L’arbitrato e le sue fondamenta nell’autonomia privata dell’art. 1322 c.c.

L’arbitrato e le sue fondamenta nell’autonomia privata dell’art. 1322 c.c.

Nel nostro ordinamento il principio della libertà di contrarre (anche nel contratto di arbitrato) risiede nell’autonomia privata fissata dall’art. 1322 c.c., quale potere di autoregolamentazione dei propri interessi.

Sul punto – e a compendiare il concetto – è interessante rammentare il pensiero di L. Mortara secondo il quale ‘’la libertà civile dei singoli soggetti di diritto, che è della essenza dello stato moderno, in quanto si svolge nella sfera delle private convenzioni, garantisce senza dubbio la facoltà di deferire le controversie alla decisione di terzi, o per meglio dire, di convenire che la volontà del terzo sarà accettata dalle parti a risoluzione del loro contrasto ’’.

Lo Stato permette – in talune ipotesi previste e disciplinate dalla legge – di derogare ad un suo proprio ‘’monopolio’’ qual è quello giurisdizionale.

Il privato infatti pur essendo tutelato dall’art. 24 Cost. per ‘’agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi‘’ non è obbligato a ricorrere ai giudici statali. G. Verde sottolinea come ‘’il fondamento dell‘arbitrato, quindi, dal punto di vista negativo, è nell‘art. 24 Cost. e, dal punto di vista positivo, è nell‘autonomia privata e nella sfera incolculcabile di tale autonomia‘’ .

Il prodotto finale dell’arbitrato è un lodo, il quale al pari della sentenza emessa dal giudice dello Stato (quanto al lodo degli arbitri rituali, c.d. lodo rituale), ha efficacia vincolante per le parti e non risulta essere una determinazione contrattuale.

In passato due filoni di pensiero si sono divisi sulla natura del fenomeno arbitrale: c’era chi sposava la tesi pubblicistica e chi invece quella privatistica.

In particolare – secondo la teoria dell’arbitrato come fenomeno giurisdizionale – è il decreto di esecutorietà ex art. 825 comma 1 c.p.c., che attribuisce al lodo – e così all’intero procedimento la natura giurisdizionale, con un effetto che potremmo – a ragione – definire ex tunc (cioè retroattivo).

È rilevante ricordare – per la tesi pubblicistica – la c.d. teoria dei negozi giuridici processuali: quella particolare specie di accordi con i quali le parti dispongono di una situazione processuale, imprimendo così un determinato impulso al processo .

Secondo questa linea di pensiero, dai negozi processuali discenderebbero due corollari di effetti: una categoria di effetti di diritto privato quanto ai diritti ed obblighi in capo ai contraenti e l’altra di diritto pubblico, con influenza sui rivolgimenti processuali.

Nel novero dei contratti processuali rientrerebbe dunque il compromesso, perché con questo le parti possono scegliere un giudice privato rispetto al giudice ordinario mediante appunto, un accordo in deroga alla giurisdizione.

La teoria che legge l’arbitrato quale fenomeno giurisdizionale – avendo trovato scarsi consensi – è stata soppiantata da quella del negozio giuridico privato in base alla quale dunque l’arbitrato si fonda sull’autonomia privata: privato è il negozio da cui gli arbitri acquistano i loro poteri così come di diritto privato è la loro funzione e i rapporti intercorrenti tra essi e le parti.

In base a questi rilievi, l’efficacia di sentenza, conferita al lodo dal decreto di omologazione non basta a mutare la natura giuridica dell’istituto.

L’arbitrato serve dunque – in tutto e per tutto – ad evitare il processo.

A completare e compendiare il dibattito dottrinario, nonché a riconoscere la natura privatistica dell’arbitrato si pone la Corte Suprema di Cassazione con sentenza delle Sezioni Unite n. 527 del 3 agosto 2000.


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