L’articolo 47-quinquies, co. 1, della L. n. 354 del 1975: questioni di legittimità costituzionale.

L’articolo 47-quinquies, co. 1, della L. n. 354 del 1975: questioni di legittimità costituzionale.

Sommario: 1. Premessa – 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 18/2020 – 3. Presa d’atto o questione scontata? – 4. Quid fecisti?: analisi conclusiva

 

1. Premessa

Lo scopo di questo contributo è di affrontare le questioni di legittimità costituzionale sorte in merito alle disposizioni dell’articolo 47 – quinquies, della Legge n. 354/1975, meglio conosciuta come Ordinamento Penitenziario.

L’articolo in parola, al comma 1, dispone quanto segue: “quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47 – ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo, secondo le modalità di cui al comma 1-bis”.[1]

2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 18/2020

Sul primo comma dell’articolo ut supra richiamato si è pronunciata la Corte Costituzionale, con sentenza n. 18/2020; alla quale la questione fu sollevata a seguito di un provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria, successivamente impugnato da una detenuta perché si vedeva rigettata l’istanza “di detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., proposta in funzione della cura e dell’assistenza a una figlia affetta da grave disabilità nata nel 1994, e dunque di età superiore ai dieci anni[2].

La questione di legittimità costituzionale, sorge perché, la norma, “limitando l’accesso alla detenzione domiciliare speciale alle «condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci» – sempre che ricorrano le altre condizioni da essa previste – contrasterebbe, nella prospettazione della Corte di cassazione, con l’art. 3, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo «della intrinseca irragionevolezza di un sistema rigidamente legato all’età del minore, in cui, ai fini della concessione della detenzione domiciliare in esame, non si consenta affatto di apprezzare l’esistenza di situazioni omogenee a quella espressamente regolata, in cui si palesi la medesima necessità di assicurare al figlio l’effettiva presenza, e il pregnante sostegno, del genitore, quali sono le situazioni in cui il figlio appaia portatore di un handicap totalmente invalidante»; nonché con gli artt. 3, secondo comma, e 31, secondo comma, Cost., in quanto l’irragionevole restrizione dei suoi spazi applicativi sarebbe di ostacolo alla piena realizzazione della personalità del disabile grave[3].

Alla stregua della precedente sentenza di legittimità costituzionale del 2003, nel 2020 la Corte Costituzionale è stata indotta “a giudicare costituzionalmente illegittima la disciplina della detenzione domiciliare speciale, di cui al censurato art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., nella parte in cui esclude dal suo ambito di applicazione le madri detenute di figli gravemente disabili di qualunque età, quale è la figlia della detenuta parte del giudizio principale, portatrice di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992[4].

La Corte Costituzionale, nella questione de qua, ha evidenziato anche che “il limite di età dei dieci anni previsto dall’art. 47-quinquies, comma 1, ordin. penit., contrasti con i principi costituzionali di cui all’art. 3, primo e secondo comma, Cost., unitamente a quello di cui all’art. 31, secondo comma, Cost., pure invocato dalla Corte rimettente, che prevede la tutela della maternità, cioè del legame tra madre e figlio che non può considerarsi esaurito dopo le prime fasi di vita del bambino. Tali principi esigono che una misura alternativa alla detenzione, qual è quella prevista dall’art. 47-quinquies – finalizzata principalmente a tutelare il figlio, terzo incolpevole e bisognoso del rapporto quotidiano e delle cure del detenuto – debba estendersi all’ipotesi del figlio portatore di disabilità con «connotazione di gravità» ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, il quale si trova sempre in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psichica indipendentemente dall’età. Nei casi di disabilità grave, l’autonomia personale è così ridotta «da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» a qualunque età (art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992). Il dato di esperienza, anzi, rivela che le condizioni di vita e di salute delle persone colpite da disabilità grave tendono ad aggravarsi e ad acuirsi con l’avanzare dell’età. Sicché delimitare il beneficio penitenziario in questione in ragione di un parametro meramente anagrafico è costituzionalmente illegittimo quando si tratta di persona gravemente disabile.[5].

Un’attenta lettura della sentenza in commento fa comprendere che è stata data importanza, sulla scia dei precedenti giurisprudenziali, fa comprendere l’esigenza di “una tutela piena dei soggetti deboli» richiede anche «la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana”, nonché sul  “diritto del disabile di «ricevere assistenza nell’àmbito della sua comunità di vita» rappresenta “il fulcro delle tutele apprestate dal legislatore e finalizzate a rimuovere gli ostacoli suscettibili di impedire il pieno sviluppo della persona umana.[6]

L’illegittimità costituzionale, dunque riguarda l’articolo 47 – quinquies dell’Ordinamento Penitenziario, “nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), ritualmente accertato in base alla medesima legge.”[7]

3. Presa d’atto o questione scontata?

Giunti a questo punto, analizziamo, confrontando la dottrina sul punto, se la questione di incostituzionalità in argomento, può definirsi una presa d’atto oppure è del tutto scontata.

In primis va dato atto che “la preoccupazione della Corte per eventuali reazioni di allarme sociale, a fronte di una misura che potrà riguardare anche persone condannate per gravi delitti e altrimenti destinate ad ancora lunghi o lunghissimi periodi di reclusione intramuraria. Di qui l’esplicito richiamo, per quanto ovvio, alla valenza preclusiva che assume, pur a fronte del rapporto genitoriale con una persona svantaggiata, il concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga, secondo un bilanciamento la cui tenuta nei singoli casi deve essere attentamente verificata dal giudice, e con analoga attenzione documentata attraverso una motivazione completa e puntuale”.[8]

Ex adverso, “la Corte avrebbe potuto incidere in modo più netto, senza limitarsi ad eccettuare dall’applicazione della disposizione le sole madri di prole affetta da “handicap invalidante grave” ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104”.[9]

Non si può non concordare con quella parte della dottrina che ha evidenziato come il problema delle madri e della conseguente crescita di un figlio, non può essere preclusa solo in presenza di un figlio con handicap.

Vi è stato infatti chi ha avuto modo di sostenere senza mezzi termini, che “vi sono casi in cui il figlio, nonostante abbia compiuto l’età di dieci anni, necessiti comunque della presenza materna per un processo di crescita quanto più sano e regolare possibile. Ciò, com’è noto, si può verificare non solo quando l’infante è affetto da patologie gravemente invalidanti, ma anche nei casi in cui l’adolescente sia invalido in modo non grave, ovvero sia sano, ma riscontri in concreto dei ritardi nel processo di maturazione e crescita a causa dall’ambiente sociale in cui vive”.[10]

Nella decisione in commento, secondo altra dottrina, “alcun accenno è stato operato in ordine a una possibile presunzione di inidoneità genitoriale in ragione della commissione dei reati.”[11]

La problematica sorge “in rapporto alle ipotesi di detenzione domiciliare alle quali le madri possono accedere fino al decimo compleanno della prole” [], nonché “per le altre madri la concessione della detenzione domiciliare speciale è ulteriormente subordinata dall’art. 47-quinquies co. 1 o.p. alla verifica, in concreto, della «possibilità di ripristinare la convivenza con i figli.”[12]

4. Quid fecisti?: analisi conclusiva

Alla luce dell’unicum argomentativo normativo, giurisprudenziale e dottrinale ut supra esposto, la conclusione, avendo il lavoro lo scopo di approfondire e riflettere, non può che essere aperta.

In tal senso chi scrive, aderisce al primo filone dottrinale che predilige il favor di un rapporto tra madre e figlio in un rapporto per così dire di prole svantaggiata.

Ma ovviamente, non si può dare atto che la presenza materna, per ciò che attiene i profili affettivi, dell’evoluzione, della socializzazione, delle problematiche insite all’età evolutiva, per un figlio è sempre importante, tantopiù in tenera età, a prescindere dagli errori che la madre abbia potuto commettere e a fortiori, qualsiasi età e status psichico abbia la prole.

Nell’era della digitalizzazione, sotto il profilo dei danni che la distanza tra genitori e figli può creare da entrambe le parti, va bilanciata oltremodo, prendendo atto che “maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto fra loro e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi se non in situazioni di estremo disagio. Queste condizioni di difficoltà legate alla carcerazione si vanno a sovrapporre a quelle sociali, ambientali ed affettive già presenti e dalle quali risulta oltremodo difficile potersi staccare”.[13]

Basta osservare, coadiuvati dalla dottrina che in passato si è espressa in argomento, “la maggior sofferenza femminile nel tempo sottratto al fuori rende le stesse, se prive di relazioni o con relazioni lontane, più vulnerabili e difficilmente inseribili anche nei modesti circuiti di reinserimento esistenti. La presenza nella vita delle detenute di figli lontani rende la relazione con il carcere spesso inesistente, anche laddove ci siano offerte trattamentali.”[14]

Infatti, si dovrebbe pensare alla “possibilità concreta di curare il ricongiungimento e di preparare un rientro “onorevole”, laddove possibile, sembra allo stato una delle poche opzioni esistenti[15], e nella Legge n. 354/1975, all’articolo 14, a ben vedere, le basi sono state gettate, prevedendo expressis verbis che “le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido.”[16]

 

 

 

 

 


[1] Art. 47 – quinquies, L. n. 354/1975.
[2] C. Cost., sentenza 14 febbraio 2020, n. 18, in Giur. Cost.
[3] C. Cost., op.cit.
[4] C. Cost., op.cit.
[5] C. Cost., op.cit.
[6] Ex plurimis: C. Cost., op.cit.; C. Cost., 18 luglio 2013, n. 203, in Giur. Cost.; C. Cost., 7 dicembre 2018, n. 203, in Giur. Cost.
[7] C. Cost., op.cit.
[8] Leo G., “La madre di persona affetta da grave disabilità può accedere alla detenzione domiciliare speciale qualunque sia l’età del figlio svantaggiato”, in Sistema Penale, 17 febbraio 2020.
[9] Moroni L., “L’accesso alla detenzione domiciliare speciale tra automatismi irragionevoli e addizioni non necessarie. A margine Corte Cost. sent. n. 18/2020”, in Osservatorio Cost., 2 febbraio 2021, n.1/2021.
[10] Moroni L., op.cit.
[11] Cfr. Long V.J., “Essere madre dietro le sbarre”, in Mantovani G. (a cura di), “Donne ristrette”, L’edizioni, Milano, 2018, pag. 114 ss; v. anche Mantovani G., “La de-carcerizzazione delle madri nell’interesse dei figli minorenni: quali prospettive”, in Dir. Pen. cont., 1/2018.
[12] Mantovani G., op. cit.
[13] http://www.ristretti.it
[14] Bruno D., “Donne detenute e genitorialità “fuori delle mura””, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 11.
[15] Bruno D., op.cit.
[16] Art. 14, L. n. 354/1975.

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Avv. Emanuele Mascolo

Dal 17 gennaio 2022 Avvocato iscritto presso il COA Trani. Dall'11 dicembre 2020 Mediatore Civile e Commerciale. Nell'A.A. 2018/2019 ho frequentato il master di II Livello in Criminologia Clinica presso Unicusano - Roma. Nell'A.A. 2017/2018 ho frequentato il master di I Livello in Criminologia e sicurezza nel mondo contemporaneo presso Unicusano - Roma. il 19.04.2012 ho conseguito la Laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Foggia. Autore di numerose pubblicazioni giuridiche nonchè relatore ad eventi e convegni giuridici.

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