismo[124].

Dunque, cosa vuol dire, oggi, essere laici? Per rispondere a questo interrogativo appare in definitiva utile evidenziare le parole di un autorevole Studioso che ha affermato che «viviamo in una società laica quando a nessuno e a nessun gruppo portatore di una specifica tradizione è proibito di dire la sua, ma dove nessuno e nessuna tradizione è esente dalla critica nel pubblico dibattito. Laico è chi è critico; non dogmatico; disposto ad ascoltare gli altri— soprattutto quanti pensano diversamente da lui— e al medesimo tempo deciso a farsi ascoltare; laico è chi è rispettoso delle altrui tradizioni e, in primo luogo, della propria; è colui che è consapevole della propria e della altrui fallibilità e che è disposto a correggersi; il laico non è un idolatra, non divinizza eventi storici e istituzioni a cominciare dallo Stato; non reifica, non fa diventare cose (res), cioè realtà sostanziali, i concetti collettivi (popolo, classe, nazione, sindacato, partito, ecc.) che così si trasformerebbero in entità liberticide; il laico rispetta la voce del popolo ma non la mitizza; (…)il laico sa che nello Stato di diritto sovrana è la legge e non il popolo, la legge che pone garanzie di libertà dei cittadini e che protegge le minoranze nei confronti di maggioranze tentate di governare tirannicamente; il laico sa che la democrazia è «l’alta arte» del compromesso, ma è colui che anche sa che non sempre il compromesso è possibile giacché esistono valori o ideali inconciliabili (come è il caso della manipolabilità o meno dell’embrione o della praticabilità o meno dell’aborto): in questi casi il laico si affida alla tecnica del referendum o allo «scudo personale» dell’obiezione di coscienza, nella più lucida consapevolezza che la società aperta non sarà mai una società perfetta; è laico chi concepisce le istituzioni in funzione della persona e non viceversa; il laico combatte fin che può con le «parole» invece che con le «spade» , ma sa opporsi con la spada a quanti usano la spada per opprimere gli altri. Laico è, dunque, il cittadino della società aperta»[125]. Se è così, allora, non a caso è stato opportunamente evidenziato che la misura della realizzazione della libertà religiosa designa pertanto la misura della laicità (Weltlichkeit) dello Stato[126].


[1] Si tratta di un concetto utilizzato con sempre maggiore frequenza e al quale si assegnano tuttavia significati molto diversi. In tema si rinvia a E. Olivito, Giudici e legislatori di fronte alla multiculturalità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica www.statochiese.it, maggio 2011, p. 14; R. Bauböck, Cultural Minority Rights for Immigrants, in International Migration Review, vol. XXX, n. 1, 1996, pp. 203 e 204; B. Parekh, Rethinking Multiculturalism. Cultural Diversity and Political Theory, Harvard University Press, Cambridge, 2000, p. 6; J. T. Levy, The Multiculturalism of Fear, Oxford University Press, Oxford, 2000, p. 5; M. Gianni, Riflessioni su multiculturalismo, democrazia e cittadinanza, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica (QDPE), n. 1, 2000, pp. 3-34; A. Facchi, I diritti nell’Europa multiculturale. Pluralismo normativo e immigrazione, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 9 ss; P. Savidan, Le multiculturalisme, Presses Universitaries de France, Paris, 2009 ( trad it. Il multiculturalismo, Il Mulino, Bologna, 2010; J. A. R. Garcia, Laicità, interculturalità e meticciato costituzionale democratico in Spagna, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, Luglio 2009, p.2 ss intende il multiculturalismo come «la possibilità di organizzare istituzionalmente la diversità delle identità emanate dall’eterogeneità alla quale sembrano ispirate le società democratiche, tra gli altri fatori, a causa dell’immigrazione». Per altri, ancora, il multiculturalismo, che può «essere considerato come un complesso di teorie normative animate dalla volontà di trovare risposte persuasive alla sfida che le identità “culturali” pongono alla politica dell’uguale riconoscimento», è necessariamente legato ai fenomeno della multietnicità e della multireligiosità e può costituire una valida risposta ad essi anche se non necessariamente l’unica. Così E. Greblo, Modelli di multiculturalismo, in Esercizi filosofici, 4, 2009, pp. 154- 171, ivi p. 154; Cfr. M. L. Zuppetta, Società multietnica e multiculturalismo. Il caso del Canada, in www.amministrazioneincammino.luiss.it.; W. Kymlicka, Le sfide del multiculturalismo, in Il Mulino, Rivista bimestrale di cultura e di politica, anno XLVI, numero 370,2/97, pp. 199-217
[2] «Con il termine di globalizzazione intendiamo quel processo, più correttamente, quell’insieme di processi per cui: aumentano quanto a numero e si rafforzano quanto ad intensità i contatti, le relazioni, gli scambi e i rapporti di dipendenza e di interdipendenza fra le diverse aree del mondo[…] si trasforma la rilevanza che le dimensioni “spazio” e “tempo” hanno sul numero, sulla natura e sull’intensità di tali relazioni e rapporti […]aumenta e si diffonde tra gli abitanti del pianeta la consapevolezza dell’esistenza di tali legami e rapporti, nonché della rilevanza che essi assumono per la propria esistenza personale». Così M. Caselli, Globalizzazione e sviluppo. Quali opportunità per il sud del mondo? Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp.1718. Non vi è dubbio che «la globalizzazione è un fenomeno di carattere pervasivo e multidimensionale; non vi è ambito della vita sociale che attualmente non sia, con maggiore o minore forza ed intensità, attraversato e plasmato da essa. Semplificando e generalizzando in maniera estrema possiamo individuare l’esistenza di una dimensione economica, di una dimensione politica e di una dimensione culturale dei processi di globalizzazione». Così M. Caselli, Globalizzazione e sviluppo. Quali opportunità per il sud del mondo?, Vita e Pensiero, Milano, 2002, p.18. La globalizzazione in qualche modo può rappresentare uno strumento di riduzione delle distanze tra individui, gruppi e popoli diversi, tra idee, culture, religioni e politiche differenti che, oggi, vengono a contatto, si incontrano e si scontrano più velocemente che nel passato. Cfr. P. Consorti, Religioni e democrazia nel processo di globalizzazione, in P. Della Posta, A.M. Rossi (a cura di), Effetti, potenzialità e limiti della globalizzazione, Springer -Verlag Italia, Milano, 2007, pp. 11-26; P. Consorti, Globalizzazione della democrazia, laicità e religioni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), giugno 2007; U. Melotti, Migrazioni internazionali: globalizzazione e culture politiche, Mondadori, Milano, 2004; Sull’importanza che ha il fenomeno della globalizzazione sul multiculturalismo si rinvia ai seguenti Autori: A. Nesti, Multiculturalismo e pluralismo religioso fra illusione e realtà: un altro mondo è possibile?, Università Press, Firenze, 2006, pp. 7-10; A. Di Bella, Popolazione e flussi migratori, in L. Ruggiero e L. Scrofani (a cura di) Temi di geografia economica, Giappichelli Editore, Torino, 2012, p. 51. Sulle origini storiche della globalizzazione e le attuali implicazioni vedi : G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, dal 1848 ad oggi, Laterza, 2008; R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2012, p. 23; M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 43 ss.; D. Belliti, Globalizzazione e stati nazionali: la ridefinizione dell’identità, in “Democrazia e diritto”, 1999, n. 3, p. 175 ss; circa l’incidenza che i processi di globalizzazione hanno sulla sfera propria del diritto si rinvia a P. Lillo, Globalizzazione del diritto e fenomeno religioso, Giappichelli, Torino, 2012, p. 181 ss.; U. Allegretti, Globalizzazione e sovranità nazionale, in Dem. Dir., nn. 3 e 4, 1995, pp.47 ss; D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano, 1995; S. Cassese, La nuova Costituzione economica. Lezioni, Laterza, Roma-Bari, 2000; M. F. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transazionale, Il Mulino, Bologna, 2000; A. Pizzorno, Natura della diseguaglianza, potere politico e potere privato nella società in via di globalizzazione, in Stato e mercato, 2001; P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., V, 2002; A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Laterza, Roma- Bari, 2002; A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994.
[3] «Sempre più di frequente, infatti, ci si imbatte nella doppia tematica della globalizzazione e della frammentazione e da molti autori viene rilevato come il processo di globalizzazione sia un fenomeno in tensione costante con quello della frammentazione (o localizzazione) che le si oppone sia in termini di tendenza alla disgregazione, all’autarchia e all’isolamento sia in termini di separatismo etnico- nazionalistico e di integrazione regionale». Così S. Fariello, I diritti fondamentali nella società multiculturale: il contributo della sociologia del diritto, in www.dirittifondamentali.it n. 1/2012; cfr. S. Fariello, Globalizzazione, frammentazione, conflitti: la dimensione globale dei processi di decentramento, in Rivista italiana di conflittologia, n. 3, AIC, Benevento, 2007; C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del XX secolo (1995), Il Mulino, Bologna, 1999; Il graduale processo di globalizzazione non solo ha incentivato i contatti e le mescolanze tra diverse culture ma ha anche radicalmente inciso su processi di formazione di nuove culture localistiche. Del resto, il fenomeno   di interconnessione globale ( U. Beck, Was ist Globalisierung? Irrtumer des Globalismus. Antworten auf Globalisierung, Frankfurt, 1997, trad. it., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma, 1999; I. Clark, Globalization and Fragmentation: International Relations in the Twentieth Century, Oxford 1997, trad. it., Globalizzazione e frammentazione. Le relazioni internazionali nel XX secolo, Il Mulino, Bologna, 2001) se da una parte porta con sé il rischio di derive di omogeneizzazione (Cfr., Z. Bauman, The Bauman Reader, Oxford, 2001, trad. it., Globalizzazione e glocalizzazione: saggi scelti a cura di Peter Beilharz, Armando Editore, Roma, 2005) dall’altra ha generato anche una vera e propria lotta per la rivendicazione della diversità che raggiunge i toni più alti proprio sul terreno religioso e sul terreno culturale (Cfr. P. Mengozzi, Cittadinanza comune e identità nazionali e culturali, in L. Leuzzi, C. Mirabelli (a cura di), Verso una Costituzione Europea, Marco Editore, Cosenza, 2003, II, p. 479 ss., in part. p. 485). Con la globalizzazione, se da una parte si afferma la dimensione planetaria della tecno-economia, autentico non luogo privo di confini, per altro verso, invece, resistono le piccole patrie, le province della terra custodi delle differenze, dove vige la potenza includente ed escludente del confine (il riferimento è alla c.d. “voglia di comunità” teorizzata da Z. Bauman, Missing Community, Cambridge 2000, trad. it., Voglia di comunità, Laterza, Roma- Bari, 2001. Cfr. P. F. Savona, Diritti culturali e società “glocale”: una questione di riconoscimento o di giustizia sociale?, in Sociol. del dir., 3/2009, pp. 21-38, ivi p. 27, richiamando le posizioni di J. Habermas, Teoria della morale, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1994, ha parlato di «reificazione omologante dei processi di individualizzazione del sé e dei diritti come desideri seriali indotti dalla tecnica – che producono sempre più individui senza individualità‟ – ma anche (…) assolutizzazione di esasperati localismi e di pretese di appartenenza ad una comunità particolare, non più alimentate da quei processi di autochiarificazione etica (…) di una collettività, che ne garantiscono la continuità come il rinnovamento nella tradizione, attraverso l‟assunzione di consapevolezza critica del comune patrimonio etico e la stabilizzazione giuridica delle possibilità di rinnovarlo e vivificarlo, nelle mutate condizioni del tempo storico»); Si veda anche R. Robetson, Globalizzazione: teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste, 1999 che ha proposto il fortunato termine di glocalization per designare l’interazione complessa fra universalismo e particolarismo soprattutto dal punto di vista della percezione riflessiva che i soggetti all’interno del processo di globalizzazione; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma, 1999.
[4] Cfr. A. Colombo, La disunità del mondo, Feltrinelli, Milano, 2010; S. Ferrari, Religioni, Diritto e Conflitti sociali, in An. Der. Ecl. Est., 2007, p.45 ss.; G. Marramao, Cosmopolitismo della differenza. Il diritto dopo Babele, in Daimon, 2008/8, p. 51, ritiene che il mondo sembri «dominato dagli effetti stranianti di una bilogica, in virtù della quale alla struttura uniformante della tecnoeconomia e dell’Emporio globale fa riscontro una diaspora crescente delle identità, dei valori, delle forme di vita». Ed inoltre si chiede: «Non è forse il nostro mondo uniformato sempre più simile, come la Torre di Babele, a un compendio cacofonico di proliferanti e intraducibili idiomi?». Ed infine afferma a pagina 52 che nel mondo «la differenziazione procede di pari passo con l’uniformazione e le spinte centrifughe, autonomistiche e idiosincratiche con l’omologazione tecnologico-mercantile degli stili di vita e di consumo». Su questi temi cfr., da ultimo, AA.VV., La coesistenza religiosa: nuova sfida per lo Stato laico, a cura di G.B. Varnier, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, e R. Aumann, Razionalità, Cooperazione, Conflitto, a cura di E. Minelli, Morcelliana, Brescia, 2008.
[5] Ad esempio, per L. Mancini «l’espressione società multiculturale indica tanto una situazione di fatto, vale a dire la presenza e la convivenza nel medesimo luogo di individui e gruppi caratterizzati da una propria cultura, quanto un progetto politico istituzionale volto a riconoscere la differenza culturale. Il primo significato attiene alla dimensione sociale del fenomeno; il secondo a quella prescrittiva»; Così L. Mancini, Società multiculturale e diritto. Dinamiche sociali e riconoscimento giuridico, Clueb, Bologna, 2000, p. 5. Per C. Ricci, Diritti Fondamentali, multiculturalismo e diritto alla diversità culturale: appunti a margine della Convenzione Unesco sulla protezione e promozione della diversità culturale, in I diritti dell’uomo, 2007, p. 50 la moderna società multiculturale consiste nella «coesistenza di culture diverse all’interno di un medesimo spazio, esprimenti identità e, quindi, valori differenti».
[6] E’ innegabile che in questo contesto il diritto viva una fase di profonda crisi le cui origini sono da individuarsi anche nel tramonto o almeno nella metamorfosi della sovranità e nell’appannamento del concetto di stato-nazione, la dispersione della categoria delle fonti del diritto che ha comportato la perdita di identità del concetto stesso di fonte. I disagi che derivano da questa crisi interessano non solo il legislatore o il giudice, che deve interpretare ed applicare le norme dello Stato ma anche l’utente del diritto che richiede la tutela ed il riconoscimento di quelli che sono i suoi diritti fondamentali. Cfr. S. Ferlito, Società multireligiosa e interpretazione giuridica, in A. Fuccillo (a cura di), Multireligiosità e reazione giuridica, Giappichelli Editore, Torino, 2008, p. 145.
[7] Rappresenta un esempio il diritto di famiglia che è una delle discipline maggiormente influenzato da un lato dalla tradizione culturale dei Paesi e, dall’altra, dall’avvento delle nuove culture; cfr. A. Fuccillo, Attribuzioni e libertà individuali tra famiglia legittima, famiglia naturale e multireligiosità, in Diritto e Religioni, Luigi Pellegrini Editore, Anno I- 1 / 2 del 2006, pp. 264 ss.
[8] Spesso, quest’equilibrio lo si pretende interpretare col perseguimento della scomparsa delle differenze, e quindi con l’assordimento, in senso negativo, da parte della collettività predominante, di tutti gli aspetti culturali dei diversi. Su questo particolare fenomeno cfr. G. Zagreblesky, La virtù del dubbio. Intervista su etica e diritto, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 120.
[9] G. Zaccaria, Pluralismo, ermeneutica, multiculturalismo: una triade concettuale, in Ragion Pratica, 2/2008, pp. 559-586.
[10] In tema M. Ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 257-264, afferma che l’idea di comunità non debba essere elaborata in base alla metafora della casa poiché, in base ad essa, si perviene ad una immagine di comunità come “case” nelle quali i diritti o le situazioni giuridiche imputabili ad esse o ai loro appartenenti risultano essere perfetti, in transigibili , da accogliere o rigettare in toto. Sarebbe auspicabile secondo l’Autore adottare, invece, la metafora del porto poiché, a differenza della casa, i porti sono sì luoghi sicuri di rifugio, luoghi a cui l’individuo può idealmente far ritorno ma che, al tempo stesso rimangono privi delle connotazioni di isolamento e stabilità tipici del concetto di casa. Attraverso il suo significato intimamente relazionale, infatti, il porto «presuppone sempre un altrove; affaccia su un altrove» . Così per l’Autore «applicare la metafora concettuale del porto alla prassi giuridica delle relazioni tra stato e comunità culturali avrebbe come conseguenza pratica immediata la creazione o comunque la spinta a dar vita ad un soggetto di diritto interculturale frutto e presupposto del continuo riprodursi di dinamiche di riconoscimento».
[11] Non può negarsi, difatti, che la religione sia essenzialmente un sistema culturale dai cui significati le persone traggono senso ed orientamento per la propria esistenza e per il mondo sociale. Sul punto cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 114 ss.
[12] M. R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Il Mulino, Bologna, 2002.
[13] Cfr. A. Carrino, Sovranità e Costituzione nella crisi dello Stato moderno, Giappichelli, Torino, 1998.
[14] F. Viola, G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 187.
[15] Ibidem.
[16] AA. VV., Politica e mondo globale. L’internazionalizzazione della vita politica e sociale, a cura di P. Fantozzi e A, Mantovani, Carocci, Roma, 2009.
[17] Cfr. M. Prospero, Politica e Società Globale, Laterza, Roma- Bari, 2004.
[18] Cfr. B. Biancheri, Accordare il mondo. La diplomazia nell’età globale, Roma – Bari, 1999; F. A. Cusimano, La crisi contemporanea e l’uomo planetario, Cedam, Padova, 1993.
[19] Così P. Lillo, Globalizzazione del diritto e fenomeno religioso, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 178-179; cfr. F. Galgano, Il volto giuridico della globalizzazione, in Quad. Cost., 2001,3, p. 626 ss., spec p. 627; F. Attinà, Il sistema politico globale. Introduzione alle relazioni internazionali, Laterza, Roma- Bari, 2007; C. De Fiores, I diritti inviolabili dell’uomo tra crisi della sovranità ed uso della forza, in Pol. Dir., 2000, 2, p. 239 ss.
[20] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 1.
[21] M. Ricca, Le religioni, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 127.
[22] In tal senso cfr. A. E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Napoli, Liguori, 1999, p. 23 ss; W. Kymlicka, Multicultural Citizenship, Oxford University Press, Oxford, 1995, trad it. G. Gasperoni, La cittadinanza multiculturale, Il Mulino, Bologna,1999, p. 184 ss; J. Raz, Value, Respect and attachment, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, trad. it. F. Belvisi, I valori fra attaccamento e rispetto, Diabasis, Reggio Emilia, 2003.
[23] E’ la molteplicità di idee, di caratteri e di tradizioni che crea il pluralismo identitario che caratterizza la nostra società. Poiché, inoltre, anche in capo ai singoli individui è possibile ravvisare l’influenza di una molteplicità di ideologie e consuetudini si può affermare che «non soltanto le società sono dunque multiculturali, ma anche le persone». Così A. Gutmann, La sfida del multiculturalismo all’etica politica, in Teoria politica, 1993, III, p .15.
[24] F. Viola, Conflitti di identità e conflitti di valori, in Ars Interpretandi, 10, 2005, pp. 61-96.
[25] Secondo l’antropologo Ralph Linton il motivo per il quale gli esseri uomini sviluppano naturalmente la tendenza a giudicare le culture altre secondo i criteri che sono specifici della propria, creandosi visioni del mondo e assumendo atteggiamenti che si definiscono etnocentrici, risiede nel fatto che l’uomo nel corso della sua storia ha avuto solo una vaga consapevolezza dell’esistenza della cultura nella quale è immerso; cfr. R. Linton, Lo studio dell’uomo, Il Mulino, Bologna, 1973, pp. 359-260.
[26] Cfr. F. D’Agostino, Pluralità delle culture e universalità dei diritti, in C. Vigna, S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 33- 50.
[27] L’alterità è elemento essenziale nella costruzione della identità. L’identità della persona, infatti, non si costruisce autonomamente ma anche attraverso riconoscimenti con l’immagine che l’altro ha di sé e di noi. L’identità del soggetto è autorappresentazione che il soggetto ha di sé in apporto con l’altro e si acquista nel momento in cui si ha la capacità di comunicare con l’altro. Cfr. M. Castiglioni, La mediazione linguistico-culturale. Principi, strategie, esperienze, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 38 ss; F. D’Andrea, A. De Simone, A. Pirni (a cura di), L’Io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Morlacchi, Perugia, 2004.
[28] Cfr. M. Ricca, Culture interdette. Modernità, migrazioni, diritto interculturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2013; M. Ricca, Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale. Alterità e storia nell’agire giuridico interculturale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica” 2/2010, pp. 521-552.
[29] Sul tema del dialogo quale «esercizio di tutta una vita» si rinvia a N. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo tra religioni, Jeca Book, Milano, 2001; AA. VV., Il coraggio del dialogo. Quando la diversità è forza, Giuffrè, Milano, 2002.
[30] Come afferma Habermas l’inclusione dell’altro non significa assimilazione dell’altro né chiusura verso il diverso, ma apertura verso gli altri che tali vogliono rimanere. Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano, 1998.
[31] Si rinvia a M. Magatti, La società dell’altro. Sul potenziale universalistico dell’alterità, in R. De Vita e F. Berti (a cura di), Pluralismo religioso e convivenza multiculturale. Un dialogo necessario, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 39 ss.
[32] Sul tema C. Vigna, S. Zamagni (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano, 2002; D. Di Iasio, L’Io e l’Altro. La relazione interculturale nella società dei migranti, Milella, Lecce, 2003.
[33] Ricoeur e Lévinas sono tra i filosofi più autorevoli che affrontato il tema dell’alterità. Per Ricoeur «il tema dell’identità, la questione dell’identità costituisce un luogo privilegiato di aporie» (P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaka Book, Milano, 1993, p. 225). La crisi di autocertezza delle filosofie soggettivistiche o idealistiche del cogito forma la cornice entro la quale rielabora la teoria dell’identità personale del soggetto come problema dell’ipseità e della dialettica del sé e dell’altro da sé. L’idea di fondo è che se nessuno è dato a se stesso semplicemente e immediatamente come io, ciascuno ha da interpretarsi ermeneuticamente da parlante e da agente come un sé. Il tentativo di comprendere il sé (Self) può realizzarsi solo se posto in relazione agli altri sé (Selves) ovvero nelle reti relazionali di cui è parte. Si veda sul tema F. Scamardella, Dignità, riconoscimento, relazionalità ovvero “la dignità come relazione”, in A. Abignente, F. Scamardella (a cura di), Dignità della persona. Riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013, pp. 155-173.
Lévinas, a sua volta, sostiene che il soggetto è destinato a trovare il proprio senso solo con l’altro e di fronte all’altro, ossia attraverso un rapporto interumano che prevede l’esperienza dell’alterità. Per conferire senso alla sua esistenza il soggetto responsabile si espone ad altri, si fa suo prossimo, lo assume su di sé, giungendo a sostituirsi a lui nella sua stessa responsabilità. La vera identità del soggetto responsabile non si ha quindi nel suo essere, bensì nel suo atteggiamento di soggetto responsabile e disponibile senza riserve nei confronti dell’altro. Per Lévinas l’alterità, quindi, non solo non è un disvalore, ma è il valore etico più elevato.
[34] Sul carattere insidioso e problematico della contrapposizione “noi” e “gli altri” e sulle diverse declinazioni che, nel corso del tempo, diacronicamente e sincronicamente, nei contesti più vari e disparati si sono date su tale contrapposizione si rinvia a T. Mazzarese, Noi, gli altri e la tutela dei diritti nelle società multiculturali, in Id. (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Giappichelli, Torino, 2013, p. 251 ss.
[35] Cfr. C. Corsi, Lo Stato e lo straniero, Cedam, Padova, 2001; T. Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino, 1991; Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Mondadori, Milano, 2002, p. 38 ss; Si veda anche T. Macrì, la società e lo straniero. Per un diritto ospitale nell’età della globalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2003.
[36] Sul tema P. A. Cavalieri, Vivere con l’altro per una cultura della relazione, Città Nuova, Roma, 2007, pp. 23-25.
[37] Così S. E. Card. Jean-Louis Tauran, L’identità cattolica nell’incontro interreligioso, in F. Korner, La riscoperta dell’identità religiosa, Mediagraf, Roma, 2013, pp. 7-17.
[38] L’alterità come arricchimento individuale e collettivo e quindi come potenzialità si trova in F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma- Bari, 1996; F. Remotti, Identità o convivenza?, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Giappichelli Editore, Torino, 2013, pp. 55-85.
[39] Del resto «se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver bene considerato, ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori». Così Erodoto, Sorie, Bur, Milano, 1984, p. 38.
[40] Così G. Dammacco, Multiculturalismo e mutamento delle relazioni, in Antonio Fuccillo (a cura di), Multireligiosità e reazione giuridica, Giappichelli, Torino, 2008, p. 83.
[41] M. Ambrosini, E. Garau, Religioni, immigrazione e laicità degli Stati: equilibri mobili e dinamiche di cambiamento, in Quad. dir. pol. eccl., 2016, 1, pp. 253-254
[42] F. Viola, Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, in C. Vigna, S. Zamani, Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 107-109; Circa i fenomeni del multiculturalismo e del pluralismo religioso, cfr. ex plurimis C. Cardia, voce Multiculturalismo (dir. eccl.), in  Il diritto. Enciclopedia giuridica de Il Sole 24 Ore, 9, 2007, p. 722; M. Durante, La questione multiculturale: nuove basi simboliche per la comprensione del dispositivo politico e giuridico contemporaneo, in Filosoa Politica, Rivista filosofica dei concetti poli-tici, 2, 2007, p. 269; M. L.  Lanzillo,  Il multiculturalismo, Laterza, Roma-Bari, 2005;  J.  Habermas, C. Taylor,  Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2010; AA.VV.,  Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di S. Domianello, Il Mulino, Bologna, 2012; P. Consorti, Pluralismo religioso: reazione giuridica multiculturalista e proposta interculturale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2007; M. C. Folliero,  Libertà religiosa e società multiculturali: la risposta italiana, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), giugno 2008; M. Gianni,  Riessioni su multiculturalismo, democrazia e cittadinanza, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 2000, p. 3 ss.; G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000; AA.VV., Simboli e pratiche religiose nell’Italia multiculturale. Quali riconoscimenti per i migranti?, a cura di A. Deoto, Edies-se, Roma, 2010; A. Barrero Ortega,  Multiculturalismo y libertad religiosa, in  Anuario de  Derecho Eclesiástico del Estado, 27, 2011, pp. 21-38; M. Helfand,  Religious arbitration and the new multiculturalism: negotiating conicting legal orders, in New York University Law Review, 86, 5, 2011, pp. 1231-1305, il quale fa distinzione tra vecchio e nuovo multiculturalismo, riferendosi con il primo ad un approccio teorico e pratico che, nel dedicare particolare attenzione ai temi classici del rapporto tra diritto statale e istanze dei gruppi religiosi minoritari, valorizza il principio di riconoscimento dell’altro posto a base dei principi di eguale libertà ed uguale dignità, mentre con il secondo assume una nuova centralità il principio di autonomia dei gruppi religiosi e dei loro diritti, valorizzando la differenziazione delle giurisdizioni religiose rispetto all’ordinamento statale; similmente, P.  Annicchino, G. Fattori, Diritto ecclesiastico e canonico tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ multiculturalismo, in AA.VV.,  Diritto e religione, a cura di G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Plectica, Salerno, 2012, pp. 345-365; M. d’Arienzo, Diritti culturali e libertà religiosa, in Diritto e Religione, Anno IX, n.2, 2014, pp. 577-594.
[43] Cfr. C. Kluckhohn, A. L. Kroeber, Culture. A critical review of concepts and definitions, Peabody Museum, Harvard, 1952; F. Remotti , Cultura (voce), in Enciclopedia delle scienze sociali, II, Roma, 1992, p. 641 ss. Sull’evoluzione del significato di cultura v. anche D. Ferri, La dimensione prescrittiva della cultura. Un’analisi comparata tra significante e significato, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2009, 1, p. 14 ss.; B. Parekh, Rethinking Multiculturalism. Cultural Diversity and Political Theory, New York, 2006, p. 2 ss.
[44] Ivi, pp.61-62.
[45] A. G. M. Chizzoniti, Multiculturalismo, libertà religiosa e norme penali, in G. De Francesco, C. Piemontese, E. Venafro ( a cura di), Religione e religioni: prospettive di tutela, tutela della libertà, Giappichelli, Torino, 2007, p. 29.
[46] G. Dalla Torre, Identità religiosa, comunità politica e diritto, in Studi in onore di Gaetano Catalano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1998, Tomo II, pp. 479-480.
[47] In tal senso M. Ricca, Multireligiosità, multiculturalità, reazioni dell’ordinamento. Tre segnavia per il diritto interculturale, in Multireligiosità e reazione giuridica, a cura di A. Fuccillo, Giappichelli Editore, Torino, 2008, pp. 157-180, ivi p. 157.
[48] Si può convenire agevolmente sul punto, sul quale è facile l’unanime adesione, secondo cui la cultura religiosa costituisce un fattore determinante della identità culturale di un popolo pur prescindendo da ogni eccesso di integralismo, è quello che condiziona il Weltanschauung di questo, vale a dire il modo, più o meno consapevole, di percepire la vita, in conseguenza l’impiego del termine “cultura” nell’accezione di Kultur, anche in atti normativi, deve ritenersi che includa anche il fattore religioso. E rimane anche assodato che ogni disciplina giuridica intesa a tutelare l’identità culturale non può e non deve esaurirsi nelle previsioni a carattere generale adottate dallo Stato, quantomeno non solo in queste, poiché è difficile che da un tale angolo visuale possa attenuarsi il delicato profilo della preoccupazione per l’ordine pubblico, invero importante ma non sufficiente, per garantire ogni forma di pacifica convivenza fra culture diverse. In tal senso il Prof. Giuseppe Palma nel suo intervento- L’odierna dimensione del fenomeno migratorio impone una più profonda riflessione in termini di multiculturalismo ed interculturalismo- ad un interessante seminario tenuto presso la Facoltà di Giurisprudenza della Federico II, organizzato dal prof. Maria d’Arienzo sul tema: Pluralismo religioso ed ordinamento italiano.
[49] Non vi è dubbio che «le religioni (…) siano fenomeni che appartengono alla dimensione di lunga durata e che costituiscano perciò una delle forze primarie che concorrono a forgiare le strutture di fondo dell’ordine sociale e culturale, una di quelle matrici di senso che disegnano il volto di una civiltà ed imprimono un marchio indelebile sulla dimensione giuridico- normativa». Così S. Ferlito, Presentazione, in H. P. Glenn, Tradizioni giuridiche nel mondo. La sostenibilità della differenza, Il Mulino, Bologna, 2011, p. XVI.
[50] Sul tema si veda anche I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Franco Angeli, Milano, 2012 in cui l’Autrice propone, in vari punti del testo, l’assimilazione tra cultura e religione considerabili essenzialmente entrambi come possibili epifenomeni della identità personale. In tal senso, continua l’Autrice, il fatto che i conflitti religiosi siano tendenzialmente risolti con tecniche argomentative almeno in parte diverse rispetto ai conflitti culturali, deriva da una storica, tradizionale prevalenza della libertà religiosa come libertà negativa costituzionalmente riconosciuta e tutelata, e dalla traduzione di tale fenomeno in una distinzione tra cultura e religione generalmente a vantaggio della seconda. Tale distinzione sarebbe però discutibile filosoficamente, antropologicamente, giuridicamente.
[51] M. Ricca, Unità dell’ordinamento giuridico e pluralità religiosa nella società multiculturali, in Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, n.1 aprile 2000, pp. 72- 129, ivi p. 87.
[52] La «distinzione tra cultura e religione, che può giustificarsi storicamente e di cui si trova eco sia nei testi giuridici che in gran parte dell’argomentazione giudiziale, si rivela oggi però sempre più discutibile. Per varie ragioni. Filosoficamente, sia cultura che la religione sono elementi costitutivi dell’identità. Anzi, a seguito della secolarizzazione la religione va perdendo il suo ruolo di fattore identitario fondamentale nel costituire la percezione de sé di ciascun consociato. Antropologicamente, i concetti non hanno un’autonomia ontologica e del tutto simili sono i processi cui vanno incontro». Così I. Ruggiu, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, FrancoAngeli, Milano 2012; cfr. S. Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005.
[53] Il potere statale si così trovato ad affrontare problemi parzialmente inediti «quando, a seguito di sensibili mutamenti nella stratificazione della popolazione, hanno cominciano a radicarsi gruppi sociali che traggono la propria identità da etnie, culture, religioni, diverse e lontane rispetto a quelle tradizionali». Così C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea, legislazione italiana, Giappichelli, Torino, 2010, p. 191.
[54] M. C. Folliero, La ‘forma’ attuale della laicità e la (legge sulla) libertà religiosa possibile, in Dir. Eccl., 2007, 1-2, p. 108.
[55] M. Ricca, Le religioni, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 127.
[56] Come rilevato da Daniela Bifulco, Spunti di riflessione su pluralismo, multiculturalismo e laicità, in Marco Parisi (a cura di), Per una disciplina democratica delle libertà di pensiero e di religione: metodi e contenuti, Arti Grafiche La Regione, Campobasso, 2014, p. 103, si ha l’impressione «(…) complessiva che molte democrazie contemporanee – e l’Italia, tra queste – siano impegnate, oltre che nelle sfide del multiculturalismo, nel perfezionamento del passaggio da un multiculturalismo e una pluralità (di fatto) al pluralismo (giuridico) e che quel dato di fatto (la pluralità, il multiculturalismo) non si sia ancora compiutamente inverato in una precisa opzione (di metodo istituzionale, oltre che di valore) pluralista» (corsivi testuali).
[57] Cfr. D. Grimm, Wachsende Staatsaufgaben – sinkende Steuerungsfähigkeit des Rechts, Baden-Baden, Nomos, 1990.
[58] Cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006, p. 217 ss.
[59] S. Vertovec, Super-diversity and its implications, in Ethnic and Racial Studies, 30 n. 6, (2007), pp. 1024-1054; M. Martiniello, Howto combine integration and diversities: The challenge of an EU multicultural citizenship, in R. Lewis (ed.),Multiculturalism Observed. Exploring Identity, Brussels, BrusselsUniversity Press, 2006, pp. 31 ss.
[60] Cfr. J. Raz, Multiculturalism, in Ratio Juris, 3, 1998, pp. 193-205, ivi p. 197.
[61] Nella società multiculturale «il singolo si trova calato in un reticolo normativo in cui egli non è più soltanto soggetto al diritto, ma è – al contrario – soggetto del diritto, attore in grado di scegliere le norme in base alle quali orientare il proprio comportamento». Tale situazione è stata definita da Boaventura de Sousa Santos come «interlegalità». Cfr. F. Belvisi, I lati oscuri di un abbaglio. Ovvero: società multiculturale, costituzione e diritto, in U. Melotti (a cura di), L’abbaglio multiculturale, SEAM, Roma, 2000, pp. 91-135; B. de Sousa Santos, Law: A Map of Misreading. Toward a Postmodern Conception of Law, in Journal of Law and Society 3, 1987, pp. 279-302; B. de Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione post-moderna. Per un nuovo senso comune giuridico, in Sociologia del diritto, 3, 1990, pp. 5-34.
[62] R. Dworkin, L’impero del diritto, Il Saggiatore, Milano, 1989, capitolo 7.
[63] C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea, legislazione italiana, Giappichelli, Torino, 2010, p. 191.
[64] F. Macioce, La laicità e l’integrazione sociale: un rapporto ambiguo, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), settembre 2016
[65] Malgrado le profonde differenze, tutte le religioni hanno una vera e propria dimensione normativa poiché tutte sono portatrici di precetti che orientano e condizionano tanto gli ideali, le credenze interiori, le motivazioni profonde e le aspirazioni, quanto i comportamenti esteriori e socialmente rilevanti di volta in volta imponendo, vietando, o almeno suggerendo o sconsigliando, il comportamento di atti assai più vasti e numerosi; cfr. S. Ferlito, Le religioni il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 53 ss.
[66] Cfr. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 44.
[67] C. Del Bo, La neutralità necessaria. Liberalismo e religione nell’età del pluralismo, ETS Edizioni, Pisa, 2014.
[68] A. Pin, Laicità e Islam nell’Ordinamento italiano. Una questione di metodo, Cedam, Padova, 2010.
[69] Corte Costituzionale, sentenza n. 203/1989.
[70] Cfr. sul tema L. Zannotti, La sana democrazia. Verità della Chiesa e principi dello Stato, Giappichelli, Torino, 2005, p. 255.
[71] C. Mirabelli, Intervento alla Tavola Rotonda. Laicità dello Stato, confessioni religiose e multiculturalismo, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2, 2006, pp. 354-366.
[72] V. Bader, Secularism or Democracy? Associational Governance of Religious Diversity, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2007; si veda anche, per un interessante mutamento di prospettiva rispetto a scritti di anni precedenti, C. Joppke, A Christian Identity for the Liberal State?, in British Journal of Sociology, 64, no. 4 (2013).
[73] Cfr. M. Ventura, Funerali o battesimo della laicità? Una nuova politica religiosa italiana ed europea, in R. De Vita, F. Berti, L. Nasi (a cura di), Democrazia, laicità e società multireligiosa, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 83.
[74] In questi termini F. Freni, La libertà religiosa tra solidarietà e pluralismo. Analisi e proposte sul modello di laicità «all’italiana», Jovene Editore, Napoli, 2013, p. 15.
[75] Così S. Ferrari, Diritto e religione nello Stato laico: islam e laicità, in G. E. Rusconi (a cura di), Lo Stato secolarizzato nell’età post-secolare, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 317.
[76] F. Macioce, La laicità e l’integrazione sociale: un rapporto ambiguo, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), settembre 2016.
[77]Cfr. G. Rolla, La libertà religiosa in un contesto multiculturale, in E. Ceccherini (a cura di), Pluralismo religioso e libertà di coscienza, Milano, Giuffrè, 2012, p. 113.
[78] Cfr. M. C. Folliero, Multiculturalismo e aconfessionalità: versioni attenuate dei principi di pluralismo e laicità, in A. Fuccillo (a cura di), Multireligiosità e reazione giuridica, cit., pp. 115-125.
[79] Cfr. N. Colaianni, La fine del confessionismo e la laicità dello Stato. Il ruolo della Corte costituzionale e della dottrina, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), luglio 2008, pp. 43-44.
[80] C. Cardia, Laicità, diritti umani, cultura relativista, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), novembre 2009, p. 23.
[81] G. Casuscelli, La crisi economica e la reciproca collaborazione tra le Chiese e lo Stato per “il bene del Paese”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), ottobre 2011, pp. 30-32.
[82] V. Tozzi, C’è una politica ecclesiastica dei Governi. E la dottrina?, in P. Picozza e G. Rivetti (a cura di), Religione, cultura e diritto tra globale e locale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 171.
[83] Per molto tempo l’Occidente ha messo da parte il concetto di tolleranza poiché nelle società le varie differenze ideologiche e culturali dei vari gruppi minoritari, essendo riconducibili comunque ad un complesso di principi e valori condivisi, non compromettevano gli equilibri sociali [Cfr. A. E. Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista, Liguori, Napoli, 1994, p. 9]. L’avvento di gruppi alloctoni e portatori di un complesso valoriale in nessun modo ricollegabile a quello della comunità ospitante ha riportato in auge il concetto di tolleranza. Infatti «più le nostre società diventano multiculturali, più la tolleranza riacquista la sua funzione primaria di regolatrice delle frizioni interreligiose ed interculturali, estende i suoi campi d’applicazione e diviene non solo un criterio di ordine etico, ma un principio giuridico necessario ad assicurare un’armoniosa convivenza tra le culture diverse». Così S. Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 41.
[84] C. Magris, Laicità e religione, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma- Bari, 2005, p. 109 ss.; L’uomo tollerante non è più il portatore di una verità assoluta, ha ormai raggiunto una visione “problematica della verità” che lo rende aperto e disponibile al dialogo. Così R. Gatti, voce Tolleranza in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti, G. Campanini, A.V.E., Roma, 1993, p. 917.
[85] La tolleranza assume inevitabilmente un ruolo centrale nella società multiculturale e multireligiosa a causa proprio dei conflitti che posssono sorgere in ragione della compresenza sullo stesso territorio di gruppi profondamente differenti. Importante appare, in tal senso, il Preambolo alla Dichiarazione dei principi sulla tolleranza dell’ Unesco del 1995 dove gli stati membri, «allarmati dall’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, dell’emarginazione e della discriminazione nei confronti delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori, degli immigrati e dei gruppi vulnerabili in seno alla società, allarmati altresì dall’aumento degli atti di violenza e di intimidazione commessi ai danni di persone che esercitano la propria libertà di opinione e d’espressione, tutti comportamenti questi che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia, sia a livello nazionale, sia internazionale e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo», affermano che «la tolleranza non è soltanto un principio che ci è caro, ma anche una condizione necessaria per la pace ed il progresso economico e sociale di tutti i popoli» poiché «la tolleranza è l’armonia nella differenza».
Inoltre la Dichiarazione di principi sulla tolleranza all’art. 1 afferma che «1.1 La tolleranza è il rispetto, l’accettazione e apprezzamento della ricchezza e della diversità delle culture del nostro mondo, delle nostre modalità d’espressione e dei nostri modi di esprimere la nostra qualità di esseri umani. E‘ incoraggiata dalla conoscenza, dall’apertura mentale, dalla comunicazione e dalla libertà di opinione, di coscienza e di fede. La tolleranza è l’armonia nella differenza. Essa non è solo un obbligo d’ordine etico: è, allo stesso tempo, una necessità politica e giuridica. La tolleranza è una virtù che rende possibile la pace e contribuisce a sostituire alla cultura della guerra una cultura di pace. 1.2 La tolleranza non è né concessione, né accondiscendenza, né compiacenza. La tolleranza è, prima di tutto, un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro. In nessun caso la tolleranza potrà essere invocata per giustificare attentati a tali virtù fondamentali. La tolleranza deve essere praticata dai singoli individui, dai gruppi e dagli Stati. 1.3 La tolleranza è la chiave di volta dei diritti dell’uomo, del pluralismo (incluso il pluralismo culturale), della democrazia e dello Stato di diritto. Essa implica il rifiuto del dogmatismo e dell’assolutismo e rafforza le norme enunciate dagli strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo. 1.4 In conformità al rispetto dei diritti dell’uomo, praticare la tolleranza significa: non tollerare l’ingiustizia sociale, non rinunciare alle proprie convinzioni,non fare concessioni in proposito. La pratica della tolleranza implica che ciascuno possa scegliere le proprie convinzioni liberamente e che accetti che gli altri godano della medesima libertà. Significa accettare che gli esseri umani, caratterizzati naturalmente dalla diversità del proprio aspetto fisico, della propria situazione, del proprio modo di esprimersi, dei propri comportamenti e dei propri valori, abbiano il diritto di vivere in pace e continuare ad essere ciò che sono. Essa significa altresì che nessuno deve imporre le proprie opinioni ad altri».
[86] S.Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 28.
[87] J. Rawls, Political Liberalism (1993), trad. it a cura di S. Veca, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano, 1994.
[88] R. Wolff, B. Moore, H. Marcuse, Critica della tolleranza, Einaudi, Torino, 1970; Inoltre, H. Marcuse, La tolleranza repressiva, in Critica alla tolleranza, Einaudi, Torino, 1968, p. 77 ss. ha rivolto aspre critiche alla tolleranza repressiva normalmente esercitata nei paesi democratici. L’Autore, infatti, ha evidenziato come in realtà si tratti di una realtà alterata poiché mirante a consolidare le posizioni di potere esistenti ed a rafforzare le politiche conservatrici dei governi.
Nella stessa opera, inoltre, Marcuse ha sostenuto la necessità di predisporre dei limiti precisi per la tolleranza, poiché «questa tolleranza non può essere indiscriminata ed uguale nei confronti dei contenuti dell’espressione, né nelle parole né nei fatti; non può proteggere le parole false e i fatti sbagliati che dimostrano che essi contraddicono e vanno contro la possibilità di liberazione. Tale tolleranza indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui, nella conversazione e nella discussione accademica; è indispensabile in un’impresa scientifica, nella religione privata. Ma la società non può essere priva di discriminazioni dove la pacificazione dell’esistenza, la libertà e la felicità stesse sono in pericolo: qui alcune cose non possono venir dette, alcune idee non possono venir espresse, alcune politiche non possono esser proposte, alcuni comportamenti non possono esser permessi senza fare della tolleranza uno strumento per la continuazione della schiavitù».
[89] Walzer riconosce cinque forme e diversi gradi che può assumere la tolleranza: rassegnazione, indifferenza, accettazione, stoica, curiosità ed entusiasmo. Cfr. M. Walzer, Sulla Tolleranza, Laterza, Roma- Bari, 2000.
[90] Walzer ne distingue cinque: gli imperi multinazionali, le sociertà internazionali, le confederazioni, gli stati nazionali e le società di immigrati. Cfr. Cfr. M. Walzer, Sulla Tolleranza, Laterza, Roma- Bari, 2000.
[91] Cfr. F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea (1901), Feltrinelli, Milano, 1991, pp. 10- 11; cfr. M. Tedeschi (a cura di), La libertà religiosa, Tomo I, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, pp. 31-44.
[92] S. Ferlito, Le religioni, il giurista e l’antropologo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 37.
[93] R. Sala, Libertà individuale e appartenenza comunitaria. I limiti del multiculturalismo, in M. Tedeschi (a cura di), Comunità e Soggettività, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp. 161-181.
[94] Anche kelsen ha sottolineato come la tolleranza sia l’elemento essenziale su cui si fonda la convivenza democratica poiché «la democrazia non può essere un dominio assoluto e neppure un dominio assoluto della maggioranza». Così H. Kelsen, I fondamenti della democrazia (1955-1956) , in La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 244 ss.
[95] L’esistenza di gruppi in cui la propensione al confronto è assente, rende molto complessa non solo la convivenza sociale ma anche la posizione dello Stato che, dichiarandosi tollerante ed essendo tenuto a confrontarsi anche con soggetti che tali non sono, corre il rischio concreto di acuire la crisi in cui il sistema statale già versa. Del resto vi è intolleranza tutte quelle volte in cui si vuole «imporre con strumenti coattivi le proprie idee etiche agli altri» [V. Pacillo, I delitti contro le confessioni religiose dopo la legge 24 febbraio 2006, n. 85. Problemi e prospettive di comparazione, Giuffrè, Milano, 2007, p. 165]. Innanzi a tali fenomeni di intolleranza lo Stato ha due possibilità poiché si trova a dover scegliere se tollerare o meno gli intolleranti. La prima soluzione, fondata su di una visione oltranzista della tolleranza, ritiene che lo Stato debba confrontarsi con tutte le voci, anche con quelle potenzialmente pericolose e violente accettando, così, tutti i relativi rischi, al fine di mantenere puro ed inalterato il suo spirito democratico [Cfr. L. Einaudi, Il Buongoverno, Laterza, Roma-Bari, 2004; A. Di Giovane, I confini della manifestazione del pensiero, Giuffrè, Milano, 1988, p. 69 ss.]. Questa teoria della tolleranza pura, seguita in particolare dalla corrente del liberalismo radicale non accetta, quindi, la possibilità che vi possa essere qualche limitazione all’esercizio della tolleranza per il timore che ciò possa in qualche modo corrompere la purezza dello Stato democratico che proprio nella tolleranza ha un suo cardine. In tal senso, Bobbio anche se parte dal presupposto che «tutte le idee debbono essere tollerate tranne quelle che negano l’idea stessa di tolleranza» [N. Bobbio, Il dubbio e la scelta, Carocci, Roma, 1993, p. 211] ritiene che i tolleranti, al pari degli intolleranti, siano uomini di parte, portatori di una propria verità, che mirano a far prevalere su quella degli altri. Ciò che li distingue sta, quindi, nel metodo scelto per far prevalere la propria verità poiché mentre il tollerante sceglie la strada del confronto e del dialogo, l’intollerante opta per la violenza e la contrapposizione. Nonostante questo modo di agire da parte dell’intollerante Bobbio, credendo nel valore pedagogico e persuasivo della tolleranza e ritenendo di conseguenza che l’intollerante debba essere mantenuto comunque nel seno della società democratica, esclude qualsiasi atto di discriminazione o di ghettizzazione [N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 240 ss.; cfr. T. Moro, Utopia, a cura di Luigi Firpo, Guida, Napoli, 2000, p. 287]. Così, per Bobbio appare sicuramente «meglio una libertà sempre in pericolo ma espansiva che una libertà protetta ma incapace di svilupparsi. Solo una libertà in pericolo è capace di rinnovarsi. Una libertà incapace di rinnovarsi si trasforma presto o tardi in una nuova schiavitù» [ Così N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, p. 250; cfr. J. S. Mill, Sulla libertà, Il Saggiatore, Milano, 1993]. Per la seconda tesi, invece, è considerato ammissibile disporre dei limiti alla tolleranza proprio per perseverarne la concreta attuazione. Questa concezione si fonda sulla constatazione che in ogni ordinamento esiste un nucleo di valori inviolabili, che non possono essere in alcun modo sacrificati, neppure sull’altare della tolleranza [ cfr. A. Di Giovane, I confini della manifestazione del pensiero, Giuffrè, Milano, 1988, p. 72 ss.].
[96] La tolleranza rappresenta così «finalità precipua dello Stato moderno in quanto affermazione della diversificazione culturale contro ogni pretesa di omologazione dei valori, spesso sottesa all’artificiosa e ideologica omogeneità che l’impersonalità della legge e la neutralità dello Stato pretenderebbero di assicurare». Così M. d’Arienzo, Attualità della tolleranza, in Dir. Eccl. , 2004, I, p. 508.
[97] La laicità diviene il collante tra le opposte tendenze, il denominatore comune valido e applicabile a tutti i gruppi. La laicità riscopre, dunque, il suo valore e viene chiamata ad adempiere a una funzione di educazione alla convivenza quale «strumento e metodo insostituibile di governo di una società che vuole essere portatrice di valori di libertà e sceglie di non indulgere nella realizzazione di enclaves in nome di un malinteso diritto di libertà, del rispetto delle radici e dei valori culturali, delle credenze religiose di un’etnia o di un popolo»: Così G. Cimbalo, Laicità come strumento di educazione alla convivenza, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, marzo 2007. Lo Stato laico deve, quindi, porsi come punto di convergenza delle diverse ideologie, senza assumere alcuna come propria. In questo senso esso è neutrale. Neutralità che, a sua volta, non deve essere intesa in senso negativo ma anche in una dimensione positiva e cioè come lo sforzo di impedire la prevaricazione di determinate concezioni e il loro imporsi esclusivo su tutte le altre. Così facendo lo Stato garantisce che le scelte collettive, specialmente quelle che non appaiono come moralmente neutre, avvengano attraverso un procedimento di decisione pubblica e, dunque, in forma dialogica. Sul punto cfr. F. Rimoli, voce Laicità, in Enc. Giur., Vol. XVIII, Treccani, Roma, 1990, pp.3-5; F. Rimoli, Democrazia, pluralismo, laicità, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013.
[98] Il principio di ragionevolezza su cui si fonda la tolleranza necessita di reciproca disponibilità tra le parti che debbono essere, quantomeno, propense ad ascoltare le ragioni altrui.Cfr. K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 604.
[99] Il concetto di tolleranza esige, quindi, un ripensamento non essendo più sufficiente l’atteggiamento di indulgenza di chi guarda le posizioni diverse dalla propria come condizioni deficitarie da superare. Come afferma, infatti, Erhard Denninger «l’indulgenza, nel senso di generosità del più forte chge lascia convivere accanto a sé i più deboli, gli altri, la minoranza, non sarà più possibile per la risoluzione dei problemi di convivenza». Così, E. Denninger, Diritti dell’uomo e Legge Fondamentale, Giappichelli, Torino, 1998, p. 36.
[100] M. d’Arienzo, Attualità della tolleranza, in Dir. Eccl., I, 2004, p. 498 ss.; cfr. M. L. Lanzillo, Tolleranza, Il Mulino, Bologna, 2001.
[101] D. Marconi (tr. it. di), The Works of John Locke, VI, 47, in J. Locke, Scritti sulla tolleranza, UTET, Torino, 1977, p. 172.
[102] Cfr. M. Tedeschi, La libertà religiosa nel pensiero di John Locke, Giappichelli, Torino, 1990; Id. (a cura di), La libertà religiosa, Tomo II, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, pp.401-404.
[103] Locke nella sua epistola de tolerantia affermò la necessità di separare la sfera statale da quella religiosa poiché «la cura delle anime non è demandata all’autorità civile più che agli altri uomini». Così J. Locke, Sulla tolleranza e l’unità di Dio, a cura di M. Montuori, Bompiani, Milano, 2002, p. 223.
[104] S. Attolino, La laicità della cura (a margine della sentenza del Consiglio di Stato n. 4460 del 2014 sulle direttive anticipate di trattamento), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 15 giugno 2015.
[105] C. Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano, 2008, p. 32.
[106] F. Rimoli, Laicità, postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la democrazia pluralista, in Diritto pubblico, 2006, 2, p. 335.
[107] S. Berlingò, Laicità dello Stato, Confessioni e gruppi religiosi, in Il Regno, 2001, supplemento al n. 2, pp. 70-71; E. Vitali, L’evoluzione del diritto ecclesiastico nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Il Diritto Ecclesiastico, 2007, I, pp. 33-38; M. Ricca, Multireligiosità, multiculturalità, reazioni dell’ordinamento. Tre segnavia per il diritto interculturale, in A. Fuccillo (a cura di), Multireligiosità e reazione giuridica, Giappichelli Editore, Torino, 2008, pp. 157-180.
[108] G. Fornero, Laicità debole e laicità forte. Il contributo della bioetica al dibattito sulla laicità, Mondadori, Milano, 2008.
[109] N. Colaianni, Laicità: finitezza degli ordini e governo delle differenze, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.Statoechiese.it), 2014.
[110] M. Ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 104. Per l’Autore la laicità è «soltanto una strategia politica di articolazione delle relazioni tra eguaglianza e differenza (confessionale, ma non solo) all’interno di un contesto normativo e istituzionale che riconosce il proprio asse di legittimazione nel diritto di autodeterminazione razionale degli individui» (p. 103).
[111] È quindi promuovendo la laicità (cfr. P. Bellini, Libertà dell’uomo e fattore religioso nei sistemi ideologici contemporanei, in Aa. Vv., Teoria e prassi della libertà di religione, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 201) che possono crearsi quegli spazi neutri all’interno dei quali è possibile garantire a tutti eguali diritti ed eguale dignità. Infatti, una concezione teologicamente orientata della politica, impedirebbe ogni forma di multiculturalismo, schiaccerebbe le minoranze religiose, le quali vedrebbero sottrarsi da una società civile di stampo confessionale, i diritti fondamentali propri di ogni individuo, tra cui anche la libertà e l’eguaglianza in materia religiosa. Solo nel momento in cui si assume come propria di un ordinamento statuale una scelta aconfessionale ne conseguirà la laicità dello Stato, la libertà e l’uguaglianza dei gruppi ed il ricorso al diritto comune, il solo che possa garantire fino in fondo il pluralismo confessionale (cfr. M. Tedeschi, Sulla scienza del diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1987, p. 115). All’opposto, un diritto costruito come derivazione diretta di precetti religiosi e completamente subordinato alla teologia, è un diritto illiberale, che non sarà mai strumento di affermazione e di autodeterminazione dei popoli, e che farà dell’intolleranza un’arma micidiale per sterminare qualunque differenza o dissidenza. Perché, come è stato acutamente affermato, non è promuovendo la religiosità che possono crearsi i presupposti per l’affermazione della libertà religiosa (cfr. S. Ferlito, Diritto soggettivo e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2003, p. 69).
[112] G. Pino, Libertà religiosa e società multiculturale, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 157-188, ivi p. 158.
[113] Benedetto XVI, Discorso tenuto il 12 settembre 2008 nella cerimonia di benvenuto durante il Viaggio Apostolico in Francia. Sul tema si veda anche M. D’Arienzo, La laicità francese secondo Nicolas Sarkozy, in Diritto e Religioni, 2008, 2, p. 257 e ss.
[114] G. Preterossi, Contro le nuove teologie della politica, nel Vol. Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma- Bari, 2005, p.13.
[115] M. L. Lanzillo, Oltre la laicità: l’impazienza della libertà, in Ragion Pratica, giugno 2007, pp. 37-54, ivi p. 42; Cfr. B. Helzel, Laicità e relativismo: pilastri della società pluralistica, in Diritto e Religioni, 1, 2013, pp. 323-338.
[116] F. Freni, La laicità nel biodiritto. Le questioni di bioetica nel nuovo incedere interculturale delle giuridicità, Giuffrè, Milano, 2012, p. 334.
[117] N. Colaianni, La libertà di religione in Italia negli ultimi dieci anni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 27 del 2017.
[118] M. Ricca, Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p.103.
[119] Così P. Borsellino, Tra cultura e norma, in S. Rodotà, M. Tallacchini (a cura di), Trattato di biodiritto. Ambito e fonti del biodiritto, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 149- 168, ivi pp. 165 e 166.
[120] C. Macina, Laicità e politica, in Aa.Vv., Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G. Boniolo, Torino, 2006, 16; Cfr. Aa. Vv., Laicità e Stato di diritto, a cura di A. Ceretti e L. Garlati, Giuffrè, Milano, 2007; G. Zagrebelsky, Il problema della laicità nella Costituzione, in AA.VV., Costituzione, laicità e democrazia, Quaderni laici, Giappichelli, Torino, 2009, p. 59 e ss.
[121] M .R. Marella, I diritti civili fra laicità e giustizia sociale, in S. Anastasia (a cura di), Diritto e Democrazianel pensiero di Luigi Ferrajoli, Giappichelli, Torino, 2011, p. 45 e ss.
[122] S. Attollino, La laicità della cura (a margine della sentenza del Consiglio di Stato n. 4460 del 2014 sulle direttive anticipate di trattamento, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.Statoechiese.it), 15 giugno 2015.
[123] Cfr. anche C. M. Mazzoni, Una norma giuridica per la bioetica, Il Mulino, Bologna, 1998. Si veda anche E. Dolcini, La legge sulla fecondazione assistita, un esempio di “sana laicità”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.Statoechiese.it), 2009.
[124] M. Tedeschi (a cura di), Il principio di laicità nello Stato democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1996.
[125] D. Antiseri, Laicità. Le sue radici, le sue ragioni, Rubettino Editore, Soveria Mannelli, 2010, p. 70.
[126] E. W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia, 2006, p. 61.

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Avv. Alessandro Palma

Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali. E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali. E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.

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