Le clausole sociali nella disciplina del Codice dei Contratti Pubblici

Le clausole sociali nella disciplina del Codice dei Contratti Pubblici

Tra le norme che hanno generato maggiore interesse nell’impianto del nuovo Codice degli Appalti l’art. 50, senza dubbio, ha sollevato diverse questioni interpretative ritenute essenziali per dottrina e giurisprudenza, con riguardo in particolare alla corretta comprensione del concetto di “clausola sociale” che la norma richiama: il Codice, già ai sensi delll’art. 3, comma 1, lett. qqq, le definisce come quelle disposizioni che impongono a un datore di lavoro il rispetto di determinati standard di protezione sociale e del lavoro come condizione per svolgere attività economiche, in appalto o in concessione, o per accedere a benefici di legge e agevolazioni finanziarie, accogliendo una definizione codicistica abbastanza ampia e poco specifica; l’art. 50, invece, risulta già più preciso delimitando l’obbligo inerente le clausole in questione ad una determinata tipologia di appalti o concessioni, giacché per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi, diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti “ad alta intensità di manodopera”, i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti inseriscono, nel rispetto dei principi dell’Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato.

Giova in primis sottolineare come dal 2017 la disposizione contenga un obbligo (“inseriscono”) e non più una facoltà (“possono inserire”)[1], risolvendo una questione particolarmente delicata insorta in sede di interpretazione della norma già a partire dalla sua entrata in vigore ed accogliendo le doglianze di chi, sia in ambito politico che dottrinale, aveva sostenuto da subito con vigore di interpretare in termini di obbligo quella che era stata descritta dal legislatore come una facoltà, ritenendo le esigenze sociali preminenti sulle diverse necessità di libertà organizzativa dell’imprenditore: l’obbligo, infatti, garantisce maggior tutela alle esigenze sociali e non lascia le stazioni appaltanti sole nel decidere se prevedere o meno la clausola sociale e, oltretutto, isolate nel subire anche la probabile pressione da parte dei lavoratori.

Pur tuttavia l’art. 50, nella sua attuale formulazione, non definisce chiaramente la portata ed il preciso contenuto della clausola sociale.

In generale si parla di clausola sociale in riferimento a qualsiasi prescrizione che abbia l’obiettivo di promuovere finalità di carattere sociale, benché le diverse tipologie di clausole sociali utilizzate negli appalti pubblici, più in particolare, sono riconducibili a due precisi scopi: in primo luogo la tutela del diritto dei lavoratori, rispetto all’occupazione e a condizioni di lavoro dignitose; in secondo luogo, la promozione di standard elevati di tutela sociale.

Tuttavia, specificando il solo profilo della “stabilità occupazionale” cui la clausola sarebbe rivolta, il codice non definisce compiutamente i limiti della sua portata: in particolare, ci si è chiesti se l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, debba essere ossequiato anche a costo di risultare incompatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; in sostanza, senza “soppesare” la corretta portata dell’ambito di applicazione della clausola sociale,  l’impresa aggiudicataria di appalto pubblico rischierebbe di essere obbligata ad assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già adoperato dalla precedente impresa o società affidataria, con grave vulnus della libera capacità di organizzare la propria attività imprenditoriale.

Ad avviso dell’ANAC, che ancora una volta colma la superficialità del legislatore, l’obbligo di prevede la clausola sociale sarebbe innanzi tutto da restringere ai contratti ad alta intensità di manodopera, cosicché l’articolo 50 porrebbe in essere una disciplina obbligatoria per i contratti di servizi e lavori ad alta intensità di manodopera e facoltativa per quelli non aventi tale caratteristica; la norma, infatti, puntualizza che per i servizi ad alta intensità di manodopera devono intendersi quelli nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50% dell’importo totale del contratto e, nel contempo, esclude che la disciplina dell’art. 50 si applichi ai servizi di natura intellettuale (quali, ad esempio, servizi professionali o consulenza), con la chiara finalità di tutelare i lavoratori in appalti particolarmente sensibili: non permettendo alle stazioni appaltanti (e di conseguenza alle imprese) di creare una competizione basata sul solo prezzo, infatti, viene protetta la posizione degli operatori impiegati per l’esecuzione del servizio.

Questa tipologia di servizi, non a caso, è stata esclusa dalla facoltà di utilizzo del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso[2], mentre deve ritenersi applicabile, ai “settori speciali”, in considerazione del richiamo operato dall’art. 114, comma 1 (alla disciplina contenuta negli articoli da 1 a 58), e negli affidamenti sotto soglia, secondo quanto previsto all’art. 36 del Codice.

Chiarito tale punto l’ANAC[3] ha espressamente spiegato che la clausola sociale “non deve essere intesa come un obbligo di totale riassorbimento dei lavoratori del pregresso appalto, anche ove la stazione appaltante sia tenuta ad inserirla nella disciplina di gara per disposizione di contrattazione collettiva nazionale e/o in base all’articolo 50 del Codice dei contratti pubblici e, pertanto, non sono previsti automatismi assoluti nell’applicazione della clausola in fase esecutiva”; ne consegue che la clausola “deve essere interpretata nel senso che il riassorbimento sia armonizzabile con l’organizzazione dell’impresa subentrante e con le esigenze tecnico organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto, in modo da non attribuirle un effetto escludente”: tale clausola deve quindi prevedere che il riassorbimento del personale sia imponibile “nella misura e nei limiti in cui sia compatibile con il fabbisogno richiesto dall’esecuzione del nuovo contratto e con la pianificazione e l’organizzazione del lavoro elaborata dal nuovo assuntore”.

Di ciò discende l’esigenza che la clausola sociale sia espressamente prevista negli atti di gara e sia sufficientemente chiara e precisa nel definire l’obbligo di assunzione, così da consentire ai concorrenti di individuare immediatamente il numero complessivo di dipendenti addetti all’appalto.

A confermare questa impostazione va ulteriormente menzionato un consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato[4], secondo cui “la c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’articolo 41 della Costituzione, che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo del contratto di appalto”, cosicché tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, “evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente”; conseguentemente, “l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante”.

Pertanto, alla luce di questi rilievi, è chiaro come la clausola possa definirsi costituzionalmente e comunitariamente legittima solo se non comporta un indiscriminato e generalizzato obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il totale del personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria; i lavoratori che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, saranno dunque destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali.

Probabilmente una maggiore cura del legislatore nella costruzione di questo concetto si sarebbe resa necessaria, stante l’imponente mole di interventi che si sono succeduti in dottrina e giurisprudenza, per chiarine opportunamente la portata ed i “limes” entro cui le esigenze di tutela sociale possono e devono esplicarsi, senza soffocare la libera autodeterminazione dell’attività d’impresa.

 

 


[1] Art 33, comma 1, d. lgs. 19 aprile 2017 n. 56
[2] Ai sensi dell’art. 95, comma 3, lett. a, che impone l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’affidamento dei servizi ad alta intensità di manodopera.
[3] Delibera ANAC n. 462 del 23 maggio 2018, Linee Guida n. 10 recanti “Affidamento del servizio di vigilanza privata”.
[4] Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 2078 del 5 maggio 2017.

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Sandro Geraci

Laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Catania, ho conseguito il Master in Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso la Bocconi; continuo a studiare diritto per passione e per affrontare i concorsi che sto preparando.

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