Lavorare durante l’assenza per malattia: legittimo il licenziamento per giusta causa

Lavorare durante l’assenza per malattia: legittimo il licenziamento per giusta causa

La Cassazione, con ordinanza del 1° ottobre 2021 n. 26709, ha confermato il licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore durante il periodo di sospensione dal lavoro per malattia.

Nel caso di specie, un lavoratore era stato licenziato perché sorpreso a svolgere, durante suddetto periodo, attività faticose ed intense, quindi considerate non compatibili con la patologia e, in ogni caso, idonee a pregiudicare la guarigione.

La Suprema Corte, in ottemperanza a quanto sancito dai giudici di merito, ha ribadito che, come noto, nell’attuazione del rapporto di lavoro entrambe le parti devono attenersi a doveri di correttezza e buona fede e a specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c. Correttezza e buona fede che, nel periodo di sospensione della prestazione lavorativa a causa di malattia, richiedono che il lavoratore non svolga attività tali da poter ritardare, pregiudicare o mettere a rischio la guarigione.

Si rammenta, inoltre, come sia ormai costante orientamento giurisprudenziale che lo svolgimento di altre attività, lavorative e non, da parte del dipendente assente può giustificare il recesso del datore di lavoro, non solo nel caso in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche quando la stessa attività, valutata ex ante in relazione alla natura della patologia e alle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della ripresa del lavoro al termine del periodo di malattia.

Nel caso in esame i Giudici di legittimità, hanno convalidato anche il giudizio emesso dal CTU in relazione alla circostanza che le attività svolte dal paziente durante l’assenza per malattia “avrebbero quanto meno prolungato il periodo di guarigione clinica”, confermando, perciò, che lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente era idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri di correttezza e buona fede, poiché idoneo, in astratto, ad aggravare la patologia o ritardare il rientro al lavoro.

La Corte si è soffermata, poi, sul diritto alla conservazione del posto sancito dall’art. 2110 c.c., in virtù del quale sussiste un divieto per il datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto di lavoro fino al superamento del periodo massimo di comporto determinato dalla legge, dagli usi o secondo equità. Ciò in un’ottica di bilanciamento di interessi, da un lato quello del datore a mantenere alle proprie dipende solo chi lavora e dall’altro del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere la sua occupazione. Come noto è, invece, consentito il licenziamento per superamento del periodo di comporto, considerato un giustificato motivo tipizzato di licenziamento che non necessita della prova né del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa né della impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, essendo, tuttavia, rimesso alla discrezionalità del datore.

Unica condizione che legittima, diversamente, il recesso del datore di lavoro durante il periodo di malattia del lavoratore, in deroga al diritto alla conservazione del posto, è il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

La Suprema Corte ha colto, in sostanza, l’occasione per ricordare come nella nozione legale di “giusta causa”, secondo l’interpretazione della giurisprudenza, rientri anche il fatto di svolgere, durante la malattia, un’attività che possa impedire o ritardare la guarigione.


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