L’azione revocatoria fallimentare di rimesse bancarie: una breve e recente rassegna giurisprudenziale

L’azione revocatoria fallimentare di rimesse bancarie: una breve e recente rassegna giurisprudenziale

L’esperimento della revocatoria fallimentare ha, da sempre, evidenziato profili di particolare criticità, nel caso in cui oggetto di revoca debbano essere le rimesse bancarie, fattispecie rispetto alla quale la perimetrazione dell’operatività dell’azione de qua è apparsa sempre fumosa: in origine, per la sottesa distinzione, con evidenti riflessi pragmatici, tra funzione ripristinatoria e solutoria dei versamenti (espressione della preordinata differenziazione tra conto corrente scoperto e conto passivo); successivamente, a causa sia della complessa operazione d’identificazione contenutistica dei criteri della “consistenza” e “durevolezza”, introitati nel panorama ordinamentale, con la novella fallimentare del 2005 e, segnatamente, con l’addizione del terzo comma all’art. 67 L. Fall., nonché della problematica coesistenza di quest’ultima disposizione con quanto disposto dal successivo art. 70 L. Fall.

In senso adesivo al definitivo superamento della tradizionale distinzione tra conto corrente scoperto[1] e quello passivo[2], posizione sulla quale ormai converge l’opinione dominante (nonché, consequenzialmente, tra rimessa con funzione ripristinatoria o solutoria[3]), seguendo la letteralità della nuova formulazione dell’art. 67, terzo comma, L. Fall., si è, recentemente, espresso il Tribunale di Modena[4], che, in punto di accertamento dei requisiti per la revocabilità dei pagamenti, ha evidenziato come a  rilevare sia unicamente se il rientro sia stato o meno funzionalizzato a una riduzione dell’esposizione debitoria verso l’Istituto di credito, connotata da stabilità e, comunque, da un’entità apprezzabile, laddove parametrata all’ammontare complessivo del debito[5].

La caratterizzazione dell’attività di riduzione dell’esposizione debitoria è stata recentemente oggetto di una disamina analitica da parte della giurisprudenza di merito, onerata dal compito di strutturare, prima su di un piano teorico e, in un secondo momento, su quello più strettamente pragmatico – operativo, l’identificazione e l’atteggiarsi degli addotti requisiti della “durevolezza” e “consistenza”[6]. Pare opportuno, segnatamente, segnalare una pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia[7], per cui, in relazione alla consistenza della riduzione effettuata con la rimessa, difettando la presenza di un precedente di legittimità che possa connotare univocamente il requisito de quo, quest’ultimo pare dover essere valutato in termini relativi, ovverosia tenendo in debita considerazione tutti i parametri elaborati dalla giurisprudenza, segnatamente: l’entità massima dell’esposizione bancaria; l’ammontare del debito, nel momento di effettuazione della stessa rimessa; l’ammontare del “rientro”, ex art. 70 L. Fall.; l’entità media dei versamenti, in entrata e in uscita. La commistione dei tre criteri, ai fini di saggiare, su di un piano più strettamente pragmatico – operativo, la composizione del requisito della “consistenza”, non è, invero, prospettiva del tutto nuovo nel panorama giurisprudenziale e pare, contrariamente, innestarsi su un filone ermeneutico già inaugurato da una parte della giurisprudenza di merito[8]. L’incidenza sul saldo (rectius, della riduzione dell’esposizione debitoria) deve, necessariamente, essere effettiva, ovverosia correlata dall’assenza, successiva, di addebiti capaci di comprometterne la consistenza[9]; in tal senso, pare evidente come, ai fini dell’accertamento della durevolezza, non possa ragionevolmente prescindersi dall’adozione di un criterio relativo, tale da ponderare la frequenza delle movimentazioni del conto corrente, nonché l’apprezzabile stabilità dell’effetto solutorio. Di tal guisa, non può, infatti, come evidenziato anche dalla giurisprudenza[10], qualificarsi durevole solo la rimessa non seguita da ulteriori operazioni di addebito, ma, neppure, esclusivamente quella che rientri nelle cc.dd. “operazioni bilanciate”. Queste ultime appaiono senz’altro contigue con il fattivo accertamento del requisito della durevolezza, dal momento che rappresentano versamenti su conto corrente speculari a specifiche operazioni di prelevamento da parte del cliente, o di pagamento a favore di terzi[11].

Relativamente alla ripartizione dell’onere probatorio, pare opportuno segnalare una recente pronuncia del Tribunale di Mantova[12], che ha evidenziato come, in ossequio a quanto stabilito da consolidata giurisprudenza di legittimità[13], in tema di azione revocatoria fallimentare specificamente inerente a rimesse in conto corrente bancario, sia, di fatto, sufficiente la sola indicazione del numero di conto corrente (sul quale siano stati effettuati i versamenti attenzionati), la loro natura di pagamenti, nonché il periodo sospetto considerare, al fine di consentire alla parte convenuta di essere edotta circa la pretesa azionata e la sua pervasività; non risulta, contrariamente, necessario, ai fini dell’individuazione tanto del petitum, quanto della causa petendi, la specificazione delle singole rimesse, dal momento che queste sono, comunque, facilmente individuabili dall’Istituto di credito, in quanto detentore di tutta la documentazione contabile, comprovante le operazioni poste in essere dal correntista. La pronuncia in commento si pone in assoluta linea di continuità con quanto era già stato statuito da una sentenza della Corte d’Appello di Trieste[14], per cui, essendo il conto corrente bancario da considerare nel complesso delle operazioni in esso transitate, secondo una visione unitaria, in capo al curatore non può, consequenzialmente, che ascriversi solo l’onere di dimostrarne la scopertura, non occorrendo la contestuale indicazione delle singole rimesse da revocare, facilmente individuabili dalla Banca convenuta in revocatoria.

Permanendo sempre sul piano dell’atteggiarsi della ripartizione dell’onere probatorio, ma traslando, al contempo, il focus della disamina analitica proprio sulla parte convenuta, bisogna rilevare come la Banca, per sottrarsi all’obbligo di restituzione, sia onerata dal provare l’assenza dei due requisiti della consistenza e durevolezza: deve, in altri termini, dimostrare che le rimesse non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria; difettando una tale prova[15], infatti, verrebbe disposta la revoca, limitando l’obbligo di restituzione secondo il criterio del massimo scoperto, disciplinato dall’art. 70 L. Fall., che opera in funzione di norma di chiusura, eliminando, in un’ottica unitaria, dal panorama giurisprudenziale definitivamente la revocabilità delle singole rimesse[16].

La relazionalità, ab origine complessa, tra quest’ultima disposizione normativa e il precedente art. 67 L. Fall. chiude questa breve, ma puntuale, rassegna della più recente giurisprudenza di merito, in tema di revocatoria fallimentare di rimesse bancarie.

L’art. 70 L. Fall. ha, certamente, carattere evidentemente irretroattivo, circostanza che discende direttamente dalla natura innovativa della disposizione normativa de qua: non può, difatti, qualificarsi come norma di interpretazione autentica, in quanto introduttiva di un limite oggettivo all’obbligo di restituzione (secondo il criterio del massimo scoperto)[17].

Sul problematico coordinamento tra le due proposizioni normative summenzionate pare opportuno segnalare, in ossequio all’ermeneutica ormai prevalente[18], che: l’art. 67 L. Fall. introduca un’esenzione, dalla revocatoria, di una categoria tipologica di rimesse, ovverosia quelle che non abbiano ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria inerente il rapporto di conto corrente intrattenuto dal debitore con l’Istituto di credito – creditore convenuto; l’art. 70 L. Fall., viceversa, introitando nella normazione fallimentare il criterio del c.d. massimo scoperto, indichi come sia effettivamente passibile di restituzione solo ed esclusivamente l’importo per cui la Banca creditrice sia rientrata del suo credito, segnatamente rappresentato dalla differenza tra il credito massimo erogato e quello residuo, cristallizzato al momento della dichiarazione di fallimento. Si pone in essere, dunque, una sorta di compenetrazione tra i dettami dei due articoli de quibus, che restano, comunque, funzionalmente autonomi. In conclusione, l’importo passibile di restituzione ai sensi di quanto disposto dall’art. 70 L. Fall., ovverosia quello rispetto al quale l’Istituto di credito sia effettivamente rientrato, rappresenta, di fatto, il tetto massimo della somma restituibile, rispetto a quella oggetto di revoca[19].

L’applicazione del combinato disposto dei due articoli de quibus è, necessitatamente, suscettibile di una perimetrazione, funzionalizzata a contingentarne l’operatività solo relativamente a rapporti nello svilupparsi dei quali il correntista – debitore, dopo aver effettuato un pagamento, abbia la possibilità di utilizzare il denaro così esistente sul conto: la finalità delle due norme, in altri termini, è senz’altro rinvenibile nell’opportunità stringente di evitare che i versamenti funzionali al reimpiego, da parte dello stesso correntista, possano essere annoverati nella categoria delle disposizioni passibili di revocatoria, esponendo, consequenzialmente, l’accipiens alla restituzione di un ammontare ben superiore a quello di cui effettivamente avvantaggiatosi[20].


[1] In relazione alla correlata questione dell’assoggettabilità ad azione revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente affluite su un conto scoperto e sulla potenziale validità di queste ultime, Cass. Civ., Sez. I, 9 agosto 2017, n. 19751, che, ai fini dell’esclusione della dichiarazione di inefficacia, ha indicato quale criterio discretivo la sussistenza e l’accertamento di accordi intercorsi tra solvens e accipiens, ontologicamente tali da elidere la funzione solutoria delle rimesse.

[2] Da ultimo, Trib. Reggio Emilia, Sez. I, 31 agosto 2017, n. 862, per cui a seguito della novella fallimentare del 2005 e della contestuale introduzione del terzo comma all’art. 67 L. Fall., laddove il pagamento consista in una rimessa bancaria, non occorre verificare se questa sia pervenuta su un conto passivo “scoperto”, quanto, piuttosto, è necessario valutare se vi sia stata un’attività di riduzione del saldo passivo, connotata da durevolezza e consistenza.

[3] Distinzione puntualizzata, nella sua specifica accezione contenutistica in Cass. Civ., Sez. I, 18 ottobre 1982, n. 5413, annotata in Banca borsa tit. cred., 1984, II, 168.

[4] Il riferimento è a Trib. Modena, Sez. I, 23 maggio 2017, n. 828.

[5] V. anche Trib. Udine, 24 settembre 2009, in Giur. comm. 2012, 4, II, 847, con nota di M. Prestipino, Presupposti e limiti della nuova revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario. Contra, Trib. Bergamo, Sez. II, 28 aprile 2014 (con nota di G. Rebecca, Revocatoria delle rimesse bancarie: ultimi orientamenti dal Tribunale di Bergamo, in Diritto Bancario, Giurisprudenza, Fallimentare – Restructuring – Azione revocatoria fallimentare, 31 luglio 2014, dirittobancario.it). Sulla questione si era già espresso, fra gli altri, Trib. Piacenza, 23 dicembre 2014, n. 928, in ilcaso.it., e Trib. Catania, Sez. IV, 20 febbraio 2016, n. 1137, in ilcaso.it. In senso evidentemente contiguo, sull’elisione della “scopertura” del conto dai presupposti della funzione solutoria della rimessa bancaria, v. anche Trib. Bologna,  4 agosto 2011, n. 2167, che evidenzia anche la superfluità e l’irrilevanza di un eventuale fido; Trib. Ferrara, 14 maggio 2012, n. 658; Trib. Torino, 21 febbraio 2014, con nota di G. Bevilacqua, La revocatoria delle rimesse bancarie, in Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2015, n. 6, IPSOA, 716; Trib. Piacenza, 23 dicembre 2014. Da ultimo, Trib. Reggio Emilia, Sez. I, 12 maggio 2017, n. 474.

[6] Entrambi i requisiti sono intrinsecamente connotati da un evidente grado di soggettività. Sul punto, Trib. Milano, 15 settembre 2016, n. 10132, con nota di C. Saini, Apparente concessione di un fido bancario al fine di attribuire alle rimesse, oggetto di azione revocatoria, un’inesistente finalità ripristinatoria, in Rivista dei Dottori Commercialisti, fasc. 1, 2017, 115.

[7] Il riferimento è a Trib. Reggio Emilia, Sez. I, 31 agosto 2017, n. 862. Vedi, supra, nota 2.

[8] Il riferimento è a Trib. Firenze, 18 aprile 2016, n. 18090, in Rivista dei Dottori Commercialisti, 2016, 4, 672, per cui «la riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria della società fallita […] va accertata con riguardo: all’entità iniziale, finale e massima dell’esposizione debitoria suddetta; alla differenza tra l’ammontare massimo e quello esistente alla data di fallimento delle pretese creditorie della Banca convenuta nel periodo considerato; all’entità delle rimesse effettuate nel suddetto periodo di importo non inferiore al 10% del massimo revocabile sopra indicato.».

[9] V. Trib. Pordenone, 2 aprile 2015, con nota di G. Rebecca, Valutazione della consistenza e della durevolezza delle rimesse, in unijuris.it). V. anche F. Clemente, La durevolezza nella revocatoria delle rimesse bancarie: ipotesi applicative, in IlFallimentarista.it, 30 aprile 2013.

[10] Così, Trib. Reggio Emilia, Sez. I, 31 agosto 2017, n. 862. Vedi, supra, nota 2.

[11] Sull’esclusione della loro revocabilità a sfavore dell’Istituto di credito e sul loro trattamento, in caso di esperimento dell’azione revocatoria fallimentare, Cass. Civ., Sez. I, 7 aprile 2016, n. 6758, con nota di D. Siracusa, Le operazioni bilanciate e la revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie in conto corrente, in Diritto Bancario, Giurisprudenza, Fallimentare – Restructuring – Azione revocatoria fallimentare, 18 luglio 2016, dirittobancario.it.

[12] Il riferimento è a Trib. Mantova, Sez. II, 29 dicembre 2017.

[13] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 7 ottobre 2010, n. 20834.

[14] Il riferimento è a App. Trieste, 28 ottobre 2016, in Rivista dei Dottori Commercialisti 2017, 4, 590.

[15] O, naturalmente, anche laddove venga dimostrata l’effettiva sussistenza di entrambi i requisiti.

[16] Il riferimento è a Trib. Modena, 29 novembre 2017, n. 2120.

[17] Relativamente alla qualificazione della natura dell’art. 70 L. Fall., Cass. Civ., Sez. I, 6 maggio 2016, n. 9133.

[18] In tal senso, per una disamina puntuale, G. Polatti, Rimesse bancarie ed azione revocatoria nel diritto fallimentare, in Diritto Bancario, Approfondimenti, 13 luglio 2011, dirittobancario.it.

[19] Un’apertura alla possibile coesistenza delle due disposizioni si era già avuta con Trib. Milano, 27 marzo 2008, n. 3979.

[20] In tal senso si è espresso Trib. Milano, Sez. II, 3 giugno 2014, con nota di G. Rebecca, Revocatoria di rimesse bancarie: esenzioni e limiti, in Diritto Bancario, Giurisprudenza, Fallimentare – Restructuring – Azione revocatoria fallimentare, 29 luglio 2014, dirittobancario.it. L’Autore evidenzia come dalla ratio dell’esenzione stabilita dall’art. 67 leg. fall. e della limitazione degli effetti della revocatoria prevista dall’art. 70 leg. fall., ben si comprende come esenzione e limitazione non possano operare se non in presenza di un rapporto continuativo che sia in concreto e non solo sotto un profilo nominalistico connotato dal meccanismo sopra descritto. Sulla sostanziale incompatibilità degli artt. 67, terzo comma, e 70 L. Fall. con un conto corrente non operativo, App. Torino, 5 maggio 2017, n. 973, in Rivista dei Dottori Commercialisti, 2017, 3, 449, ove si rileva come entrambe le disposizioni normative siano strutturate in modo tale da doversi riferire esclusivamente alla regolamentazione di conto correnti operativi, poiché, nell’opposto caso di conto “bloccato”, qualunque rimessa sarebbe, sic et simpliciter, definitiva e, di conseguenza, fattivamente idonea a ledere la par condicio creditorum.


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