L’appello nel giudizio amministrativo

L’appello nel giudizio amministrativo

L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario delle sentenze di primo grado, difatti può essere esperito prima del passaggio in giudicato della sentenza e cioè entro 60 gg. dall’avvenuta notificazione della stessa ovvero in mancanza della notificazione, entro sei mesi dalla pubblicazione.

Stando al disposto dell’art. 102 del c.p.a. hanno legittimazione attiva ad esperire appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado e l’interveniente, ma soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma.

In virtù del rinvio esterno al c.p.c. di cui all’art. 39 del c.p.a. è ragionevole desumere che non basti l’essere stato parte in giudizio per potere appellare, ma è necessario anche avervi interesse ex art. 99 c.p.c.. Tendenzialmente l’interesse nel giudizio di appello si atteggia in modo diverso rispetto all’interesse ad agire in primo grado, è qualificato cioè non soltanto dalla possibilità di ottenere una pronuncia satisfattiva delle proprie posizioni soggettive, ma anche dalla soccombenza in tutto o in parte rispetto a una o più delle domande proposte in primo grado.

La legittimazione passiva è desumibile dall’art. 95 c.p.a., norma dettata in materia di impugnazioni in generale, si atteggia in modo diverso a seconda che la causa sia inscindibile o meno. Nel primo caso l’impugnazione deve essere notificata a tutte le parti in causa. Nell’ipotesi invece di cause scindibili, l’impugnazione deve essere notificata soltanto alle parti che hanno interesse a contraddire.

Ai fini dell’individuazione dell’oggetto del giudizio di appello e del contenuto del ricorso, occorre esaminare invece gli artt. 100 e 101 del c.p.a.. Sono dunque appellabili innanzi al Consiglio di Stato le sentenze dei tribunali amministrativi regionali.

Il ricorso in particolare deve contenere le specifiche censure contro i capi della sentenza impugnata, difatti si considerano rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado e non espressamente riproposte in appello.

E’ d’uopo rammentare che ai sensi dell’art. 104 c.p.a. non è consentito proporre nel giudizio di appello domande ed eccezioni nuove, salvo quelle rilevabili d’ufficio e salvi gli interessi e gli accessori maturati dopo la sentenza di primo grado, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo la pronuncia della sentenza impugnata.

In secondo grado non sono nemmeno ammessi nuovi mezzi di prova o la produzione di documenti nuovi, salvo il caso in cui il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione oppure che la parte dimostri di non averli potuti proporre o produrre in primo grado per causa ad essa non imputabile. Al più possono essere proposti motivi aggiunti, allorquando la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado e da cui emergano vizi dei provvedimenti amministrativi dedotti in giudizio.

E’ d’uopo evidenziare che salvo la disciplina dei motivi aggiunti, il divieto dei nova in appello ricalca la disciplina di cui all’art. 345 c.p.c. sull’inammissibilità di domande ed eccezioni nuove nell’appello civile.

L’appello si propone con ricorso notificato presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto dalla parte nell’atto di notificazione della sentenza o in difetto presso il difensore e depositato presso la segreteria del Consiglio di Stato, entro trenta giorni dall’ultima notificazione.

Salvo casi di inammissibilità o di improcedibilità, il giudizio d’appello termina con una decisione che conferma o riforma in tutto o in parte i capi della sentenza censurati oppure con la rimessione ex art. 105 c.p.a. al giudice di primo grado.

E’ possibile distinguere i ricorsi in appello in principali e incidentale.

L’appello principale è quello proposto in via prioritaria e autonoma. L’istituto dell’appello incidentale assolve invece ad una logica e ad una funzione parzialmente diversa e di garanzia. Il legislatore ha voluto infatti preservare il diritto di azione e difesa di quelle parti che pur essendo parzialmente soccombenti, abbiano deciso di non appellare la sentenza, ma vantino comunque un interesse a prendere parte attiva al giudizio di secondo grado a seguito dell’appello da altri proposto.

L’appello incidentale è dunque quello proposto dalle parti alle quali siano state notificate le impugnazioni in via principale, di guisa che laddove dette parti decidano di impugnare a loro volta la sentenza, hanno l’onere di farlo nel medesimo processo. Le impugnazioni avverso la medesima sentenza vanno riunite e decise nell’ambito del medesimo giudizio ex artt. 96 c.p.a. e 333 c.p.c..

Così come nel processo civile da cui mutua in parte la disciplina, anche in quello amministrativo vi sono due tipi di appello incidentale che si distinguono in base alla tempestività o meno della loro proposizione e soggiacciono a una diversa disciplina.

L’impugnazione incidentale può dirsi tempestiva allorquando venga proposta entro sessanta giorni decorrenti dalla notificazione della sentenza o dalla notificazione di altra impugnazione.

L’impugnazione incidentale può riguardare qualsiasi capo della sentenza di primo grado, dunque anche capi autonomi e non censurati dall’appellante principale.

L’appello incidentale tardivo può essere proposto dalle parti alle quali sia stata notificata l’impugnazione principale, anche se sono decorsi i termini per impugnare. In altri termini in tali evenienze, la notificazione dell’impugnazione principale, sortisce l’effetto di rimettere in termini la parte che non ha impugnato la sentenza di primo grado o vi ha fatto acquiescenza.

Alla stregua dell’appello incidentale tempestivo, anche con quello tardivo è possibile impugnare capi autonomi della sentenza, non impugnati dall’appellante in via principale, con la particolarità che l’impugnazione in discorso segue le sorti dell’appello principale, di guisa che se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, quella incidentale perde ogni efficacia.

E’ dibattuto se sia ammissibile l’appello da parte di un terzo.

Può dirsi terzo chi non ha preso parte al giudizio, né in qualità di ricorrente o resistente, né come interveniente, controinteressato o cointeressato.

Per il principio di intangibilità della sfera giuridica altrui e stando al disposto dell’art. 2909 c.c., la sentenza fa stato ed ha efficacia soltanto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa. Ciononostante può ben verificarsi che la pronuncia possa pregiudicare terze parti ed è necessario approntarne una compiuta ed efficace tutela ex artt. 24 e 113 Cost.. Il problema si pone perché se è vero che il diritto di difesa di  diritti e interessi legittimi è tutelato costituzionalmente, l’art. 102 c.p.a. limita espressamente la legittimazione ad appellare soltanto alle parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado e tra l’altro l’interesse ad impugnare sorge proprio dall’essere risultati soccombenti nel primo giudizio.

Dall’esame del codice di rito emerge una peculiare attenzione del legislatore alla tutela delle istanze del terzo. L’art. 49 c.p.a. prevede l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei controinteressati pretermessi, gli artt. 50 e 51 c.p.a. disciplinano l’intervento volontario e quello per ordine del giudice, ai sensi dell’art. 97 c.p.a. chi vi ha interesse può intervenire nel giudizio di impugnazione con atto notificato a tutte le parti. Infine gli artt. 108 e 109 c.p.a. disciplinano l’opposizione di terzo avverso le sentenze pronunciate in primo o secondo grado tra altri soggetti e ancorchè passate in giudicato, che pregiudichino i suoi diritti o interessi legittimi.

Il codice dunque non disciplina espressamente l’appello del terzo, dal disposto dell’art. 102 c.p.a. è dato desumere che gli sia preclusa una tale possibilità, considerato che la norma de qua limita la legittimazione ad agire in appello soltanto alle parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Ciò non toglie che il terzo possa comunque tutelare le proprie ragioni intervenendo nel giudizio ex art. 97 c.p.a. oppure proponendo opposizione ai sensi degli artt. 108 e 109 c.p.a.. Semmai si può parlare di appello in senso lato, in riferimento all’ipotesi in cui il terzo voglia proporre opposizione ma sia già in corso il giudizio di appello, in tale evenienza difatti l’art. 109 c.p.a. comma secondo prevede che il terzo proponga l’opposizione intervenendo nel giudizio d’appello. Allorquando invece il terzo abbia proposto l’opposizione prima dell’instaurazione del giudizio d’appello, l’opposizione è improcedibile e il giudice fissa un termine al terzo per intervenire in appello.

L’aspetto critico di questo sistema di tutela è che il terzo in sostanza può soltanto intervenire in un giudizio di impugnazione da altri instaurato oppure proporre autonomamente opposizione. Mentre l’appello è deferito a un giudice diverso e superiore rispetto a quello di primo grado, l’opposizione si propone dinnanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Sicchè perché un giudice diverso e superiore possa conoscere delle istanze del terzo, se non è ammissibile l’appello del terzo in via principale, è necessaria la previa impugnazione di una delle parti in causa.

Il sistema così delineato potrebbe prima facie apparire iniquo e discriminatorio, ma ad una più attenta analisi risulta essere il riflesso del contemperamento tra interessi contrapposti. Da una parte vi sono le parti in causa, sono gli arbitri migliori in riguardo ai propri interessi, decidono se e nella misura in cui tutelarli, quali capi della sentenza impugnare, al fine di ottenere una pronuncia che faccia stato tra di loro, tra i loro eredi e aventi causa. E’ necessario in altre parole tutelare l’esigenza di certezza dei rapporti e degli interessi tra le parti in causa, il loro affidamento sulla stabilità della res judicata, il loro diritto all’intangibilità della propria sfera giuridica e patrimoniale da parte di altri.

Di contro, vi è anche l’esigenza di tutelare gli interessi del terzo.

La Carta Costituzionale esige la pienezza e l’efficacia della tutela di diritti e interessi legittimi ex art. 24, ma l’art. 111 impone il contraddittorio e la parità soltanto tra le parti evocate in giudizio. In altri termini è necessario e sufficiente che la tutela del terzo sia piena ed efficace, ma non deve necessariamente essere identica a quella assicurata alle parti. D’altro canto, il principio di uguaglianza impone di trattare in modo diverso le situazioni giuridiche che si presentino diverse.

Alla luce di tali considerazioni non appare allora irragionevole che le impugnazioni del terzo avverso una sentenza pronunciata da altre parti, siano ammissibili soltanto se proposte nella forma dell’intervento nel giudizio di impugnazione da altri instaurato o dell’opposizione di terzo.

La previsione del doppio grado di giudizio soggiace a istanze garantistiche, consente alle parti di adire un giudice diverso e superiore rispetto a quello di primo grado, così da porre rimedio a eventuali errori giudiziari. Col giudizio si instaura un rapporto processuale destinato a sfociare in una statuizione suscettibile di passare in giudicato e di fare stato tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa. Data l’importanza e l’efficacia della sentenza, il legislatore ha previsto tutto un sistema di tutele e impugnazioni. Presentandosi il processo alla stregua di una res inter alios, non sorprende che le impugnazioni in parola siano tendenzialmente azionabili soltanto dalle parti che hanno preso parte al giudizio o che siano state messe nelle condizioni di farlo. Guardare al processo come a un rapporto tra parti, consente di attuare il principio del contraddittorio in ogni stato e grado e di proteggere gli istanti da indebite ingerenze  altrui.

Ciò non toglie che potrebbe accadere che anche soggetti non evocati in giudizio vantino interessi correlati all’oggetto della controversia o addirittura potrebbero esserne danneggiati, oppure ancora potrebbe accadere che la mancata citazione in giudizio, sia frutto di una collusione tra le altre parti.

Proprio per evitare ingiusti pregiudizi, il legislatore ha contemplato tutta una serie di istituti volti a consentire l’ingresso nel giudizio del terzo.

D’altro canto, tali previsioni assolvono anche alle esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. e 6 e 7 Cedu. E’ ragionevole che tutte le domande connesse al medesimo oggetto vengano esaminate congiuntamente.

A tal fine alle parti è consentito proporre appello in via principale o incidentale e addirittura tardivamente.

A una disciplina  diversa soggiace il sistema di impugnazioni del terzo.

Rispetto al terzo non si pone certo il problema delle impugnazioni incidentali tempestive o tardive, come per le parti. L’art. 97 c.p.a. consente l’intervento nel giudizio di impugnazione senza limiti di sorta, se non quello di avervi interesse. Controversa e dibattuta è, invece, l’ammissibilità di un appello in via principale da parte del terzo. Considerato che il codice nulla dice al riguardo, che l’art. 102 c.p.a. limita la legittimazione ad appellare solo alle parti e che comunque è prevista una disciplina ad hoc per le impugnazioni del terzo, è ragionevole concludere in senso negativo sul punto.

Il terzo che abbia l’esigenza di tutelare interessi propri nell’ambito di un giudizio da altri intrapreso, potrà allora scegliere alternativamente tra l’attendere che una delle parti proponga appello ed intervenire nel relativo giudizio oppure proporre immediatamente opposizione ex art. 108 c.p.a. avverso la sentenza, l’opposizione è infatti ammissibile a prescindere dal passaggio in giudicato e indifferentemente avverso le sentenze di primo o secondo grado.


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Morena Campana

Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nell'A.A. 2012/2013 presso l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma con tesi di Laurea su "PROFILI GIURIDICI E MEDICO LEGALI DELLA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA", si è diplomata nel 2015 presso la Scuola di Specializzazione per le professioni Legali dell'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense nel 2016.

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