L’assistenza spirituale e la tutela del diritto di libertà religiosa nelle strutture segreganti

L’assistenza spirituale e la tutela del diritto di libertà religiosa nelle strutture segreganti

Sommario1. L’assistenza spirituale negli istituti di detenzione – 2. L’evoluzione del sistema penitenziario italiano ed il ruolo della legge n. 354 del 1975 nella rieducazione del detenuto – 3. Il rapporto intercorrente tra l’amministrazione penitenziaria ed il cappellano carcerario – 4. L’assistenza spirituale per i detenuti in regime di 41bis – 5. Assistenza spirituale e misure alternative alla detenzione – 6. Identità religiosa ed assistenza spirituale in caso di “detenzione amministrativa” nei Centri di Identificazione ed Espulsione e nei Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo – 7. Brevi conclusioni

1. L’assistenza spirituale negli istituti di detenzione

Il tema dell’assistenza spirituale nelle cosiddette istituzioni segreganti non risulta essere tra quelli che hanno visto, nella società civile così come in quella ecclesiale, lo svolgersi di un dibattito ricco ed elevato[1].

In effetti, se si esclude un certo numero di interventi della dottrina (peraltro attinenti ad un esame critico delle disposizioni vigenti nei singoli settori), nella maggior parte dei casi si è preferito l’esame di aspetti centrali che il tema dell’assistenza spirituale comporta (i profili culturali, ideologici e tecnico-giuridici), trascurandone un qualsiasi tentativo definitorio. La giustificazione a questo atteggiamento è stata individuata nel fatto che quando si parla di assistenza spirituale si tratta di servizi di antica tradizione e molto diffusi per i quali, in definitiva, è spesso apparso del tutto inutile e pedante qualsiasi tentativo di porre in premessa una definizione. Se però si pone attenzione alle peculiarità che l’esperienza giuridica in materia presenta, ad una lettura sia sincronica che diacronica, appare allora utile porsi il problema definitorio soprattutto per le esigenze poste dall’interpretazione delle norme di volta in volta vigenti in materia. Non a caso, spesso, ricorre l’interrogativo sulle finalità e sui contenuti di tali servizi che, nel tempo, sembrano essere una costante al di là dei vari mutamenti normativi riscontrabili e, soprattutto, del quadro di riferimento più ampio posto dai fondamenti e dai principi generali sottesi all’ordinamento giuridico[2]. Ad esempio, la perenne incertezza della dottrina nel ricavare dalle norme finalità e contenuti dei servizi di cappellanato nelle istituzioni pubbliche, risulta emblematicamente raffigurata nelle stesse incertezze ed ambiguità che si sono riscontrate nella denominazione dei servizi in questione. Non a caso spesso si è incorso nell’uso promiscuo di espressioni quali assistenza spirituale e assistenza religiosa.

D’altra parte, nei pochi casi in cui la dottrina si è spinta sul territorio definitorio, sovente i risultati non sono stati pienamente soddisfacenti. Così per assistenza religiosa può intendersi, in senso generalissimo, qualsiasi aiuto fornito dallo Stato per il soddisfacimento degli interessi religiosi dei cittadini, precisando però che esorbita da tale ambito il problema dell’assistenza spirituale che lo Stato debba o possa fornire ai propri cittadini[3]. Appare chiaro, però, che da tale definizione non riesce ad apparire chiaramente delineata la distinzione tra assistenza religiosa e assistenza spirituale.

Certo, non è mancato chi ha visto nell’espressione assistenza religiosa una definizione troppo ampia nella misura in cui ricomprende ogni tentativo dello Stato a favore del fenomeno religioso, compresi quelli non riconducibili strettamente al concetto di assistenza. Inoltre, la stessa definizione è apparsa troppo limitata perché riferita a fenomeni che possono prodursi nel sociale anche senza l’intervento dello Stato come, ad esempio, nelle ipotesi di iniziative di privati o delle stesse confessioni religiose[4]. Altri ancora, superando sia la posizione di chi le reputa distinte sia la posizione di chi le ritiene del tutto equivalenti, hanno propeso per soluzioni definitorie secondo le quali l’assistenza religiosa avrebbe un’accezione più ristretta rispetto a quella spirituale[5].

Secondo questa opinione, dunque, tra le due espressioni vi sarebbe un rapporto di genus a species, nel senso che mentre la prima si riferirebbe ai sevizi religiosi assicurati per soddisfare interessi religiosi dei cittadini, la seconda ricomprenderebbe anche tutti gli interventi dello Stato posti strumentalmente al soddisfacimento di tali interessi. In ogni caso, fermo restando che il termine assistenza legato ad un concetto di bisogno sta ad indicare «qualsiasi prestazione di attività personale o di cose determinate fatta a soggetti che di essa abbiano particolare bisogno»[6], il problema è vedere se ed eventualmente in quale misura la successiva aggettivazione comporti una differenziazione di significato e, conseguentemente, una diversa indicazione dei servizi predisposti al soddisfacimento di concreti bisogni.

Sotto questo profilo appare interessante il richiamo alla dottrina amministrativistica che nella sistematizzazione dei compiti della p.a., annovera dei compiti attinenti al benessere spirituale della popolazione proprio per distinguerli da altri compiti rivolti al perseguimento del benessere materiale della stessa[7]. A tali compiti, finalizzati al benessere spirituale, appartengono, dunque, attività direttamente rivolte a soddisfare bisogni di istruzione, di cultura, di ricreazione e di natura religiosa. Questo significa che se per assistenza spirituale devono intendersi necessariamente quelle prestazioni di attività personale o di cose determinate rivolte a soddisfare la generalità di tali bisogni, con l’espressione assistenza religiosa si indicano, invece, quelle prestazioni rivolte a soddisfare uno specifico tra la pluralità di bisogni, la cui eventuale sussistenza impedisce il raggiungimento del benessere spirituale. In altre parole l’assistenza spirituale costituisce un plus rispetto all’assistenza religiosa poiché quest’ultima entra a definire ed integrare la prima[8].

Ciò posto, indubbiamente l’assistenza spirituale è rivolta a soddisfare le esigenze religiose di quei soggetti che si trovano inseriti, anche solo temporaneamente, all’interno di strutture pubbliche obbliganti. Al riguardo va detto che le possibili sfaccettature in cui può articolarsi la libertà di religione sono la libertà di manifestare una qualsiasi credenza fideistica, sia privatamente che comunitariamente, la libertà di ateismo e, infine, la libertà di propaganda religiosa. Proprio il primo aspetto comporta la possibilità di manifestare la propria religione in ogni contesto, sia “normale” che “speciale” come, ad esempio, possono essere le strutture segreganti ( luoghi in cui il diritto in questione è indispensabile proprio perché concorre alla tutela della dignità della persona). Lo scopo di questa libertà è, pertanto, quello di attuare e mantenere le condizioni tali per cui ogni individuo possa perseguire e realizzare le proprie esigenze spirituali e religiose senza essere sottoposto ad alcuna ingiustificata restrizione. Una delle facoltà che derivano direttamente da questo diritto è la possibilità di esercitarlo concretamente[9] poiché, dinnanzi a un ordinamento costituzionale ispirato da principio solidaristico che pone al centro dell’interesse pubblico la persona umana, la restrizione della libertà personale non può comportare una radicale capitis deminutio. Del resto, è stato più volte chiarito che «è principio di civiltà giuridica che al condannato sia riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive, e garantita quella parte di personalità umana, che la pena non intacca»[10].

Per questa ragione, l’Italia offre a tutti i detenuti forme di assistenza spirituale[11]. La sua disciplina all’interno delle carceri è disciplinata attualmente dalla legge n. 345 del 1975 e dal D.P.R. n. 230 del 2000 –Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, e dal D.p.r. n. 230 del 2000 – Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà [12].

In tema, proprio l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario stabilisce che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose […]. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti». Per quanto riguarda poi la natura del trattamento, l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario, stabilendo che deve essere «svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione[13], delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia»[14], aumenta in novero delle possibilità rispetto alla disciplina precedente prevedendo, inoltre, che le modalità siano delineate dal regolamento interno (alla cui stesura provvede una commissione di cui fa parte anche il cappellano)[15]. Al detenuto, così, sono riconosciuti il diritto di professare la propria fede religiosa, il diritto di partecipare ai riti della propria confessione nonché quello di tenere ed esporre nelle camere immagini e simboli religiosi[16].

Sempre l’ordinamento penitenziario poi all’art. 26 riconosce esplicitamente il diritto di libertà religiosa all’interno delle carceri. Esso, infatti, prevede che «i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti». Appaiono soppressi, dunque, i precedenti elementi di valutazione della condotta del detenuto quali, ad esempio, «il tenore di vita del detenuto nelle funzioni religiose»[17] così come l’impossibilità per i detenuti in isolamento continuo di assistere alle funzioni religiose[18].

Tuttavia, problemi di coordinamento con il diritto di libertà religiosa ancora possono emergere non solo se si pensa al silenzio serbato dalla disciplina penitenziaria in tema di propaganda religiosa[19] o di manifestazioni religiose che prevedano un momento di aggregazione[20] ma anche dalla diversa disciplina che l’art. 26 dell’ordinamento penitenziario detta per il culto acattolico e per quelli acattolici[21].

Va evidenziato anche che a quest’ultima disposizione appare strettamente connesso l’art. 26 del regolamento esecutivo il quale prevede che «per ogni detenuto o internato è istituita una cartella personale […] corredata dei dati anagrafici, delle impronte digitali, della fotografia e di ogni altro elemento necessario per la precisa identificazione della persona. Nella cartella personale, oltre a quanto stabilito dall’articolo 94 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sono inseriti i dati e le indicazioni previsti dal quarto comma dell’articolo 13 della legge». Pertanto, per facilitare l’applicazione del diritto sancito dall’articolo 19 Cost., nella cartella del detenuto deve essere indicata anche la sua fede di appartenenza. Tuttavia se alla religione cattolica, a prescindere dalla sollecitazione dei carcerati, è garantito lo svolgimento delle funzioni nelle cappelle presenti nelle carceri, per gli appartenenti ad altre religioni e per le confessioni prive di intesa bisogna ricorrere al D.P.R. 13 maggio 2005 che prescrivere, anche in assenza di ministri di culto, la sistemazione di alcune aree per la preghiera e per la celebrazione dei riti religiosi, solo in caso di sollecitazione degli interessati[22]. Inoltre, al di là del dettato normativo, deve anche essere considerato che non sempre quanto ivi previsto risulta realizzabile in concreto poiché non di rado il “sovraffollamento carcerario” si riversa sui diritti riconosciuti ai detenuti. In ogni caso, le realtà penitenziarie cercano comunque di dare attuazione alla disposizione in esame con l’introduzione di circolari interne che tenendo pur sempre in considerazione la grandezza dei posti a disposizione e stabiliscono una turnazione per le preghiere acattoliche[23].

Benché, poi, alcune carceri abbiano allestito aree di preghiera per i reclusi appartenenti a confessioni acattoliche, ancora differenze possono manifestarsi con riferimento al trattamento dei ministri di culto. Infatti se, come si è detto, nel caso della religione cattolica «a ciascun istituto è addetto almeno un cappellano» (art. 26 dell’ordinamento penitenziario), per i detenuti appartenenti a confessioni diversa dalla cattolica c’è il «diritto[24] di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti». A ciò deve essere anche aggiunto che per quei detenuti appartenenti a confessioni prive di intesa, bisogna far riferimento all’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario per il quale «sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera»; con la precisazione che, anche se apparentemente in contrasto con quanto previsto dall’art. 116[25], al detenuto (ex art. 58 del regolamento di esecuzione della legge 354 del 75[26]p) non potrà mai essere rifiutato il servizio di assistenza spirituale neanche nel caso in cui il ministro di culto indicato non appaia nell’elenco del Ministero dell’Interno[27].

Merita, inoltre, di essere evidenziato che la disciplina dell’assistenza spirituale nelle carceri include anche il tema legato all’alimentazione religiosamente orientata.

Del resto, sono, ormai, diverse le confessioni praticate nei luoghi detentivi. Oltre al cattolicesimo, da un punto di vista numerico, prevalgono l’islamismo[28], la componente ortodossa e quella protestante[29]. Per molte di esse l’osservanza dei dettami alimentari rappresenta un fattore fondamentale dell’esercizio del diritto di manifestare liberamente la propria religione[30].

In tema, tuttavia, l’attuale quadro normativo risulta alquanto lacunoso. Basti pensare che il Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha dovuto rispondere per la prima volta a delle richieste in tema di alimentazione il 13 marzo 1989 attraverso la circolare n. 583268-6. La scelta di tale modalità d’approccio piuttosto che riformare in maniera organica parte del sistema tenendo conto dei mutamenti socio-culturali in corso, ha messo in luce l’intenzione dello Stato di non occuparsi della questione in modo strutturato ma, semplicemente, di procedere “per rappezzi”[31].

Per di più, in tema, non aiuta neanche il decreto del Ministro della Giustizia del 5 dicembre 2012 che, in attuazione del D.P.R. 5 giugno 2012, n. 136, ha stabilito il contenuto  della Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati” di cui all’art. 69 comma 2 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento sull’ordinamento penitenziario), come modificato dall’art. 1 del D.P.R. 5 giugno 2012, n. 136. Infatti, nelle disposizioni che attengono alla vita quotidiana questo si è limitato a statuire che il detenuto o l’internato ha diritto ad un’alimentazione sana e adeguata alle proprie condizioni, che ha diritto a tre pasti al giorno, somministrati negli orari stabiliti dal regolamento interno di istituto e che ha diritto di avere a disposizione acqua potabile e di utilizzare, nel rispetto delle regole di sicurezza, un fornello personale. È, inoltre, anche consentito l’acquisto, a proprie spese, di generi alimentari e di conforto (cosiddetto “sopravitto”) ed è garantito entro limiti di peso prefissati il diritto di ricevere dall’esterno analoghe merci in pacchi. Al riguardo è previsto poi che una rappresentanza dei detenuti controlli sia la preparazione del vitto che i prezzi dei generi venduti in istituto. Sono salvaguardati inoltre il diritto alla salute e l’erogazione, nei livelli essenziali ed uniformi di assistenza, delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, previste. Tutti i servizi disponibili all’interno di ciascun istituto sono indicati nella Carta dei servizi sanitari per i detenuti e gli internati.

Inoltre, se l’articolo 9 dell’ordinamento penitenziario statuisce anche che «ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima», il quarto comma dell’articolo 11 del regolamento esecutivo prevede che tutte «le tabelle vittuarie, distinte in riferimento ai criteri di cui al primo comma dell’articolo 9 della legge, sono approvate con decreto ministeriale ai sensi del comma quarto dello stesso articolo, in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione. Le stesse, poi, devono essere aggiornate almeno ogni cinque anni e, nella formulazione delle stesse si deve anche tenere conto, in quanto possibile, delle prescrizioni proprie delle diverse fedi religiose». Tuttavia, rispetto alla necessità che lo Stato prenda atto che per alcune confessioni l’alimentazione rivesta il valore di un vero e proprio atto a contenuto religioso nel compimento del quale si manifesta la coerenza dei credenti alla loro fede religiosa[32], non può far sorgere dubbi però la formulazione “in quanto possibile” ivi contenuta che, oltre ad apparire generica, risulta essere anche in contrasto con l’importanza che ex art. 15 dovrebbe rivestire la salvaguardia degli elementi di trattamento degli internati dell’ordinamento penitenziario.

2. L’evoluzione del sistema penitenziario italiano ed il ruolo della legge n. 354 del 1975 nella rieducazione del detenuto

La detenzione negli istituti penitenziari costituisce lo strumento attraverso il quale lo Stato, in conseguenza alla commissione di un reato da parte di un individuo e sulla base di una sentenza passata in giudicato, ne determina la privazione o la limitazione della libertà personale. In tema diverse sono state nel tempo le teorie elaborate sulla funzione che la pena è chiamata a svolgere nei confronti del detenuto. Ad una teoria assoluta, o meglio, “retributiva” che presuppone di infliggere al soggetto una sofferenza proporzionata al male commesso e finalizzata alla ricostituzione della legalità violata, si affianca una diversa concezione relativa o “utilitaristica” che trova fondamento nell’intento dello Stato di impartire una punizione non solo al fine di impedire la recidiva ma anche in un’ottica generale preventiva. Una prospettiva completamente opposta è quella che rileva nella detenzione una finalità rieducativa capace di vanificare (garantendo appieno il rispetto e la tutela dei diritti del detenuto fatta eccezione per quelli che non sono compatibili con la reclusione) la pericolosità del condannato e di creare le condizioni affinché egli possa essere reinserito nella società. Lo scopo rieducativo, che si ricava dall’articolo 27 della Costituzione, viene oggi ripreso nella legge n. 354 del 1975[33] dalla quale emerge un’impostazione individualista che tende a centralizzare gli interessi e le inclinazioni personali del soggetto.

Eppure, il percorso che ha portato all’emanazione di tale legge è stato lungo e piuttosto accidentato. Infatti, con l’Unità d’Italia e dopo l’estensione del codice penale sardo a tutte le province italiane, in materia carceraria il Governo, nell’arco di due anni, emanò ben cinque regolamenti relativi alle diverse tipologie di stabilimenti carcerari[34]. Nel 1889, poi, all’emanazione del codice penale Zanardelli fecero seguito anche la prima legge relativa all’edilizia penitenziaria e agli stanziamenti di bilancio per farvi fronte (legge 14 luglio 1889, n. 6165) ed il regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1981[35].

Tale assetto normativo se da una parte evidenziava la condizione di solitudine del detenuto, lasciato solo di fronte al rigido sistema carcerario, dall’altra faceva emergere un uso della religione quale strumento di costrizione, di educazione e di diffusione tra i detenuti del senso etico dello Stato[36]. Le pratiche religiose venivano imposte coattivamente principalmente per fini educativi e, anche la presenza di ecclesiastici all’interno delle strutture segreganti, appariva funzionale ad interessi sostanzialmente pratici o economici.

Infatti, in tema di sorveglianza, istruzione morale, civile ed industriale delle detenute, il regolamento carcerario del 1891 disciplinò la presenza delle suore nelle istituzioni penitenziarie femminili poiché «certi servizi, come è quello che obbliga ad un contatto continuo con le classi più corrotte, non si possono adempiere se non per sentimento di dovere o per spirito di caritatevole abnegazione; e nelle guardiane l’amministrazione non sempre trova quelle due qualità, mentre l’esperienza fatta delle suore poco o nulla ha lasciato a desiderare»[37]. Tale assetto, rimasto sostanzialmente immutato per molto tempo, ha visto numerose innovazioni grazie alla riforma del regolamento carcerario prevista dal regio decreto 19 febbraio 1922, n. 393 e, poi, dal regio decreto 18 giugno 1931 n. 787.

Tuttavia, quest’ultimo ha confermato ed ha continuato ad evidenziare quelle scelte afflittive e repressive che lo Stato liberale aveva cercato di mascherare con promesse di miglioramento delle condizioni delle carceri e nel processo rieducativo del detenuto[38]. Anche poi l’avvento della Costituzione del 1948 in materia di disciplina penitenziaria non comportò l’introduzione di concrete innovazioni rispetto alla disciplina precedente. Malgrado in Assemblea il problema della libertà religiosa e dell’assistenza spirituale dei cittadini legati allo Stato da un particolare rapporto di soggezione[39] e nonostante l’affermazione dei principi di libertà, di uguaglianza e di pari dignità sociale posti alla base dell’ordinamento democratico, continuò così ad essere applicato il regolamento carcerario del 1931 con conseguente violazione della libertà religiosa individuale[40].

Eppure, l’evidente incompatibilità della disciplina penitenziaria con i valori costituzionali iniziò gradualmente ad essere concretamente presa in considerazione[41]. Si arrivò, così, nel 1968 a proporre questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 19 e 21 Cost. dell’art. 142, comma 2, del regolamento penitenziario del 1931 nella parte in cui veniva prescritto l’obbligo per i detenuti di partecipare ai riti di culto cattolico.

La sentenza della Corte Costituzionale[42], che pur dichiarando inammissibile la questione a causa della natura regolamentare della norma impugnata ne sollecitò la disapplicazione[43], portò, nell’ambito di una sempre più diffusa sensibilità per le libertà personali, ad una circolare ministeriale del 1969[44] che dispose la disapplicazione degli artt. 142, 143 e 144 del regolamento carcerario del 1931. Crebbe, così, un movimento riformistico che, dopo numerosi progetti di riforma del regolamento carcerario del 1931[45], trovò il suo esito positivo nel 1975.

Con la legge n. 354 del 1975 finalmente la libertà religiosa negli istituti penitenziari appare un elemento essenziale nel percorso detentivo, «improntato ora a finalità rieducative, solo se – venuta meno qualsiasi funzione di moralizzazione o di controllo imposta dall’istituzione – concorra, per libera scelta dell’individuo, allo svolgimento della sua personalità e nel rispetto della dignità personale»[46].

Il riconoscimento di tale diritto nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario permette di abbandonare l’idea della religione in carcere come imposizione[47] e di coglierne l’apporto positivo nel processo riabilitativo tenendo inoltre presente che, per ovvie ragioni, questo non può essere limitato in alcun modo dall’amministrazione carceraria, alla quale peraltro il detenuto può rivolgersi mediante reclamo per denunciarne qualsiasi violazione.

I detenuti e gli internati hanno, così, libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti é assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto é addetto poi almeno un cappellano. Anche gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, la assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti[48]. E’, dunque, in questi termini che l’ordinamento penitenziario garantisce il diritto di libertà religiosa in una realtà complessa come quella carceraria imponendo all’autorità statale un intervento attivo per assicurarne quell’esercizio effettivo che la permanenza obbligatoria inevitabilmente limita.

Il tema della libertà religiosa come diritto spettante al detenuto deve essere poi necessariamente posto in confronto con le problematiche della realtà penitenziaria come il sovraffollamento ed il conseguente onere economico[49] che ne deriva per lo Stato italiano. Anche tali aspetti, però, divenuti oggetto di interventi normativi a livello sovranazionale quali, ad esempio, la Raccomandazione sulle regole nelle prigioni europee[50], sono stati affrontati nel senso che i diritti assicurati al detenuto dalla legge, tra i quali viene ricompresa la libertà di culto, non possono essere mai considerati diritti di seconda fascia ed essere oggetto di limitazione o compressione, soprattutto per motivazioni di natura economica.

Ciò sottolinea l’importanza che l’ordinamento attribuisce al fenomeno religioso in una circostanza in cui al soggetto già privato del bene fondamentale della libertà deve essere assicurato il godimento e la soddisfazione dei diritti e dei valori essenziali dell’uomo (anche di natura religiosa). In tal senso, la rimozione degli ostacoli che impediscono di fatto l’esercizio di un diritto inviolabile evidenzia anche «l’accentuarsi del diritto ecclesiastico come legislatio libertatis, cioè come un diritto strumentalmente piegato alle esigenze della persona umana e della sua libertà, piuttosto che agli interessi ed alle esigenze delle istituzioni»[51].

La tutela formale predisposta dalla legge al diritto di libertà religiosa richiede un necessario confronto con le dinamiche interne degli istituti di detenzione e il conseguente adeguamento della disciplina al mutato contesto penitenziario in cui la compresenza di modelli confessionali differenziati consente di considerare la prigione come «terreno privilegiato per testare le politiche della laicità e del pluralismo in direzione inclusiva, quale espressione del mosaico multiculturale e multireligioso dell’odierna società civile»[52].

E’ opportuno precisare però che la disciplina contenuta nella riforma dell’ordinamento penitenziario che indubbiamente ribadisce il principio di uguaglianza e bandisce qualsiasi forma di discriminazione tra i detenuti basata su fattori etnici, economici, politici o religiosi prevede anche tuttavia che come servizio permanente vi sia solo quello di natura cattolica realizzando, così, «la non perfetta identità tra il regime di garanzia di fede non cattolica e il regime di quelli professanti le altre religioni»[53]. L’esclusivo riferimento al cappellano cattolico è, infatti, il segno evidente di una legislazione che non consente il totale abbandono di atteggiamenti confessionisti e che ritarda l’adeguamento delle norme ecclesiastiche al principio di laicità ampiamente riconosciuto e grazie all’attuazione del quale sarebbe possibile porre tutti i fedeli in condizione di parità nell’esercizio del diritto di libertà religiosa. In tal senso, si è tentato di giustificare questa posizione di privilegio e sostenerne la rispondenza ai valori costituzionali attraverso il riferimento alla prevalenza numerica dei detenuti cattolici e non sulla base di una semplice preferenza in termini di contenuto dei principi rispetto a quelli che caratterizzano le confessioni di minoranza. Tuttavia, tale tesi può essere facilmente disattesa se si tiene presente che il pluralismo religioso, incrementato anche dai fenomeni migratori, investe tutti gli aspetti del vivere in società e quindi anche gli istituti di detenzione che, pur con le loro peculiarità, costituiscono comunità formate da soggetti titolari di posizioni giuridiche la cui tutela è accordata in relazione al loro essere persone. Del resto, anche la Corte Costituzionale al riguardo ha ribadito che il necessario «abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza»[54]. E’, così, importante anche mettere in luce il contributo dato dal D.P.R. n. 230 del 2000[55] con il quale il legislatore ha tentato di realizzare la pacifica convivenza tra le differenti modalità di esercizio della libertà religiosa, partendo dalla collocazione dei valori del detenuto al centro della normativa e confermando la rilevanza dei principi religiosi nel trattamento rieducativo la cui mancanza, per lungo tempo, era stata considerata causa dell’indole criminale del condannato ma che ancora adesso risulta solo parzialmente attuata.

A norma dell’articolo 58[56], infatti, viene garantito al detenuto e all’internato il diritto di partecipare alle funzioni della propria fede a condizione che esse siano rispondenti alle esigenze di ordine e di sicurezza dell’istituto, il diritto di praticare il culto della propria professione religiosa e di manifestare la propria appartenenza ad una determinata confessione attraverso l’esposizione di immagini e simboli purché tali pratiche non siano fonte di turbative per la comunità.

Procedendo nell’analisi della norma in questione, tuttavia, risulta subito visibile il fallimento dell’ordinamento penitenziario nel superare la disparità di trattamento che continua a vedere come prevalente la fede cattolica[57]. Infatti, pur essendo garantita indistintamente a tutti i reclusi la possibilità di professare liberamente il proprio credo, la discriminazione si palesa quanto ai modi di adempimento del diritto che per il detenuto cattolico si configura come diritto privo di limitazioni, agevolato nell’esercizio dalla previsione di una cappella all’interno del carcere e della presenza stabile del cappellano e per tutti gli altri come diritto condizionato, cioè attivabile solo su richiesta di questi e per la cui esecuzione la direzione amministrativa mette a disposizione locali idonei utilizzabili anche in mancanza del ministro di culto.

Un tale squilibrio nella garanzia dei diritti inerenti alla dimensione religiosa dei soggetti sottoposti a misure detentive dovrebbe costituire uno spunto di riflessione per le istituzioni governative dal quale ricavare un assetto normativo che sia capace di tutelare la libertà religiosa in ogni suo aspetto a prescindere dalle richieste individuali poiché costruito «in presa diretta con i problemi pratici che la società multiculturale pone incessantemente in termini di novità»[58].

3. Il rapporto intercorrente tra l’amministrazione penitenziaria ed il cappellano carcerario 

Preso atto del ruolo determinante assunto dal fattore religioso nel percorso rivolto al recupero del detenuto, è necessario anche osservare lo sviluppo della figura del cappellano e del ministro di altro culto nonché della sua funzione pastorale alla luce dell’evoluzione e delle criticità del sistema penitenziario italiano[59].

Per i cattolici, l’ordinamento nazionale prevede che le pratiche di culto, così come l’istruzione e l’assistenza spirituale all’interno delle carceri, debbano essere assicurate dalla presenza di uno o più cappellani, inseriti stabilmente nel personale aggiunto della struttura penitenziaria[60].

La condizione del cappellano carcerario è stata oggetto di numerosi interventi legislativi che ne hanno orientato la funzione sulla base delle diverse finalità riconosciute alla pena detentiva nel corso del tempo passando, così, da una concezione prettamente punitiva ad una che si pone quale obiettivo la valorizzazione della condizione umana e in relazione alla quale il cappellano si atteggia come «promotore, garante e difensore dei diritti dei detenuti»[61].

Un primo riconoscimento formale della presenza del sacerdote all’interno delle strutture penitenziarie si può rintracciare già nel R. d. n. 413 del 1862[62] che, approvando il regolamento generale per le Case di pena del Regno, prevedeva la totale subordinazione del cappellano alla direzione del carcere. In questa direzione si muoveva anche il Regio Decreto n. 260 del 1891 che attribuiva al cappellano la qualifica di personale aggregato ed esclusivamente dipendente dal direttore dell’istituto, escludendo in tal modo un coinvolgimento degli organi ecclesiastici confermato ulteriormente dall’attribuzione del potere di nomina al Ministro di Grazia e Giustizia, concesso sulla base di una delega del Re e senza alcuna previsione in merito al preventivo consenso dell’autorità ecclesiastica.

Quanto ai fini, si deve sottolineare che il servizio spirituale, oltre all’espletamento delle ordinarie funzioni religiose, finiva per sconfinare in ulteriori e diverse attività consistenti in una «serie di funzioni disciplinari e amministrative in senso ampio, giustificabile non, certamente, con la qualità di sacerdote cattolico da essi rivestita, ma piuttosto con la ritenuta attinenza alla materia disciplinare del culto cattolico, loro affidato»[63].

La natura disciplinare appariva particolarmente evidente nelle funzioni attribuite al cappellano, inerenti al controllo sullo svolgimento dell’istruzione scolastica, alla valutazione della condotta sia morale che religiosa del detenuto[64], nonché alla loro partecipazione al procedimento di assegnazione di punizioni o concessione di premi ( tutte quali conseguenza della sua qualifica di membro del Consiglio di disciplina)[65]. A tal proposito è inevitabile ricordare che si trattava di un sistema carcerario che non considerava la libertà religiosa come un diritto spontaneamente esercitabile, bensì imponeva al detenuto, che al momento dell’ingresso avesse dichiarato la propria appartenenza ad una confessione religiosa, la partecipazione alle pratiche religiose. Vi era, in un certo senso, una strumentalizzazione del fattore religioso, inteso non come condizione di garanzia del diritto di libertà religiosa ma principalmente come strumento pedagogico di trattamento rieducativo del detenuto. Il cappellano, così, veniva collocato in una posizione di assoluta soggezione e dipendenza dalla direzione penitenziaria.

Tale assetto, inoltre, è stato sostanzialmente seguito anche dal regolamento esecutivo del 1931 la cui disciplina prevedeva che il cappellano annotasse le condizioni di salute del detenuto, giudicasse la sua idoneità al lavoro, valutasse le sue qualità morali, controllasse la corrispondenza e, partecipando al Consiglio di disciplina, proponesse l’isolamento per i condannati inadatti alla vita in comune[66].

Tale situazione ha subito un importante cambiamento di impostazione prima con la legge n. 323 del 1963, istitutiva dell’ispettorato dei cappellani presso il Ministero di Grazia e Giustizia, poi con la legge del 75, che ha rimosso il cappellano dal consiglio di disciplina e lo ha privato di tutte le mansioni amministrative che il regolamento precedente gli attribuiva e, infine, con la l’art. 11 del Nuovo Concordato che ha comportato il superamento dell’articolo 4 della legge n. 68 del 1982[67].

Su tale quadro normativo si innesta, poi, la disciplina costituzionale foriera di un’ideologia antropocentrica basata sulla promozione dei valori e diritti della persona che spettano anche al detenuto, in quanto uomo[68].

Tuttavia, nonostante il riconoscimento dell’assolutezza delle disposizioni contenute nella Carta Costituzionale, continuavano a sussistere delle incompatibilità tra queste e l’organizzazione del sistema penitenziario in materia di assistenza religiosa che rimaneva impostata sulle linee definite dalle norme regolamentari. Un primo passo verso il riconoscimento del primato del detenuto-persona umana si realizza, come si è visto, con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 che si inserisce in un momento in cui lo Stato e il diritto si impegnano a garantire spazi di libertà all’individuo tenendo in considerazione che «la libertà non è mai licenza, e l’autorità non è mai oppressione, e non può esistere uno Stato di giustizia che non rispetti la libertà dei cittadini»[69] .

E’ da mettere in risalto che la conquista del diritto di libertà religiosa ottenuta con tale riforma ha determinato oltre alla esclusione del cappellano dal Consiglio di disciplina e dalle funzioni civilistiche anche un mutamento della posizione giuridico – amministrativa dello stesso nei confronti dell’amministrazione penitenziaria.

Principalmente, la sua collocazione nella struttura penitenziaria presuppone ora l’intervento dell’organo ecclesiastico[70], individuato nell’Ordinario Diocesano competente alla designazione del soggetto quale ministro di culto cattolico dell’istituto di pena della propria diocesi e conferito con decreto del Ministro di Grazia e Giustizia, a seguito di parere favorevole dell’Ispettore generale dei cappellani e del competente Ispettore distrettuale degli istituti di prevenzione e pena.

Ciò dimostra il superamento della concezione per cui il servizio spirituale era affidato esclusivamente alla gestione dell’amministrazione per pervenire ad una soluzione in cui vi è un maggior ruolo per l’autorità ecclesiastica nell’ottica del principio costituzionale di autonomia e separazione delle competenze tra la Santa Sede e lo Stato italiano.

Dal punto di vista amministrativo, l’azione pastorale è puntualmente disciplinata dalla legge n. 68 del 1982[71] contenente le norme relative al trattamento giuridico ed economico del cappellano, che ne ha determinato l’assimilazione della loro posizione giuridica a quella degli impiegati governativi. Sulla scia di tale provvedimento si è verificato così il passaggio dalla qualifica di personale aggregato[72] a quella di personale incaricato di un ufficio ecclesiastico che il codice di diritto canonico definisce come «qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale» e che si rivolge all’intera comunità carceraria.

Le funzioni delle quali è investito il cappellano sono quelle attinenti alla celebrazione delle pratiche di culto, la somministrazione dei sacramenti, l’istruzione e l’assistenza religiosa ai detenuti in accordo con l’amministrazione penitenziaria e nel rispetto delle esigenze di ordine e di sicurezza dell’istituto essendo inoltre imposto a quest’ultima l’obbligo di garantire lo svolgimento delle funzioni religiose.

Per l’assunzione dell’incarico di cappellano negli istituti di prevenzione e di pena, è richiesto il possedimento dei requisiti di cittadinanza italiana, il godimento dei diritti civili e politici, la buona condotta, la sana e robusta costituzione e un’età non superiore a settanta anni e, dal punto di vista formativo, è necessario che egli sia dotato di una preparazione specifica in riferimento alla peculiarità delle esigenze e alla fragilità che contraddistinguono i soggetti in stato di privazione della libertà.

Inoltre è importante notare che nell’esercizio delle sue funzioni, il sacerdote può essere colpito da provvedimenti di natura disciplinare irrogati dalla direzione quali, ad esempio i richiami o le “esortazioni rivolte al cappellano che non espleta le sue attività con assiduità ed impegno”[73]; le dichiarazioni di biasimo, quali atti di riprovazione nei casi in cui egli trasgredisca alle disposizioni inerenti all’organizzazione interna dell’istituto e, infine, l’esonero ossia la cessazione del rapporto nelle ipotesi di inosservanza di doveri dalla quale possano derivare effetti compromettenti l’intera struttura penitenziaria.

A queste deve ulteriormente aggiungersi un’altra causa di interruzione del rapporto mediante la revoca del nulla osta da parte dell’Ordinario Diocesano o, ancora in virtù di cause, pur indipendenti dalla sua volontà, che siano fonte di incompatibilità con la collettività carceraria.

Si deve poi tenere anche conto del fatto che, talvolta, la tutela del sentimento religioso del condannato può necessitare dell’intermediazione degli organi direttivi allorquando per garantire l’effettivo soddisfacimento del diritto di libertà religiosa a questo correlato l’amministrazione richieda o autorizzi il cappellano, laddove egli ne faccia richiesta, a compiere attività di assistenza spirituale anche al di fuori delle mura carcerarie nell’interesse del detenuto. Un tale ampliamento dell’ambito di operatività del cappellano carcerario trova la propria giustificazione nel riconoscimento del fenomeno religioso come componente dei rapporti interindividuali e quale diritto assoluto che deve obbligatoriamente tutelato «e ciò perché lo stato di soggezione nei confronti dell’autorità, in cui il detenuto viene a trovarsi, impone, per converso, che l’istituzione carceraria sia l’unico che possa prendersi cura della sua persona, della sua salute, della sua istruzione e via dicendo, in ragione del fatto che la condizione di reclusione non permette al detenuto di provvedervi da sé»[74].

Per quanto riguarda la qualificazione giuridica del rapporto che sussiste tra il cappellano e l’amministrazione carceraria, come si è in parte già visto, questa ha visto il contrapporsi di due diverse posizioni. La prima, che si pone in favore del carattere pubblico del servizio di cappellania sulla base dell’analogia dei compiti e dei diritti degli impiegati civili e in opposizione a questa, la tesi che gli attribuisce una natura del tutto particolare negando categoricamente la sussistenza di qualsiasi elemento di natura civilistica[75]. A risolvere una tale ambiguità è intervenuta la Corte di Cassazione Penale per la quale occorre considerare la funzione oggettiva svolta dal cappellano dalla quale è indubbiamente rilevabile che egli «non svolge una funzione pubblica legislativa o giudiziaria né, dopo il ridimensionamento dei compiti originariamente attribuitigli, una funzione amministrativa, intesa come attività caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, sicché non riveste la qualità di pubblico ufficiale»[76]. Piuttosto il rapporto deve essere dunque ricondotto allo svolgimento di un servizio pubblico che trova conferma nella privazione dei poteri decisori e autoritativi che invece contraddistinguono l’esercizio della funzione pubblica.

La presenza del ministro di culto acattolico, invece, a differenza di quanto previsto per il cappellano che opera direttamente per l’amministrazione penitenziaria e in modo permanente, è invece subordinata alla richiesta del fedele nonché all’autorizzazione del direttore del carcere. Inoltre, possono frequentare gli istituti penitenziari, sempre su autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza e su parere favorevole del direttore, «tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera» (art. 17, secondo comma, ord. pen.). In tal senso, possono quindi rientrare anche tutti i ministri non indicati dal Ministero quali, ad esempio, quelli appartenenti a confessioni “non riconosciute” o non munite di intesa con lo Stato.

4. L’assistenza spirituale per i detenuti in regime di 41bis

L’ordinamento penitenziario, in risposta ad esigenze di sicurezza pubblica e specificamente in relazione ai reati legati al crimine organizzato, ha previsto all’art. 41 bis un regime di detenzione speciale che differisce da quello ordinario in virtù della particolare rigidità delle restrizioni imposte al detenuto e che antepone la tutela della collettività a quella individuale del condannato[77]. Alla necessità di realizzare in maniera efficiente la difesa sociale si contrappone «l’esigenza di garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona che, anche quando si abbia a che fare con i più efferati criminali, costituisce un obbligo inderogabile- oltre che un tratto caratterizzante- di uno Stato di diritto»[78].

Il carcere duro, dunque, rappresenta una misura particolarmente afflittiva con la quale lo Stato reagisce al fenomeno mafioso al fine di interrompere i rapporti tra il detenuto e il gruppo criminale di appartenenza, attraverso una più incisiva limitazione delle sue libertà e dei contatti con il mondo esterno che tuttavia, richiedono un equilibrio tra le finalità del trattamento preventivo e la tutela delle libertà fondamentali dell’uomo.

Questo particolare modello di detenzione, non può prescindere dalla considerazione che il detenuto è persona umana e le restrizioni dei suoi diritti possono essere disposte solo in ordine ad esigenze di sicurezza, in quanto “in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.[79]. Tra i diritti inerenti alla sfera intima del detenuto, vi è sicuramente quello di libertà religiosa il cui esercizio deve essere assicurato da parte dell’amministrazione penitenziaria perché diritto naturale e irrinunciabile dell’individuo, che in condizioni particolarmente privative della libertà può ingiustamente essere compresso determinando la violazione del dettato costituzionale che la garantisce anche qualora il soggetto venga a trovarsi in situazioni di soggezione speciale, come quella determinata dalla reclusione negli istituti di prevenzione e di pena. Non a caso, nel decimo rapporto sulle condizioni dei detenuti redatto nel 2013 dall’associazione Antigone, si legge che «i detenuti sottoposti al regime del 41 bis nel luglio del 2013 erano 8.914 e che nei loro confronti sono fortemente ridotte le opportunità di trattamento poiché non possono partecipare, nella maggior parte dei casi, ad attività sociali e culturali nei loro reparti».

Così, per quanto riguarda il diritto per questa peculiare categoria di detenuti di ricevere l’assistenza spirituale si pone il problema di conciliare la presenza del ministro di culto con una significativa limitazione dei contatti con l’esterno. Non di rado, al riguardo, la questione è stata posta al vaglio della Corte Costituzionale che più volte ha censurato l’illegittimità del diniego da parte dell’amministrazione dell’autorizzazione per il condannato a ricevere assistenza spirituale. Ciò perché, anche in presenza del regime di 41 bis, non possono essere sospese o soppresse «le attività di osservazione e di trattamento individualizzato né le attività culturali, ricreative, sportive o di altro genere volte alla realizzazione della personalità»[80]. Del resto, come la stessa Corte Costituzionale ha chiarito nella sentenza n. 26 del 1999, «l’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguentemente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso il generale assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti».

In un caso, in particolare, oggetto del giudizio è stato il rigetto da parte del magistrato di sorveglianza della richiesta di un detenuto testimone di Geova a ricevere l’assistenza del proprio ministro di culto per lo studio di testi biblici (che costituisce uno dei caratteri essenziali della confessione) adducendo che l’art 26 dell’ordinamento penitenziario non richiede come necessaria la presenza del ministro di culto a tale fine. Dalle considerazioni a fondamento del procedimento decisorio della Corte di Cassazione si può desumere che anche lo studio di tali testi rappresenta una modalità di espressione della libertà religiosa e che la previsione dell’assistenza del ministro di culto deve intendersi come presenza fisica e concreta dello stesso anche in un regime così restrittivo come previsto dal 41 bis. Proprio da ciò deriva l’insufficienza della motivazione del rigetto della domanda del detenuto in conseguenza alla quale la Corte ha statuito che “non pare possibile negare ad un credente – ed a maggior ragione ad un testimone di Geova, per il quale è importante lo studio della bibbia – almeno una qualche forma di approccio con il ministro del proprio culto, al fine di poter approfondire lo studio dei testi biblici, ferma restando l’esigenza che il colloquio si svolga con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto carcerario”[81].

Allo stesso modo, noto è il caso di un detenuto (sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario) che denunciava la lesione dei suoi diritti da parte della direzione della casa circondariale nella quale era internato, in quanto gli era stata negata la somministrazione di cibo vegetariano nonché l’ingresso di un maestro buddista zen in qualità di ministro di culto. Anche in questo caso la Cassazione[82], nell’annullare il provvedimento del magistrato di sorveglianza impugnato, ha osservato che innanzi ad una “violazione del diritto di libertà di culto religioso” e in considerazione dell’esigenza – costituzionalmente garantita – di un adeguato sistema di tutela dei diritti dei detenuti, deve essere valorizzato l’art. 69 ord. pen., quinto comma, il quale statuisce che tra i poteri del magistrato rientra proprio quello d’impartire disposizioni dirette a eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati[83]. Certo, è evidente che alla base dei provvedimenti relativi a questa particolare modalità di detenzione è posta sempre la tutela dell’ordine e la sicurezza della struttura penitenziaria, e che questa può porsi come limite all’esercizio di alcuni diritti e determinare la sospensione[84] delle ordinarie regole di trattamento ma solo se strettamente necessaria a preservare la stabilità e a garantire il rispetto delle regole di disciplina che contribuiscono al coretto svolgimento delle finalità del regime detentivo cui il detenuto è sottoposto e sempre che non si pongano in contrasto con le disposizioni di legge. Così si pongono su due versanti opposti, la finalità dello Stato di combattere la criminalità organizzata attraverso lo strumento della detenzione[85] e il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto, che ha trovato sostegno anche negli interventi delle istituzioni europee in relazione alla salvaguardia dei principi sanciti dalla Costituzione e dalla normativa sovranazionale, che includono anche il diritto di culto tra i diritti fondamentali che devono essere obbligatoriamente tutelati a tutti i soggetti indistintamente e ovunque essi si trovino. Una conciliazione sarebbe pertanto possibile guardando al carcere duro dalla prospettiva secondo la quale non deve considerarsi esclusivamente come forma repressiva ma orientarsi verso una concezione che tende a valorizzare il fine della prevenzione e a «garantire un minimo di progressività nel ritorno alla vita sociale del detenuto»[86].

5. Assistenza spirituale e misure alternative alla detenzione

Come è noto con l’introduzione e la disciplina delle misure alternative alla detenzione ad opera della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n. 354 del 1975 (e successive leggi di modifica) nessuna norma specifica è stata prevista a garanzia della libertà religione del soggetto sottoposto a tali misure.

Per la maggior parte di queste misure il problema dell’assistenza spirituale si pone in termini diversi rispetto a come viene trattato e regolato nelle carceri poiché spesso il soggetto mantiene uno status libertatis, che gli permette, senza uno specifico intervento dello Stato, l’esercizio del diritto di libertà religiosa. Vi sono, tuttavia, dei casi in cui il soggetto, essendo sottoposto ad un rapporto di soggezione speciale che presenta caratteri custodiali e coercitivi, non può usufruire concretamente di tale diritto senza un positivo intervento dello Stato. Ciò avviene, ad esempio, in caso di arresti domiciliari, in caso di ricovero presso una comunità terapeutica per tossicodipendenti, nel caso in cui il condannato sia sottoposto alla detenzione domiciliare o, ancora, in caso di affidamento in prova al servizio sociale presso una comunità terapeutica. In tali casi, dunque, in assenza di espresse previsioni normative è quindi necessario trovare adeguati strumenti giuridici di garanzia, adottando soluzioni analoghe a quelle assicurate nell’ambito delle strutture penitenziarie[87].

A tal fine appare, allora, particolarmente interessante esaminare alcune decisioni giurisprudenziali che, innanzi alla richiesta da parte di imputati agli arresti domiciliari di poter partecipare alla messa, non sempre hanno affrontato i termini della questione in modo chiaro ed esaustivo. Ad esempio, il giudice istruttore di Pisa, con un’ordinanza del 13 novembre 1984[88], ha stabilito che alla persona sottoposta al regime di arresti domiciliari non può riservarsi un trattamento deteriore rispetto a quello assicurato dalle norme sull’ordinamento penitenziario agli imputati detenuti. Così, la partecipazione alla messa deve assolutamente rientrare tra quelle «indispensabili esigenze di vita che consentono al giudice di autorizzare l’imputato ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze». Tuttavia, in casi analoghi la giurisprudenza talvolta è approdata a soluzioni completamente diverse. Ad esempio, sia il Tribunale di Milano che la Corte d’Appello di Firenze[89] hanno ritenuto soddisfatto il precetto religioso anche solo attraverso la mera fruizione dei mezzi radio-televisivi, procedendo, così, ad una equiparazione tra la funzione religiosa effettivamente “partecipata” e quella semplicemente trasmessa. Equiparazione che, oltre a non avere alcun fondamento nell’ordinamento canonico[90] solleva anche numerosi dubbi e perplessità per il fatto che appare poco opportuno il giudizio di un organo dello Stato riguardo al grado di doverosità che promana dalla norma di un ordinamento confessionale[91]. Allo stesso modo, anche nei confronti degli imputati e dei condannati ricoverati presso le comunità terapeutiche per tossicodipendenti ed alcoldipendenti vi è la necessità di garantire e tutelare la libertà religiosa quale diritto da riconoscere anche in quelle situazioni che riproducono dei rapporti di soggezione speciale e che comportano una limitazione o una privazione della libertà fisica. E’ chiaro allora che dopo essere stata disciplinata nell’ambito delle strutture segreganti, l’assistenza spirituale dovrà essere resa fruibile attraverso strumenti concreti capaci di garantire la libertà religiosa anche nel campo delle misure alternative alla detenzione.

6. Identità religiosa ed assistenza spirituale in caso di “detenzione amministrativa” nei Centri di Identificazione ed Espulsione e nei Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo

 I movimenti migratori, che ormai caratterizzano lo scenario globale, rappresentano un elemento di indubbia rilevanza e rendono evidente l’esigenza da parte degli Stati di predisporre ed attuare concrete forme di integrazione e di dialogo tra le molteplici diversità etniche, culturali e religiose presenti nella compagine sociale. Tuttavia, all’immigrazione legale per la quale lo Stato ha previsto norme che regolano l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel territorio nazionale, si è contrapposto il fenomeno dell’immigrazione clandestina avverso il quale «il legislatore ha in sostanza lasciato il territorio del riconoscimento dei diritti per raggiungere quello della regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno, sanzionando le illegittimità con lo strumento principe dell’espulsione»[92], che avviene mediante l’ intimazione ad abbandonare il territorio italiano o attraverso l’accompagnamento coattivo alla frontiera.

A tali provvedimenti però, non sempre è possibile dare immediata esecuzione. In simili ipotesi, dunque, la legge ha previsto una particolare forma di trattenimento presso i Centri di identificazione ed espulsione che, però, determina per il tempo strettamente necessario la privazione della libertà personale del soggetto[93]. La permanenza in tali centri viene definita anche “detenzione amministrativa”[94], in quanto conseguenza della violazione di una norma di carattere amministrativo e non penale che, però, di fatto si sostanzia in una vera e propria forma di carcerazione nella quale l’elemento della clandestinità dà luogo ad uno status d’eccezione in cui finanche i diritti fondamentali possono essere sospesi. E’, dunque, avvertita la necessità che anche in queste circostanze si pervenga ad una disciplina organica che si faccia garante delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, partendo dal pieno rispetto della dignità dello straniero formalmente sancito all’art. 14[95] del Testo Unico sull’immigrazione.

Per l’immigrato, del resto, questi luoghi costituiscono il primo punto di contatto con le istituzioni statali in cui si registra la compresenza di realtà culturali e religiose totalmente differenti che deve essere temperata da una maggiore valorizzazione del pluralismo basato su un sistema che favorisca il soddisfacimento degli interessi appartenenti ai soggetti che vi sono trattenuti incentivando un dialogo diretto alla realizzazione di una piena integrazione.

Benché tale permanenza obbligatoria abbia per certi versi caratteri simili al regime di detenzione ordinario, la differenza tra il detenuto e lo straniero riposa sul fatto che per quest’ultimo i diritti connessi alla libertà religiosa non godono di quella formale tutela giuridica accordata invece ai primi. Tuttavia anche i CEI, pur non configurando regimi formalmente detentivi, impongono la considerazione che «pur in assenza di esplicite norme di riferimento specifico, in queste strutture debbano essere garantiti nella sostanza i diritti di rilievo costituzionale riconosciuti alle persone costrette in strutture obbliganti, tra cui figurano quelle connessi alla libertà religiosa»[96], posto che la semplice previsione in astratto non è più sufficiente strumento di protezione ma richiede una concreta possibilità di esercizio.

Un primo richiamo alla libertà di culto dei soggetti a cui è imposta la residenza obbligatoria nei Centri di identificazione ed espulsione è effettuato dal D.P.R. n. 394 del 31 agosto del 1999[97] per il quale «le modalità del trattenimento devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto (…) fermo restando l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal centro» (art. 21, co. 1). Nel comma successivo è precisato che «nell’ambito del Centro sono assicurati, oltre ai servizi occorrenti per il mantenimento e l’assistenza degli stranieri trattenuti o ospitati, i servizi sanitari essenziali, gli interventi di socializzazione e la libertà del culto, nei limiti previsti dalla Costituzione».

Viene così garantita, pur confermando il fine restrittivo del trattenimento attraverso l’imposizione del divieto di allontanamento dal centro in capo allo straniero, la possibilità di sostenere colloqui con il ministro di culto della propria confessione religiosa a condizione che questi non incidano negativamente sul regolare svolgimento della vita in comune e dei limiti imposti dalla Costituzione.

Dal punto di vista costituzionale, è infatti ormai pacifico che l’unico ed insuperabile limite al diritto di libertà religiosa è quello costituito dalla non contrarietà dei riti al buon costume[98], inteso quale insieme di principi etici che sorreggono la società civile e orientano le condotte umane.

Tuttavia, un discorso diverso presuppone l’ulteriore condizione di esercizio del diritto che il decreto presidenziale individua nel rispetto del vivere in comunità che si inserisce in un ambito meno ampio ma più complesso rispetto alla società genericamente intesa. Infatti se anche nei CIE, in cui inevitabilmente la libertà dell’individuo appare limitata e condizionata in ragione delle superiori esigenze organizzative e cautelari dell’istituzione nella quale l’individuo è astretto, appare essenziale garantire nella sostanza i diritti di rilievo costituzionale, appare necessario prestare attenzione alle modalità specifiche e alle regole concrete che assicurano la convivenza tra le diversità religiose ivi presenti e che, in un’ottica pur sempre costituzionalmente orientata, impediscono che vi possano essere pregiudizi agli interessi, all’integrità o alla dignità degli altri soggetti ospitati.

In merito la Corte Costituzionale ha chiaramente affermato che lo straniero, anche irregolarmente soggiornante, gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana[99] superando, così, il precedente orientamento che postulava, sulla scia di un forte differenzialismo, l’esclusivo riferimento al solo cittadino italiano e riconoscendo l’immigrato come persona con valori in sé radicati e non più come elemento di pericolo dell’identità nazionale.

Inoltre, appare chiaro che l’intenzione della norma di garantire la libertà di culto non sia rivolta solo all’aspetto collettivo ma comprenda anche la dimensione individuale dell’esercizio del diritto in ordine al quale lo straniero deve essere posto in condizione di poter soddisfare i propri bisogni religiosi e spirituali in modo conforme ai dettami della propria confessione, escludendo, così, categoricamente la possibilità che il riconoscimento, la limitazione o addirittura la negazione di un diritto di simile portata, siano frutto del libero arbitrio dell’amministrazione.

In riferimento alla figura del ministro di culto sorgono dubbi e criticità in conseguenza del fatto che nel decreto non è rintracciabile alcuna disposizione che ne precisi le modalità di individuazione o di accesso, limitandosi semplicemente ad annoverarlo nella categoria dei soggetti ai quali è consentito l’accesso nella struttura[100].

Nel silenzio della norma e al fine di scongiurarne l’inefficacia, si ritiene, in ragione anche delle analogie che emergono dal raffronto tra l’aspetto organizzativo e funzionale delle due strutture, di poter adeguare al modello dei centri di identificazione ed espulsione la disciplina giuridica dettata per l’accesso dei ministri di culto negli istituti penitenziari.

Una tale soluzione legislativa porta inevitabilmente con sé anche il divario, ancora attuale, tra le prerogative riconosciute alle confessioni religiose dotate d’intesa con lo Stato italiano e quelle che invece ne restano prive. Infatti, se per le prime risulta garantito il libero accesso del ministro di culto all’interno della struttura, permangono «per tutti gli altri (fedeli) i dubbi circa l’effettiva garanzia dell’assistenza spirituale ed in particolare per i fedeli musulmani che fino ad oggi sono risultati la stragrande maggioranza degli stranieri transitati per detti centri»[101], per i quali la stessa resta subordinata ad una esplicita richiesta del soggetto interessato.

Si può, inoltre, notare che vi è una perdita di centralità del ruolo del sacerdote cattolico in quanto, oltre a non essere prevista alcuna presenza stabile di cappellania all’interno dei CIE, la normativa in questione non prende direttamente in considerazione tale figura, la quale solo in via interpretativa può ricondursi alla categoria dei ministri di culto ai quali viene riconosciuta la possibilità di accedervi liberamente.

In relazione ai principi posti a fondamento della gestione dei Centri di identificazione ed espulsione e dei diritti che questa deve garantire in un’ottica di valorizzazione della dignità della persona trattenuta, il Ministero dell’Interno ha emanato una circolare ricordata come Direttiva generale in materia di Centri di permanenza temporanea ed assistenza, nella quale l’interesse di trattenere l’immigrato irregolare attraverso questa peculiare forma detentiva, viene mitigata dalla previsione di una “Carta dei diritti e dei doveri” riconosciuti in capo allo straniero e sottolinea una maggiore propensione alla salvaguardia dei valori essenziali dell’uomo, in un’ottica fondata su criteri di imparzialità e non discriminazione.

Dalla garanzia della libertà di culto, dall’assistenza religiosa e dalle specifiche esigenze che ad esse si riconnettono, discende l’onere per gli organi gestori di provvedere all’erogazione dei relativi servizi «compatibilmente con le esigenze della vita collettiva, le abitudini ed i precetti religiosi dei diversi stranieri con particolare riferimento alle modalità delle funzioni religiose, all’erogazione e alla tipologia dei pasti, nonché agli altri aspetti relativi al culto»[102].

Al fine di una maggiore rispondenza del modello organizzativo dei CIE alla tutela dei diritti riconosciuti allo straniero dalle norme nazionali e internazionali, la Direttiva ministeriale prevede che contestualmente all’atto di ammissione al centro, allo straniero venga consegnata una comunicazione che lo renda edotto sui diritti e i doveri che a lui spettano per tutta la durata del periodo di trattenimento, con l’espressa indicazione del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa e di ricevere la relativa assistenza spirituale.

In verità, le condizioni di vita nei Centri di identificazione ed espulsione riflettono delle realtà in cui è evidente il maggiore interesse rivolto alla funzione repressiva del trattenimento, in cui la clandestinità si configura alla stregua di una caratteristica personale che giustifica questa tendenza alla ghettizzazione dell’immigrato e la quale «divenendo reato, per il senso comune si è apparentata ad un vizio dell’anima, ad una inguaribile condizione di degenerazione morale che invoca un trattamento duro e speciale»[103]. Del tutto diversa dallo status di immigrato irregolare, è la condizione giuridica del richiedente asilo. Principalmente bisogna osservare che il diritto d’asilo[104] viene ricompreso nell’alveo dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione che ne individua il presupposto nell’abbandono forzato, da parte dello straniero, del Paese di origine per motivi che attengono alla sua nazionalità, alla razza, all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, agli orientamenti politici e/o religiosi, in ordine ai quali egli richiede la protezione internazionale finalizzata all’ottenimento dello status di rifugiato.

Nonostante la previsione costituzionale, la legislazione italiana fatica ad adeguarsi ai livelli di tutela fissati in ambito comunitario e internazionale -principalmente da quelli fissati dalla Convenzione di Ginevra riguardanti la protezione giuridica dei rifugiati- mettendo in risalto l’esigenza ancora attuale di un efficace intervento normativo che consenta di considerare tali individui «persone a tutti gli effetti, riconoscendo loro le responsabilità per le scelte compiute e la capacità di elaborare strategie di azione, oltre che il possesso di un bagaglio culturale e valoriale con quale dare senso alle esperienze quotidiane così come alle situazioni più generali nelle quali si trovano, più o meno consapevolmente, inseriti»[105]. Difatti nell’ordinamento giuridico italiano, non essendovi ancora una legge adeguata in merito al diritto d’asilo, spesso si estende la disciplina prevista per gli immigrati irregolari anche al richiedente asilo che, successivamente alla richiesta, sarà accolto in uno dei Centri di accoglienza appositamente istituiti in attesa del compimento dell’iter procedurale per l’acquisizione dello status di rifugiato e quindi, non sottoposto ad alcuna misura che sia limitativa della libertà personale.

Quanto detto per i CIE vale solo parzialmente per i CARA istituiti con il D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 in attuazione della direttiva 2005/85/CE. Infatti, le varie disposizioni normative su questo ulteriore centro dell’immigrazione non contengono alcuna specificazione circa la libertà del culto e quella di colloquio con il ministro di culto prevista per i CIE. In via analogica può tuttavia applicarsi quanto affermato dall’art. 21 del D.P.R. n. 394 del 1999, trattandosi di aspetti dell’esercizio della libertà religiosa costituzionalmente garantito a tutti gli esseri umani. Dei CARA è importante sottolinearne natura ibrida che permette di qualificarli come centri “aperti”. E’ quindi riconosciuta la possibilità per lo straniero di potersi allontanare liberamente dal centro, manifestando la propensione ad un contatto con lo stesso maggiormente rivolto a favorire forme reali di protezione internazionale e umanitaria, e non soltanto il perseguimento di finalità emergenziali.

Per quanto riguarda i riferimenti alla tutela della sfera religiosa dell’individuo, si deve tenere presente che il nostro ordinamento nel predisporre le regole organizzative e strutturali dei centri di accoglienza, non contiene indicazione alcuna circa la libertà religiosa, l’assistenza spirituale o la possibilità di colloqui con il ministro di culto e pertanto, solo attraverso analogicamente è possibile applicare in tale ipotesi le norme che regolano la condizione dello straniero contenute nel D.P.R. 394/1999.

Ciononostante, nell’ambito della protezione internazionale, il fattore religioso emerge sotto i più differenti aspetti e «si riflette in un modello plurale di tutela della libertà religiosa dei rifugiati, nel segno di una concreta attuazione di quel valore universale attribuito alla libertà di coscienza e di religione a partire dalla Dichiarazione ONU del 1948»[106]. Ad esempio, in riferimento all’aspetto giuridico della dimensione religiosa nell’ambito dell’immigrazione, esso trova un importante riferimento normativo nella Direttiva europea n. 95/2011, figlia di un impegno legislativo rivolto alla salvaguardia e all’elaborazione di standard minimi di tutela in materia di protezione internazionale e alla creazione di un assetto normativo unitario al quale ciascuno Stato è obbligato ad adeguare la propria normativa interna.

Il concetto di religione adoperato dal legislatore europeo, è inteso nella sua concezione più ampia che si dilata fino ad includere “le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte”, esaltando [107] la libertà religiosa in ogni sua forma e aspetto e anche come libertà individuale di non credere[108].

L’attuale condizione degli immigrati accolti nei centri di accoglienza rappresenta il punto di partenza di quello che recentemente è stato definito il welfare migration[109] quale sistema fondato sul rispetto dei diritti sociali che si connettono ad attività rivolte ad assicurare l’accesso a servizi di rilevanza sociale allo straniero anche durante il tempo di permanenza nel centro e che impongono allo Stato di raggiungere un equilibrio tra le politiche di contenimento dei flussi migratori e il rispetto dei valori umani appartenenti ai richiedenti asilo, ivi compresa la libertà religiosa.

E’ evidente che l’importanza del fattore religioso si riflette in modo significativo sulla normativa inerente alla protezione internazionale che «si interseca sempre più strettamente con la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa, divenendone fattore propulsivo»[110]. Inoltre, poiché il fattore religioso rappresenta anche uno dei motivi di acquisizione dello status di rifugiato, questo deve essere considerato in tutte le sue possibili forme di manifestazione individuali o collettive che possono concretizzarsi sia nella scelta dell’individuo di aderire ad uno specifico orientamento confessionale o di non seguirne alcuno, escludendo qualsiasi forma autoritaria che si imponga sulla sua coscienza, sia nella decisione assunta in totale autonomia di manifestare pubblicamente o privatamente la propria identità confessionale. Ciò, offre un supporto all’idea di un diritto di libertà religiosa che prescindendo dall’appartenenza ad un ben preciso contesto socio-culturale, abbraccia una concezione «volontaristica che identifica l’origine dell’identità spirituale della persona in una scelta rimessa allo stesso individuo»[111], che rappresenta uno dei motivi principali delle persecuzioni nei confronti dello straniero che richiede di essere giuridicamente riconosciuto come rifugiato. Tuttavia, deve anche dirsi che al fine di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato non è sufficiente la mera violazione del diritto di libertà religiosa, ma è espressamente richiesto dalla legge che si tratti di atti persecutori a carattere individuale o anche di comportamenti che nel loro complesso siano in grado di determinare una “violazione grave dei diritti umani fondamentali”[112], per i quali non è ammessa alcuna deroga e in relazione ai quali sorge un vero e proprio obbligo di protezione in capo allo Stato cui viene effettuata la richiesta.

Tale obbligo emerge in conseguenza del fatto che l’ottenimento dell’asilo è stato riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, quale diritto soggettivo perfetto attribuito allo straniero in virtù dell’art. 10 della Costituzione, il quale pur in assenza di una norma di legge che ne stabilisca le condizioni di esercizio e le modalità di godimento[113] trova la sua ragione giustificatrice nella negazione allo straniero da parte dello Stato di origine, dell’effettivo esercizio delle libertà fondamentali costituzionalmente tutelate. Un aspetto importante della libertà religiosa si ravvisa ulteriormente nel ruolo che essa svolge quale limite a trattamenti discriminatori in ordine all’applicazione delle norme poste a tutela del rifugiato e, al contempo, quale criterio attuativo del principio di non-refoulement ossia il divieto di respingimento imposto allo Stato corrispondente al diritto di questi di non vedere esposti a minaccia i beni personali della vita e della libertà.

Sul punto, è importante segnalare una pronuncia della Corte di Cassazione in merito al ricorso di un cittadino straniero avverso il rigetto della richiesta di protezione internazionale per motivi religiosi disposto dalla Commissione territoriale, e confermato in Appello, motivato dall’impossibilità di individuare nelle motivazioni addotte dal richiedente la natura religiosa, bensì quella sindacale.

La Corte, ha precisato che i giudici di merito nel saggiare la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, hanno disatteso la rilevanza dell’aspetto religioso attribuendovi un ruolo del tutto marginale ed ha affermato che “partendo da queste premesse deve osservarsi che l’esame della situazione oggettiva con riferimento all’esclusione di una condizione di pericolo dovuta a violenza diffusa e non controllata o controllabile dalle autorità statuali non è stato effettuato in modo sufficientemente adeguato nella sentenza impugnata»[114], sottolineando l’imprescindibilità dell’ indicazione dei conflitti di carattere etnico-religioso e le possibili conseguenze persecutorie verso il soggetto ricorrente nel procedimento di valutazione che ha dato luogo alla negazione del diritto d’asilo.

Inoltre, la protezione giuridica accordata a siffatta libertà, specialmente in un Paese come l’Italia, in cui la presenza dell’elemento religioso è innegabilmente penetrante in tutti gli aspetti dell’agire quotidiano, accoglie e inevitabilmente si fonde con il principio di uguaglianza costituzionale che nei confronti delle istituzioni statali comporta l’assoluta equiparazione, in termini di libero esercizio della fede religiosa, dello straniero al cittadino italiano. In conclusione si può affermare che la questione riguardante i diritti attinenti alla sfera religiosa degli immigrati, costituisce il punto cruciale del dibattito attuale incentrato sulla necessità di individuare le specifiche tutele ad essa correlate ed orientare l’azione statale verso la “centralità che la disciplina della protezione internazionale e umanitaria è destinata ad assumere con riferimento alla tutela e alla promozione del diritto di libertà religiosa”[115], in attuazione del principio di proporzionalità che induce lo Stato a bilanciare il proprio interesse di contenimento del fenomeno migratorio per ragioni di sicurezza pubblica, con il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo tra i quali, ovviamente, risulta compreso quello di libertà religiosa e dei quali l’ordinamento giuridico dichiara l’universalità, l’indisponibilità e l’inviolabilità.

7. Brevi conclusioni  

In tema di assistenza spirituale nelle strutture segreganti, nonostante le modifiche apportate con la legge n. 663 del 1986 all’interno del quarto comma dell’art. 26 ord. Pen., risulta ancora evidente una non perfetta corrispondenza tra il regime di garanzia dei detenuti di fede cattolica e il regime di quelli professanti le altre religioni soprattutto nella messa in pratica dei provvedimenti che consentono l’esercizio del diritto alla libertà religiosa. Ciò rischia inevitabilmente di incidere negativamente sulla funzione rieducativa e sul reinserimento dei detenuti nella nostra società, alla cui realizzazione contribuiscono anche i ministri di culto e gli educatori di religione[116].

In termini ancora più generali, anche la religione, come elemento del trattamento rieducativo, può concorrere in modo incisivo sull’educazione e formazione della persona, dal momento che la religione, in questa particolare realtà, è da considerarsi come un insieme di interventi positivi, di appoggio morale e conforto materiale, ove le relazioni spirituali e umane divengono molto significative. Il rischio da evitare è quello che il disagio del detenuto aumenti e che, soprattutto per quelli appartenenti a confessioni acattoliche (prevalentemente extracomunitari), vi sia ancor di più un senso di estraneità dovuto al difficile processo di integrazione sociale che ancora oggi stenta ad avanzare.

Tuttavia, ad oggi, anche se il sistema penitenziario italiano non risulta disciplinato compiutamente dalla legge e non consente di raggiungere appieno gli obiettivi preposti, spesso l’impegno e le possibilità delle singole amministrazioni penitenziarie alle quali è demandato il compito di rispondere quotidianamente alle necessità dei detenuti credenti evidenziano in generale una maggiore consapevolezza delle esigenze dei soggetti internati[117].



[1] Cfr. G. DALLA TORRE, Evoluzione della disciplina sull’assistenza spirituale tra continuità ed innovazione, in Il nuovo Accordo tra Italia e Santa Sede, a cura di R. COPPOLA, Giuffrè, Milano, 1987.
[2] G. DALLA TORRE, Assistenza spirituale nelle forze armate e qualità della vita, In Iustitia, 1990.
[3] L. DE LUCA, Assistenza spirituale, in Enciclopedia del Diritto, III, Milano, 1958, p. 797.
[4] V. TOZZI, Assistenza religiosa e diritto ecclesiastico, ESI, Napoli, 1985.
[5] L. VANNICELLI, Assistenza religiosa nell’ordinamento italiano. Disciplina e carenze, Euroma la Goliardica, Roma, 1986.
[6] U. M. COLOMBO, Principi ed ordinamento dell’assistenza sociale, Giuffrè, Milano, 1972.
[7] G. DALLA TORRE, Evoluzione della disciplina sull’assistenza spirituale tra continuità e innovazione, in AA. VV., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, a cura di R. COPPOLA, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 401 e ss.
[8] Cfr. P. CONSORTI, L’assistenza spirituale nell’ordinamento italiano, in P. CONSORTI, M. MORELLI (a cura di), Codice dell’assistenza spirituale, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 4-5 per il quale «è noto che nella tradizione giuridica italiana le espressioni assistenza spirituale e assistenza religiosa sono state utilizzate in modo indistinto e come fossero sostanzialmente intercambiabili. A un più attento esame, però, la prima espressione si rivela di contenuto più ampio, comprendente cioè ogni attività comunque rivolta al conforto umano, a fornire quel ‘supplemento di cuore, oltre che di anima’ necessario allo sviluppo della persona umana. In questo senso, l’assistenza spirituale è situabile in un orizzonte più vasto rispetto a quello della libertà religiosa: quest’ultima vincola più precisamente lo Stato a ricorrere – necessariamente – a organi delle confessioni religiose per l’espletamento di attività e funzioni di culto laddove determinate categorie di cittadini si trovino in situazioni di impedimento. Ne deriva che l’assistenza religiosa statuale, almeno rimanendo all’oggi, risulta conseguenziale all’impegno di cui all’art. 3 della Costituzione». Si veda anche A. M. SANDULLI, Manuale di Diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989, pp. 1052 e ss.
[9] S. ZAMBELLI, La religione nel sistema penale e tra le mura del carcere, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, agosto 2001, n. 2, p. 455; P. MONETA, commento all’art. 8 della Legge Gozzini. La libertà religiosa nelle carceri: i passi avanti e le carenze della disciplina del 1975, in Legislazione penale, 1987, pp. 133-135.
[10] Così Corte Costituzionale, n. 114 del 1979. Cfr. A. VALSECCHI, L’assistenza spirituale nelle comunità separate, in G. CASUSCELLI (a cura di), Nozioni di Diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino,2015, p. 209 e ss.
[11] S. I. CAPASSO, La tutela della libertà religiosa nelle carceri, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2016.
[12] La legge ed il regolamento citati hanno sostituito il Nuovo Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena, approvato durante il regime fascista con R. D. n. 787 nel 1931; G. NEPPI MODONA, Vecchio e nuovo nella riforma dell’ordinamento penitenziario, in M. CAPPELLETTO, A. LOMBROSO (a cura di), Carcere e società, Marsilio Editori, Venezia, 1976, pp. 68-70; V. GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in V. Grevi(a cura di),Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Zanichelli, Bologna, 1981, p. 6 e ss.; E. FASSONE, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, 1980.
[13] Sul tema cfr. E. FASSONE, Religione e istruzione nel quadro del trattamento, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di V. GREVI, Il Mulino, Bologna, 1981.
[14] Sul tema si veda L. FILIPPI, G. SPANGHER, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2011, p. 45 ss.; S. ARDITA, F. FALDI, Diritto penitenziario, Lauros Robuffo, Roma, 2014, p. 14 e ss.; M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali, Giuffrè, Milano, 2010, p. 8 e ss.
[15] Art. 16 dell’Ordinamento penitenziario.
[16] Cfr. artt. 25 e 55 dell’ordinamento penitenziario. Cfr. anche L. G. RENZONI, La libertà religiosa negli istituti di prevenzione e di pena, in Diritto Ecclesiastico, 1968, II, p. 288 e ss.
[17] Art. 173 del reg. esec. del 1931, ormai abrogato.
[18] Art. 145 del reg. esec. del 1931, ormai abrogato.
[19] Probabilmente per esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza comune. E’ chiaro, però, che per tale via si è finito per togliere qualunque rilievo a quella serie di diritti e libertà di sicuro rilievo costituzionale che spettano ai carcerati. Cfr. G. NEPPI MODONA, Formazione sociale carceraria e democrazia partecipativa, in Politica e diritto, 1976, p. 175 e ss.
[20] In senso contrario si veda G. GRANITO, Nuovi aspetti del regime penitenziario e problemi di applicazione della normativa, in Rassegna penitenziaria, 1976, p. 3 e ss.
[21] Infatti, per l’art. 26 «i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti». Al riguardo non è mancato chi ha visto in tale disposizione ancora un richiamo alla cultura italiana intrinsecamente cattolica. Così M. GENNARO, Religioni in carcere, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2008, n. 1, pp. 81-82. Cfr. anche S. I. CAPASSO, La tutela della libertà religiosa nelle carceri, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale.
[22] L’ordinamento penitenziario consente a tutti i detenuti la libertà di professare, di praticare e di istruirsi nella propria fede religiosa. Alle libertà e ai diritti spettanti ai detenuti, si rapporta un dovere dell’amministrazione di predisporre gli strumenti per renderne operativo l’esercizio. In ogni Istituto è presente un cappellano ed è ammesso, su richiesta dei detenuti, l’ingresso di ministri di culto diverso da quello cattolico inclusi in un elenco formato sulla base di intese tra il Ministro dell’interno e le rappresentanze delle varie religioni. Per le religioni per le quali lo Stato Italiano non ha stipulato apposite convenzioni, come nel caso della religione islamica, sono poi riconosciuti ai detenuti il diritto alla pratica e professione della propria fede religiosa (in particolare, ai musulmani è garantito il diritto al vitto e il diritto di consumare i pasti dopo il tramonto nel periodo del Ramadan) e sono allestite, ove possibile, apposite sale per la preghiera islamica.
[23] R. M. GENNARO, Religioni in carcere, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2008, n. 1, pp. 81-82; S. I. CAPASSO, La tutela della libertà religiosa nelle carceri, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale.
[24] Termine che grazie alla legge Gozzini del 1986 ha sostituito la parola “facoltà” contenuta nel precedente quarto comma dell’art. 26 della legge 26 luglio 1975 n. 354.
[25] I ministri del culto cattolico diversi dai cappellani e quelli indicati nell’ultimo comma dell’articolo 58 sono autorizzati dal direttore, su richiesta di singoli detenuti o internati, ad accedere all’istituto per attività del loro ministero, previo accertamento della loro qualità. Tale attività si svolge in modo da assicurare la necessaria riservatezza.
[26] La direzione dell’istituto al fine di assicurare ai detenuti e agli internati che ne facciano richiesta l’istruzione e l’assistenza spirituale, nonché la celebrazione dei riti delle confessioni diverse da quella cattolica, si avvale dei ministri di culto indicati da quelle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato italiano sono regolati con legge. Si avvale altresì dei ministri di culto indicati a tal fine dal Ministero dell’interno In ogni caso può, comunque, fare ricorso, anche fuori dei casi suindicati, a quanto disposto dall’articolo 17, secondo comma, della legge del 75.
[27] Se non fosse così, del resto, si dovrebbe ipotizzare che l’autorizzazione ad accedere potrebbe mancare facendo venir meno l’assistenza spirituale al detenuto acattolico. E’ evidente, allora, che il direttore dovrà accertare solo la qualità di ministro di culto acattolico e l’inserimento del suo nome nell’elenco. Tuttavia, al di là di questo, l’autorizzazione non potrà mai essere discrezionalmente negata. Dunque, se l’appartenente al culto acattolico dovesse richiedere l’assistenza di un ministro di culto non incluso nell’elenco, ricadrà nella stessa situazione del detenuto cattolico che non voglia valersi del cappellano. Fruirà, così, della presenza del sacerdote se e in quanto ottenga l’autorizzazione prevista dall’art 67 della legge 354 del 75.
[28] S. ANGELETTI, Le attività delle Comunità islamiche a livello locale. Alcune considerazioni alla luce dei risultati della ricerca, in C. CARDIA e G. DALLA TORRE (a cura di), Comunità islamiche in Italia. Identità e forme giuridiche, Giappichelli, Torino, 2015, p. 169 e 170.
[29] M. ABU SALEM, La libertà religiosa alimentare nelle strutture carcerarie, in A.G. CHIZZONITI (a cura di), Cibo, religione e diritto. Nutrimento per il corpo e per l’anima, Libellula Ed., Lecce, 2015, p. 261.
[30] L. ASCANIO, Le regole alimentari nel diritto musulmano, in A.G. CHIZZONITI, M. TALLACCHINI (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, Libellula, 2010; D. PAVANELLO, Cibo per l’anima. Il significato delle prescrizioni alimentari nelle grandi religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 2005, p. 101 ss.; L. DE GREGORIO, Alimentazione e religione: la prospettiva cristiano-cattolica, in A.G. CHIZZONITI, M. TALLACCHINI (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, cit.,p. 47 e ss.
[31] S. I. CAPASSO, La tutela della libertà religiosa nelle carceri, in Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), maggio 2016.
[32] L. MUSSELLI, Libertà religiosa e di coscienza, in Dig. disc. pubbl., vol. IX, Utet, Torino, 1994, pp. 221-222.
[33] Legge 26 luglio 1975 n. 354 contenente le norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
[34] Così classificati: bagni penali (regio decreto 19 settembre 1860); carceri giudiziarie (regio decreto 27 gennaio 1861, n. 4681); case di pena (regio decreto 13 gennaio 1862, n. 413); case di relegazione (regio decreto 28 agosto 1862, n. 813);case di custodia (regio decreto 27 novembre 1862, n. 1018).
[35] Approvato con R. Decreto 1. febbraio 1891 n. 260 e modificato con altro del 1. giugno 1891, n. 261 .
[36] P. CONSORTI, Codice dell’assistenza spirituale, Giuffrè,Milano, 1993, p. 3; A. SALVATI, L’assistenza religiosa in carcere, in Amministrazione in cammino, aprile 2010, p. 2
[37] Relazione a S. E. Francesco Crispi sul Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e per i riformatori governativi del Regno, in Ordinamento generale dell’amministrazione carceraria, Roma, 1891, XXV; Cfr. anche L. CESARIS, Il personale femminile di sorveglianza negli istituti penitenziari, in F. S. FORTUNA, Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985.
[38] G. NEPPI MODONA, Carcere e società civile, in AA. VV., Storia d’Italia, Giappichelli, Torino, 1973, p. 1967 e ss. Si scelse, dunque, nonostante i Patti Lateranensi del 1929, di non apportare significative innovazioni rispetto alla disciplina precedente. La normativa, infatti, non favoriva l’autenticità del sentimento religioso all’interno delle carceri, quanto, piuttosto, un programma coattivo di rieducazione dei reclusi (E. SANNA, Inchiesta sulle carceri, De Donato, Bari, 1970). Così, ad esempio, non solo il regolamento negò la libertà dei detenuti di non professare alcuna fede religiosa, ma limitò fortemente la libertà di professare una fede diversa da quella cattolica. Tale libertà fu condizionata e subordinata al limite temporale di una dichiarazione spontanea del detenuto di appartenenza ad una confessione diversa e al potere discrezionale del direttore del carcere (Art. 146- detenuti appartenenti a religione diversa da quella cattolica). L’art. 143, inoltre, in tema di modalità di cambiamento della religione (facoltà esclusa per i minori ex art. 145), previde anche una articolata procedura per il cambio di religione da parte del detenuto.
[39] Il Dossetti, ad esempio, propose che «i rapporti di lavoro, l’appartenenza alle forze armate o a pubblici servizi, la degenza in ospedali, ricoveri, istituti, carceri, non potessero dar luogo a nessun impedimento di diritto o a nessun ostacolo di fatto in ordine all’adempimento dei doveri religiosi fondamentali e all’assistenza religiosa da parte dei ministri del culto seguito» (Cfr. Atti della Commissione per la Costituzione, Vol. II, Relazioni e Proposte, p. 61).
[40] Cfr. sul tema, L. DE LUCA, voce Assistenza spirituale, in Enciclopedia del Diritto, III, 1958, p. 797 e ss.; F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Giuffrè, Milano, 1958, p. 200; C. CURIONI, Per una pastorale carceraria: obiettivi, in Rivista del clero italiano, 1965, p. 714 e ss.
[41] Prendendo spunto dall’art. 143 del regolamento del 1931 Moroni ribadì l’esistenza nei confronti dei detenuti di una totale negazione della libertà religiosa la quale, «non comporta soltanto la libertà di professare qualsiasi religione, o la libertà di non professarne alcuna, ma anche la libertà di mutare la confessione religiosa» (Così, A. MORONI, Il mutamento di confessione religiosa nell’ordinamento italiano, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza, Macerata, 1963, p. 87).
[42] L’obbligo di presenziare alle funzioni cattoliche rappresenta una chiara “coartazione della coscienza individuale, contraria alla dignità umana, non giustificabile da nessuna esigenza di ordine sociale e da nessun rapporto di supremazia speciale in cui l’individuo si trovi[42] e dunque, la detenzione non può in alcun modo incidere su aspetti legati alla personalità dell’individuo e limitarne le forme di manifestazione. Cfr. V. ONIDA, Sulla “disapplicazione” dei regolamenti incostituzionali (a proposito della libertà religiosa dei detenuti), in “Giurisprudenza Costituzionale”, 1968, p. 4128.
[43] Tuttavia la sentenza sollevò non poche critiche. Valerio Onida, ad esempio, affermò il carattere normativo e non regolamentare della norma impugnata e che la p.a. doveva quindi disapplicare le disposizioni costituzionalmente illegittime (V. ONIDA, Sulla disapplicazione dei regolamenti incostituzionali(a proposito della libertà religiosa dei detenuti), in Giurisprudenza costituzionale, 1968, I, p. 1031 e ss.). Critiche provennero anche da Mirella Seitz Ursino per la quale appariva ingiustificato il mantenimento di una disciplina contraria ai principi costituzionali. «L’esplicita protezione della libertà morale dell’individuo», afferma, «costituisce il limite costituzionale alla funzione rieducativa della pena». Così M. SEITZ URSINO, La libertà religiosa e la posizione giuridica dei detenuti, in Diritto Ecclesiastico, 1967, II, p. 368 e ss.; L. GOVERNATORI RENZONI, La libertà religiosa negli istituti di prevenzione e di pena, in Diritto Ecclesiastico, 1970, II, p. 214 e ss.
[44] Circolare ministeriale del 3 luglio 1969, n.1819/4276.
[45] I più noti furono il Disegno di legge Gonnella del 1968 e le sue successive modifiche, che lasciarono comunque irrisolti i problemi creati dalla normativa precedente. Cfr. Relazione Follieri del 1971, pubblicata in “Rassegna di Studi Penitenziari”, 1971, pp. 202 ss.; G. Neppi Modona, I rischi di una riforma settoriale, in “Quale Giustizia”, Roma, 1971, p. 471.
[46] D. MILANI, A. NEGRI, Tra libertà di religione e istanze di sicurezza: la prevenzione della radicalizzazione jihadista in fase di esecuzione della pena, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 23/2018, p. 3. Cfr. anche F. TRITTO, La religione e la figura del cappellano negli istituti di pena, in F. S. Fortuna, Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, p. 267 e ss.
[47] A. PARENTE, La Chiesa in carcere, Il profumo delle parole Editrice, Bologna, 2007, p. 43. L’autore evidenzia le diversità tra il modello carcerario del periodo fascista, di stampo autoritario e indifferente a qualsiasi considerazione del detenuto come soggetto titolare di diritti, tendente all’isolamento ed emarginazione di questi dalla società e il modello contemporaneo in cui se ne privilegiano gli aspetti della personalità e la pena tende al ravvedimento e reinserimento nel tessuto sociale. Le principali differenze si possono cogliere non solo in relazione alle finalità della pena ma anche in relazione al ruolo assunto dal fattore religioso nel percorso riabilitativo, passando dalla religione intesa come obbligo imposto dall’autorità e non come frutto di scelte individuali, alla religione vista come tassello fondamentale nella risocializzazione del condannato e più in generale, allo sviluppo della persona nel pieno rispetto della dignità umana.
[48] Si veda l’art. 26 (Religione e pratiche di culto) della legge n. 354 del 1975 recante le Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 212 del 9 agosto del 1975.
[49] E. CAMASSA, Democrazie e religioni. Libertà religiosa diversità e convivenza nell’Europa del XXI secolo. Atti del Convegno Nazionale ADEC. Trento, 22-23 ottobre 2015 ,Editoriale scientifica, Napoli, 2016, pag. 158 e ss. : L’autrice muovendo dalla considerazione che durante l’esecuzione della pena detentiva i diritti fondamentali e il rispetto della dignità umana, non possono essere soggetti a limitazione soprattutto per esigenze di carattere economico, afferma che nei penitenziari statunitensi il peso finanziario esercitato dalla soddisfazione delle necessità religiose dei detenuti ha spesso giustificato una restrizione della libertà religiosa al fine di evitare un eccessivo dispendio di risorse, determinando la palese violazione di un diritto umano riconosciuto e tutelato a livello sovranazionale.
[50] Raccomandazione sulle regole nelle prigioni europee adottata dal Comitato dei Ministri della Comunità Europea il 12 febbraio 1987.
[51]M. R. PICCINI, La tutela della libertà religiosa nel sistema carcerario italiano alla prova del multiculturalismo, Polski Rocznik Praw Człowieka i Prawa Humanitarnego 3, in Polish Yearbook of Human Rights and Humanitarian Law, 2012, p. 212.
[52] A. MADERA, Le pratiche religiose nelle comunità segreganti, a cura di Sara Domianello, Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 201
[53] V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo, Cedam, Padova, 1997, p. 237.
[54] Sentenza Corte Costituzionale n. 508 del 20 novembre 2000: La pronuncia della Corte ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale dell’art.402 del Codice Penale concernente il vilipendio della religione dello Stato, basato sul contrasto che il riferimento alla religione di Stato comporterebbe con i principi di laicità e di uguaglianza. La questione, ritenuta fondata, viene affrontata sostenendo che la posizione dello Stato deve essere di assoluta imparzialità ed equidistanza dalle diverse confessioni religiose e garantire la pari tutela della coscienza di ciascun individuo qualunque sia la confessione di appartenenza e fatta salva la possibilità della singola confessione di definire in via concordataria una diversa impostazione dei rapporti con l’autorità statale
[55] Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, pubblicato in G.U. del 22 agosto del 2000 n. 195.
[56] Art. 58 del Decreto del Presidente della Repubblica, Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, pubblicato in G.U. del 22 agosto del 2000 n. 195.
[57] E. OLIVITO, “Se la montagna non viene a Maometto”. La libertà religiosa in carcere alla prova del pluralismo e della laicità, fascicolo n. 2 “i diritti dei detenuti”, in www.costituzionalismo.it, 2015, pp. 5-10
[58] N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, il Mulino, Bologna, 2006, p. 223.
[59] Per un esame approfondito delle criticità cfr. C. CURIONI, Spunti introduttivi ad una pastorale carceraria, in Rivista del clero italiano, 1965, II, p. 76 e ss.
[60] Art. 1, legge n 68 del 1982, così come modificata dalla legge n. 19 del 1989. Per ulteriori dettagli sulla figura del cappellano si veda A. VALSECCHI, L’assistenza spirituale nelle comunità separate, in G. CASUSCELLI (a cura di), Nozioni di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 2015, p. 215 e ss.; A. PIZZORUSSO, I cappellani degli istituti di prevenzione e di pena nel diritto vigente e nel progetto di riforma penitenziaria, in Studi per E. Graziani, Pisa, 1973, p. 555 e ss.
[61] A. PARENTE, La Chiesa in carcere, Il profumo delle parole, Bologna, 2007, p. 169.
[62] Cfr. Raccolta Ufficiale di Leggi e Decreti del Regno d’Italia, 1862, vol. III, pp. 12-167.
[63] C. BADII, M. ZACCHI, A. GIANNINI, R. GIUSTINIANI, Il diritto ecclesiastico e rassegna di diritto matrimoniale, Giuffrè, Milano, 1983, p. 211.
[64] Art. 102 del Regio Decreto del 1 febbraio 1891 n. 260, in Raccolta Ufficiale di Leggi e Decreti del Regno d’Italia, pag 1431 e ss.: “Il Cappellano comunica all’Autorità dirigente tutte le osservazioni che gli occorra di fare durante le sue visite, e che possono interessare i diversi servizi; negli Stabilimenti, nelle Sezioni penali, riguardo a ciascun condannato ricoverato, tanto quanto si riferisce alla sua condotta, e ne metta in evidenza il carattere morale. Di queste indicazioni deve servirsi allorché si tratti o di assegnare i punti di merito, ai sensi dell’art. 369 o di dare il suo giudizio complessivo da ascriversi nella matricola”.
[65] Art. 346 del Regio Decreto del 1 febbraio 1891 n. 260, in Raccolta Ufficiale di Leggi e Decreti del Regno d’Italia, pag. 1431 e ss.: “Il consiglio di disciplina locale è composto del Direttore, dell’impiegato che gli succede in grado, del Cappellano e del Medico Chirurgo”.
[66] Il cappellano, ad esempio, doveva visitare il detenuto frequentemente «per studiarne l’indole e le tendenze e per incoraggiarlo o ammonirlo e, soprattutto, per accertare le cause che lo hanno spinto al contegno ribelle». Così art. 233 regolamento esecutivo del 1931.
[67] L’articolo 4 che riusciva a conciliare la condizione di cappellano quale dipendente della p.a. con l’ufficio ecclesiastico espressivo della giurisdizione della Chiesa. Oggi l’iniziativa della nomina non è del Ministro ma dell’Ordinario diocesano. Cfr. V. TURCHI, Ancora in tema di arresti domiciliari e assistenza spirituale. Appunti su misure alternative alla carcerazione e libertà religiosa, in Diritto Ecclesiastico, 1988, II, p. 307 e ss.
[68] W. DE AGOSTINO, I diritti dei detenuti in Italia. Tutele e garanzie alla luce della Cedu, Key Editore, Frosinone, 2015, p. 11. L’Autore evidenzia l’apporto, in termini di umanizzazione delle strutture carcerarie, delle norme costituzionali in materia di tutela dei diritti umani fondamentali, tra cui il diritto di libertà religiosa, che si pongono come criterio fondante il trattamento rieducativo e determinano l’abbandono di un sistema penitenziario incentrato sull’afflittività e la repressione delle condotte criminose, affermando il dovere dell’amministrazione di garantire i valori essenziali d cui il detenuto è portatore in virtù del suo essere persona.
[69] F. D’AGOSTINO, Valori costituzionali. Per i sessanta anni della Costituzione italiana, Giuffrè, Roma, 2010, p. 66.
[70] Art. 5 dei Patti Lateranensi del 1929: “Nessun ecclesiastico può essere assunto in un impiego od ufficio dello Stato Italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dell’Ordinario diocesano. La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto. In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti nè conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato con il pubblico”.
[71] Legge n. 68 del 4 marzo 1982, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 10.3.1982 recante le norme sul Trattamento giuridico ed economico dei Cappellani degli Istituti di Prevenzione e Pena.
[72] Regio Decreto del 30 ottobre del 1924 intitolato Trattamento economico del personale aggregato degli Stabilimenti carcerari e dei Regi Riformatori: per personale aggregato deve intendersi quello per il quale non sussistete alcuna dipendenza sia dall’Amministrazione Penitenziaria che, in senso più ampio, dalla Pubblica Amministrazione e dunque non identificabile con un rapporto di lavoro subordinato.
[73] Articolo 6 della Legge n. 68 del 4 marzo 1982, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 10 marzi del 1982 recante le norme sul Trattamento giuridico ed economico dei Cappellani degli Istituti di Prevenzione e Pena.
[74] ATTILIO TOSCANO, La funzione della pena e le garanzie dei diritti fondamentali, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pag. 238.
[75] M. R. PICCINI, La tutela della libertà religiosa nel sistema carcerario italiano alla prova del multiculturalismo, in Polski Rocznik Praw Człowieka i Prawa Humanitarnego 3, 2012, pp. 211-236.
[76] Corte di Cassazione Penale sentenza n.12 del 2 gennaio 2009, Sezione sesta, “Reato di concussione ai danni di persone internate in istituti penitenziari”, in www.olir.it : Nel caso in questione, viene sottoposto al vaglio della Corte un caso riguardante l’imputabilità del reato di concussione a carico del cappellano penitenziario e più precisamente, si trattava di individuare l’esatta posizione giuridica del cappellano nelle strutture carcerarie, che la riforma del 1975 aveva ampiamente mutato. Posta la configurabilità del reato di concussione solo a colui che rivesta una qualifica di pubblico ufficiale, i giudici hanno statuito la presenza dell’elemento soggettivo e l’abuso della posizione di preminenza del cappellano che metus publicae potestatis, aveva posto i detenuti in una posizione di soggezione e quindi, ritenevano integrata la fattispecie del reato di concussione, rigettando il ricorso e condannando l’imputato al pagamento delle spese processuali.
[77] L’articolo 10 della legge 663 del 1986 ha inserito l’articolo 41 bis alla legge n. 354 del 1975.
[78] A. GABOARDI, A. GARGANI, G. MORGANTE, A. PRESOTTO, M. SERRAINO, Libertà dal carcere. Libertà nel carcere: affermazione e tradimento della legalità nella restrizione della libertà personale, Giappichelli, Torino, 2013, p. 128.
[79] Corte Costituzionale sentenza n. 135 del 3 giugno del 2013, “Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito del provvedimento del Ministero della Giustizia del 14/07/2011, prot. n. GDAP-0254681-2011, con il quale è stato disposto di non dare esecuzione all’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Roma del 9/5/2011, n. 3031”.
[80] Corte Costituzionale, sentenza n. 376 del 1997.
[81] Sentenza della Corte di Cassazione del 25 maggio 2011, n. 20979 attinente allo «Studio dei testi biblici da parte del detenuto, sottoposto al regime speciale previsto dall’art. 41 bis, in presenza di un ministro del proprio culto».
[82] Corte di Cassazione, Sezione I Penale, sentenza n. 41474 del 25 settembre 2013.
[83] In tal senso anche Corte costituzionale, sentenza n. 526 del 22 novembre 2000.
[84] L. FILIPPI, G. SPANGHER, Manuale di diritto penitenziario, terza edizione, Giuffrè, Milano,2016, p. 191 e ss.
[85] G. DI GENNARO, R. MARSELLI, Criminalità e sicurezza a Napoli: Secondo rapporto, FedOA Press, Napoli, 2017, pp. 236-237: L’autore osserva che l’interesse dello Stato alla repressione del fenomeno mafioso mediante l’isolamento e la neutralizzazione della pericolosità del detenuto, prevale rispetto all’esigenza di indirizzare la detenzione speciale del 41 bis al fine rieducativo e riabilitativo riservato al regime ordinario di carcerazione. Pur non negandone la necessarietà e l’efficacia, egli coglie nel carcere duro una forma arcaica di detenzione che tende a comprimere i diritti del soggetto detenuto a favore della sicurezza pubblica, molto spesso oggetto di condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sul tema si vedano anche S. ARDITA, Il regime detentivo speciale 41 bis, Giuffré, Milano,2007, pp. 3-4; F. GIUNTA-SEBASTIANO ARDITA- MASSIMO PAVARINI, Il carcere duro tra efficacia e legittimità, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, Pisa, 2007, p. 247; P. CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Cedam, Padova, 2010, pp. 119 ss.
[86] A. DELLA BELLA, Il carcere duro tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41 bis, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 438-441. Si ipotizza un regime di detenzione speciale che l’autrice definisce “ad intensità decrescente”, ossia una forma di detenzione che circa la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo, non ne attribuisca alla piena discrezionalità dell’amministrazione l’eventuale limitazione. Obiettivo è dunque, quello di impostare il carcere duro, non più sulla mera neutralizzazione della pericolosità del detenuto, bensì sui concetti di rieducazione e risocializzazione che caratterizzano la pena detentiva stessa.
[87] V. TURCHI, Misure alternative alla custodia cautelare e alla pena detentiva: la garanzia della libertà religiosa, in Iustitia, n.2, 1989, p. 155 e ss.
[88] Consultabile in Diritto Ecclesiastico, 1985, II, p. 584 e ss.
[89] Le ordinanze dei due organi, rispettivamente del 19 agosto 1986 e del 24 luglio 1987, si trovano in Diritto Ecclesiastico, 1988, II, p. 288 e ss.
[90] Anche se nella Nota Pastorale della CEI Il Giorno del Signore, al numero 35 si chiarisce che «è evidente che una messa alla televisione o alla radio, che in nessun modo sostituisce la partecipazione diretta e personale all’assemblea eucaristica, ha comunque i suoi aspetti positivi».
[91] V. TURCHI, Ancora in tema di arresti domiciliari e assistenza spirituale. Appunti su “misure alternative alla carcerazione e libertà religiosa”, in Diritto Ecclesiastico, 1988, II, p. 307 e ss.
[92] P. CONSORTI, Pacchetto sicurezza e fattore religioso, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (www.statoechiese.it), febbraio 2011, p.4.
[93] Art. 12, comma I, Legge n.40 del 6 marzo 1998, in materia di “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”.
[94] E. VALENTINI, Detenzione amministrativa dello straniero e diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2018, pag. 34-50; Si vedano inoltre: GIUSEPPE CAMPESI, La detenzione amministrativa degli stranieri: storia, diritto, politica, Carocci Editore, Roma, 2013, pag. 195 e ss.; D. LOPRIENO, << Trattenere e punire>>. La detenzione amministrativa dello straniero, Editoriale scientifica, Napoli, 2018, pag.27 e ss.
[95] Art. 14, comma II, del Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio del 1998 contenente il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 191 del 18 agosto 1998.
[96] P. CONSORTI, Libertà e assistenza religiosa e spirituale nei Centri di identificazione ed espulsione, in Gli stranieri. Rassegna di studi e giurisprudenza quadrimestrale, n. 3, 2012, pag. 71
[97] Art. 21, Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999, contente il “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.
[98] Corte di Cassazione, sezione II, 9 febbraio 1995, n. 5838: “l’espressione ‘buon costume‘, ad avviso di questa Corte, non può essere intesa nel senso penalistico di osceno o contrario alla pubblica decenza, ma in quello più ampio, di attività conforme ai principi etici che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il suo comportamento la generalità delle persone oneste, corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato ambiente ed in una determinata epoca”.
[99] Corte Costituzionale, sentenza n. 198/2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1999 : “Lo straniero (anche irregolarmente soggiornante) gode di tutti i diritti fondamentali della persona umana, fra i quali quello di difesa, il cui esercizio effettivo implica che il destinatario di un provvedimento, variamente restrittivo della libertà di autodeterminazione, sia messo in grado di comprenderne il contenuto e il significato”; Corte Costituzionale, sentenza n. 120/1967: “ Il raffronto tra la disposizione contenuta nell’art.139 della legge doganale 25 settembre 1940 n. 1424, secondo cui deve essere mantenuto in stato di arresto lo straniero finchè non abbia prestato idonea cauzione o malleveria, e l’art.3 della Costituzione non deve farsi con questa norma, isolatamente considerata, ma con la norma stessa in connessione con l’art. 2 e con l’art. 10, secondo comma, della Costituzione, il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell’uomo, mentre l’altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Ciò perché, se è vero che l’art.3, si riferisce espressamente ai solo cittadini, è anche certo che il principio di uguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare quei diritti fondamentali.”.
[100] Art. 21, comma VII, Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 1999, contente il “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.
[101] E. VITALI, A. G. CHIZZONITI, Diritto ecclesiastico. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2013, pag. 188.
[102] Art.2, lettera i, “Carta dei diritti e dei doveri” per il trattenimento della persona ospitata nei centri di permanenza temporanea, in Circolare del Ministro dell’interno n. 3435/50 del 30 agosto 2000.
[103] C. BARTOLI, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Editori Laterza, Bari, 2012, p. 168.
[104] Cfr. art. 10 Cost. per il quale l’’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.”
[105] M. MANOCCHI, Richiedenti asilo e rifugiati politici. Percorsi di ricostruzione identitaria: il caso torinese, Franco angeli editore, Milano, 2012, p.14.
[106] D. FERRARI, Lo status di rifugiato religioso nelle fonti del diritto internazionale: le nuove frontiere delle libertà dello spirito, in rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 39 del 2017, p.3.
[107] Art. 10 DIRETTIVA 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta.
[108] F. RUFFINI, La libertà religiosa: storia dell’idea, Feltrinelli, Bologna 1992, p. 7
[109] M. TOGNETTI BORDOGNA, I colori del welfare. Servizi alla persona di fronte all’utenza che cambia, Franco Angeli Editore, Milano, 2004, p.15 e ss.
[110] A. MADERA, Quando la religione si interseca con la tutela di genere: quale impatto sulle dinamiche dell’accoglienza? (prime osservazioni a margine di Cass., sez. I, 24 novembre 2017, n. 28152), in rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 14 del 2018, p. 3.
[111] D. FERRARI, Lo status di rifugiato religioso nelle fonti del diritto internazionale: le nuove frontiere delle libertà dello spirito, in rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 39/2017, pag.8.
[112] Art.7 Decreto legislativo n. 251 del 19 novembre 2007, “Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 3 del 4 gennaio 2008.
[113] Corte di Cassazione, sentenza n. 26 maggio 1997, n. 4674.
[114] Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza n. 15466/2014.
[115] M. ABU SALEM- NICOLA FIORITA, Protezione internazionale e persecuzione per motivi religiosi: la giurisprudenza più recente, in rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 37/2016, pag. 5.
[116] Sul tema si vedano G. FIANDACA, E. MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1994, p. 50 e ss.; E. DOLCINI, La rieducazione del condannato tra mito e realtà, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1979, p. 472 e ss.
[117] Basti pensare alle esperienze positive di Lodi e Bollate. In particolare questo ultimo è stato riconosciuto come modello per le sue vaste attività di reinserimento sociale dei detenuti.

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Avv. Alessandro Palma

Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali. E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali. E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.

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