L’arricchimento ingiustificato della P.A. nel contratto pubblico invalido

L’arricchimento ingiustificato della P.A. nel contratto pubblico invalido

Sommario: 1. Premessa – 2. L’arricchimento senza causa e il quantum indennitario – 3. Il riconoscimento dell’utilitas

 

1. Premessa

Nei rapporti negoziali sinallagmatici le parti conseguono innanzitutto, a fronte di una diminuzione patrimoniale (c.d. depauperatio), una determinata utilità (c.d. locupletatio), ovvero il “motore” che spinge i contraenti alla conclusione dell’accordo. In determinate circostanze, tuttavia, questa reciprocità può venir meno a causa di anomalie “genetiche” alla formazione del contratto oppure “funzionali” alla fase esecutiva dello stesso (per esempio nei casi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione). La questione qui in oggetto concerne, in particolare, le ipotesi del primo tipo, ossia i vizi originari del negozio, quali in primis i casi riguardanti la sua invalidità.

In particolare, rispetto alle prestazioni di facere, occorre sottolineare due precisazioni: da un lato quando uno dei contraenti abbia pagato anticipatamente il prezzo e, solo successivamente, sia accertata l’illegittimità del negozio, egli può agire per la ripetizione dell’importo versato ex art. 2033 c.c. (sempre che sia conforme alla causa d’invalidità[1]); quando, per contro, la causa di invalidità rilevi su un rapporto negoziale in cui la parte obbligata abbia eseguito “per prima” la propria prestazione di “fare”, non risulta invece materialmente possibile agire per la sua restituzione. In questa circostanza, allora, l’ordinamento permette alla parte lesa di agire verso la controparte – che ha tratto, dunque, giovamento dall’esecuzione della prestazione – attraverso il rimedio di cui all’art. 2041 c.c., ossia l’azione di arricchimento senza causa.

La prima questione da affrontare inerisce alla possibilità di esperire quest’ultimo strumento non solo ai rapporti tra i privati, bensì anche all’attività negoziale instaurata tra il contraente privato e la Pubblica Amministrazione. Questo fenomeno può sussistere, per esempio, nei casi in cui venga a mancare un requisito di forma del contratto stipulato[2], oppure quando intervenga un’anomalia nella procedura di aggiudicazione nella fase di gara pubblica. Laddove tali vizi emergano durante la fase di esecuzione o, perfino, al momento della conclusione dell’opera o della gestione del servizio affidato, è necessario chiedersi quali rimedi dunque possono essere esperiti dall’impresa a fronte delle risorse economiche impiegate.

La ragione di questa necessità si fonda sulla prassi dell’Amministrazione di pagare il prezzo dell’opera solo a lavori conclusi, in base al principio della c.d. postnumerazione del corrispettivo[3]. Nel contratto di appalto, infatti, non sussiste una simultaneità tra le due prestazioni, ma l’adempimento da parte dell’appaltatore deve precedere quello del committente[4], con l’effetto, dunque, di addossare sull’impresa il rischio di anticipare la propria prestazione[5].

Un caso peculiare concerne la circostanza che il direttore dei lavori disponga l’esecuzione, a favore dell’ente pubblico, di opere “extracontratto”, agendo così nelle vesti di un falsus procurator della medesima stazione appaltante. In questa ipotesi, in particolare, secondo un primo orientamento non sarebbe esperibile l’azione d’indebito arricchimento in quanto l’appaltatore potrebbe comunque chiedere l’indennizzo per l’interesse negativo ex art. 1398 c.c. nei confronti del funzionario, per il suo eccesso di potere[6]; secondo una diversa interpretazione il requisito di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c. non impedirebbe, comunque, l’esperimento della suddetta azione nel caso di specie, poiché i destinatari dei due rimedi (l’art. 2041 e 1398 c.c.) sono, di fatto, differenti mentre il limite di cui citato art. 2042 c.c. si applicherebbe nei soli rapporti con l’arricchito (la P.A.) e non rispetto al direttore dei lavori, quale destinatario dell’altra azione esercitabile dall’impresa[7].

Occorre, tra l’altro, precisare che nell’ambito degli appalti di lavori, confermando sostanzialmente la previgente disciplina, il recente D.M. n.49/2018, art. 8, co. 2°, (analoga norma all’art. 22 con riferimento ai servizi e alle forniture) sancisce che “Il direttore dei lavori risponde delle conseguenze derivanti dall’aver ordinato o lasciato eseguire modifiche o addizioni al progetto, senza averne ottenuto regolare autorizzazione (….)”.

2. L’arricchimento senza causa e il quantum indennitario

Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato[8], il soggetto leso dalla declaratoria di invalidità non può agire per l’adempimento coattivo della controprestazione ma può esercitare l’azione di cui all’art. 2041 c.c.; questa, difatti, è esperibile in via residuale quando ogni altro rimedio non è, altrimenti, ammissibile. I presupposti dell’ingiustificato arricchimento sarebbero, infatti: 1) l’assenza di una causa valida per la locupletazione della controparte; 2) l’ingiustificato depauperamento dell’altra; 3) un rapporto causale diretto e immediato tra i due spostamenti economici, in conformità all’art. 1223 c.c.; 4) oltre che, per alcuni[9], l’unicità del fatto causativo tra i due spostamenti patrimoniali.

Questo rimedio garantisce, in particolare, il diritto a un indennizzo parametrato alla perdita patrimoniale subita; tuttavia, si alternavano due diverse modalità di quantificazione: secondo alcuni, infatti, avrebbe dovuto assumersi come valore di riferimento la tariffa professionale; secondo altri invece, in questo modo si rischiava di attribuire al richiedente un surplus economico non giustificato dall’ammontare delle perdite subite. In effetti, l’art. 2041 c.c. prevede espressamente un “indennizzo” e non un concreto risarcimento, e la differenza, secondo la dottrina prevalente, concerne la fonte dell’obbligazione: mentre il secondo discenderebbe da un fatto propriamente illecito, di cui all’art. 2043 c.c., il primo sarebbe invece la conseguenza di un comportamento in sé lecito ma comunque dannoso. Si pensi all’indennizzo per gli eventuali danni connessi all’accesso su un fondo altrui ex art. 843, co.2, c.c., o parimenti quello che la giurisprudenza ha previsto per le immissioni sconfinanti sul fondo altrui (seppur rientranti nei livelli di tollerabilità)[10] di cui all’art. 844 c.c., oppure – in altro contesto – il ristoro dovuto per i danni arrecati in stato di necessità in base all’art. 2045 c.c.

Sul punto la giurisprudenza si è espressa recentemente[11] consolidando l’interpretazione tradizionale, ovverosia ha affermato che tale importo debba essere limitato alle sole spese “vive” sostenute dall’impresa privata, con esclusione quindi del guadagno atteso dalla conclusione del contratto.

Inoltre, la giurisprudenza – con un orientamento ormai consolidatosi da tempo[12] – ritiene che l’indennizzo, poiché diretto a reintegrare un detrimentum patrimoniale monetario, configuri un debito “di valore”, con la conseguenza che lo stesso debba essere liquidato sulla base del prezzo della moneta al momento della pronuncia giudiziale[13], tenendo conto delle possibili rivalutazioni[14]; ove fosse stato qualificato come debito di valuta, invece, il rischio dei mutamenti del mercato, e in particolare dell’inflazione, sarebbero ricaduti sul creditore (c.d. principio nominalistico)[15].

Questo comporta, quindi, che l’impresa possa pretendere anche gli interessi compensativi prodotti dalla somma liquidata, ossia volti a coprire gli eventuali pregiudizi subiti per il mancato e diverso godimento dei beni e dei servizi impiegati nell’opera, o per gli esborsi e per le erogazioni effettuate[16].

In merito, d’altronde, al suddetto limite, le stesse Sezioni Unite hanno confermato che sarebbe “perlomeno illogico utilizzare il rimedio dell’art. 2041 c.c. per ricollocare l’autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o addirittura giuridicamente inesistente: perciò consentendone la sostanziale neutralizzazione in nome di imprecisate esigenze equitative” [17]. Comunque, laddove la diminuzione patrimoniale subita dall’impresa non fosse in concreto accertabile (perché impossibile o particolarmente difficile), si ritiene comunque possibile richiedere la liquidazione del danno in via equitativa in base ai principi di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.[18]

3. Il riconoscimento dell’utilitas

Un altro problema non ancora del tutto sopito in giurisprudenza concerne l’eventuale necessità di una dichiarazione, da parte della P.A., in merito all’utilità che il contributo del soggetto privato contraente avrebbe apportato.

Originariamente i giudici di legittimità sostenevano che l’azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisse da quella ordinaria nel fatto che, per quest’ultima, sarebbe stato necessario un requisito ulteriore, ossia la circostanza che la stessa Amministrazione avesse riconosciuto l’utilità dell’opera o del servizio in maniera esplicita, con atto formale, oppure in modo implicito, attraverso l’utilizzazione volontaria della prestazione da parte dei suoi organi rappresentativi[19]; per contro, non sarebbe stato sufficiente, allora, il solo fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico. Tale interpretazione ha avuto seguito tra i giudici di legittimità fino in tempi recenti[20], tanto che la stessa valutazione dell’utilitas si considerava oggetto di un giudizio di discrezionalità della stazione appaltante, la quale era legittimata in via esclusiva a effettuare l’apprezzamento sulla rispondenza dell’opera al pubblico interesse.

Quest’orientamento, però, fu progressivamente eroso dalla stessa giurisprudenza fino al suo definitivo superamento con pronuncia delle Sezioni Unite del 2015: la Suprema Corte, infatti, ha affermato che l’impresa depauperata avrebbe solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso[21]. Tuttavia, nella medesima pronuncia si è affermato che in capo alla stazione appaltante sussisterebbe comunque il rischio per una locupletazione, di fatto, non voluta – ossia di un “arricchimento imposto” – nel caso in cui l’Amministrazione abbia rifiutato l’arricchimento o non abbia, comunque, potuto esternare la propria contrarietà perché inconsapevole dell’eventum utilitatis.

Di conseguenza, il concetto di utilità deve essere valutato attraverso criteri oggettivi, anche sulla base dei risparmi di spesa o degli esborsi evitati attraverso prestazioni di carattere professionale, come per esempio la redazione di un progetto di opera pubblica[22], ma non può fondarsi sulla mera considerazione soggettiva della Pubblica Amministrazione.

Una ricostruzione alternativa, invece, è stata offerta dall’analogia con un diverso fenomeno: quello inerente all’attività del funzionario della P.A. privo di legittima investitura[23]. Su questo fronte, infatti, oltre alla tesi – prevalente – della possibilità di esperire, anche qui, il rimedio di cui al 2041 c.c., era stata altresì proposta la qualificazione in termini di negotiorum gestio[24].

Si era ritenuto, difatti, possibile inquadrare l’attività del funzionario c.d. di fatto nell’ambito del mandato senza rappresentanza, con la conseguente possibilità per lo stesso di agire tramite actio mandati contro l’Amministrazione per il ristoro legato alla gestione svolta. Tuttavia, si era criticato che il requisito della “non contrarietà” dell’interessato non potesse essere soddisfatto nel caso di specie, in virtù di una presunzione di prohibitio domini connessa alle attività di natura pubblicistica; al più, avrebbe potuto applicarsi alle attività di diritto privato della stessa P.A. in presenza, comunque, della sua ratifica in termini di riconoscimento dell’utiliter coeptum conseguito grazie al funzionario di fatto[25]. Rimane dubbia, però, la possibile estensione di questo istituto anche per le attività compiute da un’impresa, tenendo conto soltanto della semplice equiparazione del presupposto che lega le due vicende, ossia un contratto invalido stipulato con l’Amministrazione, da cui discende nel primo caso l’aggiudicazione di un’opera pubblica e nell’altro l’investitura del funzionario.

Dalle considerazioni sopra svolte emerge che, nei rapporti tra contraente pubblico e contraente privato, seppure molto lentamente e soprattutto grazie al continuo evolversi degli orientamenti giurisprudenziali, va a sfumare quel favor per la P.A. che fin dalla L. n.2248, all.F, 1865 e, poi, dal R.D. n.2440/1923, permea la normativa in materia di contabilità e contratti pubblici.

 

 


[1] Si pensi, per esempio, ai casi di nullità per contrarietà della causa al buon costume, di cui all’art. 1343 c.c. per la regola della soluti retentio (art. 2035 c.c.).
[2] cfr., specialmente, sul difetto della forma scritta ad substantiam, Trib. di Roma, sez. seconda civ., n. 17868/2019.
[3] Rubino, L’appalto, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, III ed., Torino, 1958, pag. 481.
[4] Seppure spesso, nei lavori pubblici, attraverso una sorta di rateizzazione (stato di avanzamento dei lavori e relativo certificato di pagamento) ogni qualvolta si raggiunga un certo importo o una certa quantità di lavoro eseguito rispetto all’intero previsto.
[5] cfr. Cianflone, Giovannini, Lopilato, L’appalto di opere pubbliche, tomo I, Giuffré, 2018, pag.30
[6] così, Cass. n. 6647/2002 e n. 343/2013.
[7] di questo avviso, Cass. Civ. n. 9701/90.
[8] Cass. Civ., SS.UU., n. 23385/2008.
[9] Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffré, 2012, pag. 851; ma per alcune eccezioni cfr. Cass. Civ., SS.UU., n. 24472/2008.
[10] Inquadrabile, per alcuni, come servitù coattiva: cfr. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffré, 2017, pagg. 187 e ss.; in giurisprudenza, Cass. Civ. n. 8300/95.
[11] Cass. Civ. n. 14670/2019.
[12] Cass. Civ. n. 11296/93.
[13] cfr., altresì, Cass. Civ. n. 11061/93 per cui la stessa natura può essere attribuita anche al caso in cui l’arricchimento sia legato a un risparmio di spesa per l’obbligato.
[14] anche in appello, cfr. Cass. Civ. n. 489/88; la sentenza di condanna al pagamento, infatti, ha natura dichiarativa (e non costitutiva) con la conseguenza che la rivalutazione del credito deve essere operata al tempo dell’arricchimento altrui, poiché è da questo momento che sorge il diritto del depauperato, Cass. Civ. n. 517/94.
[15] La distinzione tra debiti di valore e di valuta si rinviene, in giurisprudenza, soprattutto a partire da Cass. civ., sez. un., 26 febbraio 1983, n. 1464; in dottrina, cfr. N. Rizzo, Il problema dei debiti di valore, Cedam, Padova, 2010.
[16] così, Cass. Civ. n. 1889/2013.
[17] Cass. Civ. , SS.UU., n. 23385/2008.
[18] Cass. Civ. n. 18804/2015.
[19] Cass. Civ., 27 febbraio 1991, n. 2111; e successivamente Cass. Civ. n. 1884/2002; ma contra vedasi già Cass. Civ. n. 7694/92.
[20] cfr., in particolare, Cass. Civ. n. 5397/2014.
[21] Cass., sez. un., n. 10798/2015; cfr. più recentemente anche Cass., sez. III, n. 16793/2018.
[22] Cass. Civ. n. 16820/2013.
[23] Perché, l’atto di assegnazione nascente per esempio da un contratto con la stessa Amministrazione risulti nullo, annullabile o, comunque, inefficace.
[24] Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Dike, 2018, pag. 600.
[25] P. Fava, Il contratto, Giuffré, 2012, pag. 547.

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Avvocato Amministrativista. Già tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tar Lazio, sede di Roma. Laureato in Giurisprudenza presso l'università La Sapienza di Roma, ove ha conseguito anche il diploma di specializzazione per le professioni legali.

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