L’assunzione della testimonianza del Capo dello Stato nel processo penale (Parte I)

L’assunzione della testimonianza del Capo dello Stato nel processo penale (Parte I)

Nella dibattuta vicenda processuale legata alla presunta trattativa Stato-mafia, ha suscitato notevole scalpore il passaggio riguardante l’assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dinanzi la Corte di Assise di Palermo, disposta con ordinanza ammissiva il 17 ottobre 2013 e assunta in data 28 ottobre 2014. Il fosco pericolo di un accostamento d’immagine, se non addirittura il contatto, tra la figura prestigiosa del Capo dello Stato e quella famigerata di alcuni boss mafiosi, per via della chiamata a deporre dell’uno nel dibattimento penale a carico degli altri, ha senz’altro costituito l’humus ideale per l’innescarsi di polemiche ruggenti nel mondo politico e sui media[1].

Prescindendo in questa cornice da valutazioni di natura politica che, rischiando di agitare questioni critiche complesse, finirebbero per esulare dalle finalità di questa indagine, autorevoli voci hanno dal canto loro evidenziato come il dovere di collaborare con la giustizia non solo non collide con la posizione di primo cittadino della Repubblica del Capo dello Stato, ma costituirebbe un onore per la persona del Presidente; né la sua posizione costituzionale potrebbe mai giustificare una deroga ai superiori principi costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di adempimento dei doveri di solidarierà sociale (art. 2 Cost.)[2]. La testimonianza, lungi dunque dal costituire un vulnus alla figura intrinsecamente peculiare del Capo dello Stato, desta al contrario, interesse sotto plurime angolazioni visuali.

Ciò è dovuto, non tanto al ruolo istituzionale del soggetto coinvolto che postulerebbe (così com’è accaduto nel pieno vigore dello Statuto albertino, che considerava la persona del Re «sacra ed inviolabile» ex art. 4) deroghe tanto infondate quanto allarmanti ai principi sui quali è incardinato il procedimento penale, alla luce dell’odierno assetto costituzionale democratico. L’assoggettamento all’obbligo di testimoniare di coloro che svolgono gli uffici istituzionali più alti, Presidente della Repubblica incluso, è deducibile infatti dal combinato disposto degli artt. 196, comma 1, c.p.p. e 366, comma 3, c.p. Sul punto anche la Corte Costituzionale, con la sentenza del 20 giugno 1968 n. 76, supportando la portata precettiva di tali disposizioni normative, ha ribadito che «l’obbligo di testimoniare è uguale per tutti». Tale obbligo si spiega con l’esigenza di rendere effettiva la realizzazione del diritto oggettivo attraverso il processo, le cui finalità in tanto possono compiutamente realizzarsi, in quanto il diritto soggettivo delle parti alla prova abbia libero sfogo, nella massima espansione possibile, compatibilmente – beninteso – con altre esigenze di superiore dignità costituzionale[3].

Gli aspetti di novità che in questa sede risultano essere meritevoli di meditazione, discendono semmai dalla prima applicazione da quando è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale, dell’art. 205 comma c.p.p. e pertengono i rapporti che intercorrono tra la la norma in esame e i principi costituzionali e comunitari, con riferimento alla presenza da parte dei soggetti imputati coinvolti nell’assunzione della prova testimoniale. Relazioni che hanno destato molteplici perplessità sul problematico contemperamento delle regole costituzionali a tutela della figura del capo dello Stato da una parte, e sul rispetto dei diritti di difesa degli imputati dall’altra. Rispetto quest’ultimo scolpito perentoriamente all’interno della carta costituzionale che rinvia nelle sue diramazioni ipertestuali all’art. 6 della CEDU nonchè all’art. 14 sul rispetto dei diritti civili e politici dell’imputato.

Va da sè che non potendo rintracciare estese fondamenta speculative per edificare le proprie osservazioni data la prossimità temporale della deposizione oggetto di questa analisi, l’interprete sarà chiamato a compiere uno sforzo ermeneutico che tenga conto non soltanto delle regole contenute nel codice di rito, ma anche delle norme comunitarie e internazionali poc’anzi accennate. Ma prima di affrontare le problematiche sottese agli intrecci tra queste varie discipline, si rende opportuno offrire qualche notazione di carattere preliminare sulle norme che regolano in termini generali la testimonianza resa dal Capo dello Stato nell’ambito di un procedimento penale.

Il codice di procedura, riserva per vero alla fattispecie scarne ma perspicue disposizioni, allogate nel libro terzo, titolo secondo, capo primo, dedicato ai mezzi di prova e precisamente all’articolo 205, rubricato alla voce: “assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica e di grandi ufficiali dello Stato“.

La norma stabilisce che «1. La testimonianza del Presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di Capo dello Stato. Se deve essere assunta la testimonianza di uno dei presidenti delle camere o del Presidente del Consiglio dei Ministri o della Corte costituzionale, questi possono chiedere di essere esaminati nella sede in cui esercitano il loro ufficio, al fine di garantire la continuità e la regolarità della funzione cui sono preposti. Si procede nelle forme ordinarie quando il giudice ritiene indispensabile la comparizione di una delle persone indicate nel comma 2 per eseguire un atto di ricognizione o di confronto o per altra necessità».

Tolto dallo scacchiere di questa indagine il comma 2 dell’articolo in commento, si palesa fin da subito nel sagomare l’ambito di applicazione della norma la perimetrazione restrittiva del primo comma, che si limita a individuare seppur in modo inderogabile, il locus ove provvedere all’escussione del soggetto che ricopre la più alta carica dello Stato, tacendo in ordine alle modalità di formazione della prova. Malgrado questo vuoto apparente, la norma risponde all’esigenza di garantire continuità e regolarità allo svolgimento dei compiti istituzionali del Presidente della Repubblica[4], poiché si fa carico dei problemi connessi al rapporto tra soggetti e compiti istituzionali preminenti da questi esercitati e fissa dunque all’uopo speciali modalità di formazione della prova che derogano alla regola generale.

In effetti la ratio che la sottende appare ispirata al criterio della deroga minima alla regola generale suesposta: il regime predisposto per l’escussione del teste in luogo diverso da quello del processo si distingue invero sotto più profili dall’assetto definito dall’art. 356 del previgente codice di procedura penale, con un’attenzione più rivolta al prestigio delle cariche che non all’equilibrato buon funzionamento dei poteri[5]. Tale deroga si spiega con la necessità di evitare a seguito del trasferimento del Capo dello Stato presso l’autorità giudiziaria, un turbamento all’ordinato svolgimento del munus publicum[6].

Dal canto suo, la Corte Costituzionale nella ricordata sentenza n.76/68 osservava come «la differenza sta solo in ciò che nella fase istruttoria, mentre di regola il testimone deve portarsi dal giudice, a norma dell’art. 356 é il giudice che deve recarsi dal testimone: così, piuttosto che godere d’un privilegio rispetto agli altri cittadini, il “grande ufficiale dello Stato“ beneficia d’un particolare trattamento nei riguardi dell’Autorità giudiziaria». Ciononostante è da rigettarsi recisamente soggiunge la Corte, che vi sia una “subordinazione dell’autorità giudiziaria al potere politico“ giacché «lo spostamento d’un giudice di per sé non importa né una diminuzione della sua potestà né un affievolimento della funzione giurisdizionale»[7].

Orbene, espunta la questione sulla deroga alle normali modalità di assunzione della testimonianza, l’articolo 205 c. 1 non offre come predetto, altre coordinate circa i modi di formazione della prova. In proposito la dottrina, al fine di garantire l’imprescindibile rispetto del principio del contraddittorio, ha avallato l’applicazione analogica dell’art. 502 c.p.p., che disciplina l’esame a domicilio di testimoni, periti e consulenti tecnici. Secondo tale orientamento interpretativo, all’esame presso la sede istituzionale si deve procedere in assenza di pubblico, ma con la necessaria partecipazione del pubblico ministero e dei difensori delle parti private, ai quali dovrà essere data comunicazione del giorno, dell’ora e del luogo di compimento dell’atto per potervi prendere parte[8].

Nel quadro fin qui descritto, bisogna precisare che alla luce dell’art. 90 della Costituzione, un eventuale ordine a testimoniare rivolto al Capo dello Stato non potrebbe essere coercitivo, mentre un suo rifiuto di testimoniare non sembrerebbe comportare, in quanto tale, una responsabilità di carattere penale[9]. Altra dottrina ha invece sottolineato che il Presidente della Repubblica appare giuridicamente responsabile in relazione agli eventuali illeciti commessi rendendo testimonianza: l’immunità parziale configurata dall’art. 90 Cost. concerne, infatti, i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni presidenziali, dai quali resterebbe sempre esclusa, tranne che in circostanze decisamente eccezionali, la collaborazione con la giustizia nella qualità di testimone[10]. Poichè sembra non ragionevole che il Presidente della Repubblica possa rendere testimonianza e non, invece, procedere a ricognizione o a confronto, deve ritenersi che pure siffatti mezzi di prova debbano essere assunti nella sede in cui egli svolge le sue funzioni, attesa l’assoluta inderogabilità della disciplina dettata dal primo comma dell’art. 205.

In chiusura di questo scandaglio preliminare, con riguardo alla sfera di operatività dell’art. 205 c.1, la dottrina ha caldeggiato un’interpretazione estensiva, ritenendo che la procedura al suo interno contenuta possa applicarsi anche all’assunzione di informazioni dal Presidente della Repubblica nella fase delle indagini preliminari, essendo esistente anche in tale momento l’esigenza di garantire la continuità e la regolarità delle funzioni di cui lo stesso è titolare[11].


Note

[1] D. Negri, La presenza personale dell’imputato alla testimonianza del Presidente della Repubblica: un diritto fondamentale non confiscabile, in diritto penale contemporaneo, 2016, cit., pag. 1.

[2] G. Romeo, Giudici e testimoni eccellenti tra Costituzione e prassi, in Cass. Pen. 1991, 462, cit., pag. 501.

[3] G. Romeo, op. cit., pagg. 500-501.

[4] A. Mangiaracina, Quale statuto per l’audizione del Presidente della Repubblica?, in Diritto Penale Contemporaneo, 2016, cit., pag.1.

[5] A. Perduca, Sub. Art. 205, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II, Torino, Utet, 1990, cit., pag. 480.

[6] Ibidem.

[7] Corte Cost. sent. n. 76 del 20 giugno 1968.

[8] F. Ruggeri, La particolare disciplina dell’assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica, dei grandi ufficiali dello Stato e degli agenti diplomatici, sub Scritti inediti di procedura penale, 1998, cit., pag. 58.

[9] M. Chiavario, Intervento, in AA. VV. La testimonianza nel processo penale, Milano 1974, 314.

[10] N. Triggiani, Le modalità di assunzione della testimonianza del Presidente della Repubblica, dei c.d. “grandi ufficiali dello Stato” e degli agenti diplomatici, in la prova penale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 cit., pagg. 231-232.

[11] A. Giarda, G. Spangher. Codice di procedura penale commentato. Milano, Ipsoa, 2010, cit., pag. 2094.


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