Le conseguenze penali del mobbing lavorativo

Le conseguenze penali del mobbing lavorativo

Il mobbing lavorativo è quell’insieme di pratiche persecutorie realizzate dal datore di lavoro ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione. Secondo quanto statuito recentemente dalla Sezione Lavoro della Cassazione Civile con ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381, il fenomeno si realizza al ricorrere di due elementi: quello oggettivo, consistente in una pluralità di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, e quello soggettivo, consistente nell’intendimento persecutorio del datore medesimo. Quest’ultimo richiede che il datore di lavoro, un suo preposto o un dipendente (sottoposto al potere gerarchico dei primi due) pongano in essere atti contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo.

Peraltro, ai fini della configurazione del mobbing, non è sufficiente la mera realizzazione di plurime condotte illegittime, ma è necessario che il lavoratore riesca a provare, attraverso diversi elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione del lavoratore[1].

Il fenomeno in esame, oltre a costituire violazione dell’obbligo di sicurezza e di protezione dei lavoratori ex articolo 2087 codice civile, può integrare, a talune condizioni, alcune fattispecie di reato.

In assenza di una specifica figura incriminatrice per le condotte di mobbing, la giurisprudenza ha tradizionalmente ricondotto il fenomeno all’interno dei maltrattamenti contro familiari e conviventi di cui all’articolo 572 codice penale. Nella norma de qua, come da ultimo modificata dalla legge 172/2012, è presente infatti un espresso riferimento ai maltrattamenti contro una persona sottoposta all’autorità dell’agente.

Tuttavia, la riconducibilità del mobbing all’interno della figura dei maltrattamenti incontra alcuni limiti. La giurisprudenza di legittimità ha infatti individuato una serie di parametri, in presenza dei quali, è considerata integrata tale fattispecie di reato: il rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il dipendente deve assumere natura para-familiare, ossia essere caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione (anche solo psicologica) del dipendente nei confronti del datore di lavoro e dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia[2]. Conseguentemente, non è possibile applicare l’articolo 572 codice penale tutte le volte in cui si faccia riferimento a vicende svolte in aziende di dimensioni medio-grandi.

Nondimeno, qualificare il mobbing in termini di reiterazione di plurimi atteggiamenti volti a esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro permette di ricondurre le attività vessatorie alla norma di cui all’articolo 612-bis codice penale, ove ricorrano gli elementi costituivi della fattispecie e la causazione di uno degli eventi previsti dalla norma.

A tal proposito si parla di stalking occupazionale, ossia quella forma di stalking in cui l’attività persecutoria si esercita nella vita privata della vittima, ma la cui motivazione proviene dall’ambiente di lavoro, dove lo stalker ha realizzato una situazione di conflitto, persecuzione o mobbing[3].

Il delitto di stalking, reato abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro inserimento nella sequenza causale che porta alla realizzazione di uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma, di modo che l’evento sia il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso[4]. Il bene giuridico tutelato dalla norma è la libertà morale della persona offesa, ossia la sua libertà di autodeterminazione.

Alla luce di queste considerazioni, la Quinta sezione della Suprema Corte, con la sentenza n. 31273 del 14 settembre 2020, ha affermato che il reato di atti persecutori è configurabile anche in caso di mobbing qualora i plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima, e preordinati a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, siano idonei a determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, cagionando uno degli eventi previsti dall’articolo 612-bis codice penale.

Secondo gli ermellini, quindi, è del tutto irrilevante il contesto entro il quale si verifica la condotta persecutoria. E, parimenti, è del tutto infondato ritenere non configurabile lo stalking in ambito lavorativo perché, così facendo, si ignora la verifica causale e la natura di danno della fattispecie e si limita la tutela della libertà morale solo ad alcuni ambiti della vita in cui si esplica la personalità individuale[5].

 

 

 


[1] Cass. Civ. Sez. Lav., 09 giugno 2020, n. 10992.
[2] Ex plurimis: Cass. Pen. VI Sez., 13 febbraio 2018, n. 14754; Cass. Pen. VI Sez., 20 marzo 2014, n. 13088; Cass. Pen. VI Sez., 2014, n. 24642; Cass. Pen. VI Sez., 2013, n. 28603; Cass. Pen. VI Sez., 2011, n. 43100.
[3] Ege H., Oltre il mobbing: Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Franco Angeli, 2005, pag. 109 e ss.
[4] Cass. Pen. V Sez., 14 gennaio 2019, n. 7899.
[5] Per completezza espositiva, si riporta altresì l’orientamento minoritario in base al quale non è possibile ricondurre il mobbing alla fattispecie di cui all’art. 612-bis c.p. Secondo tale orientamento, infatti, sebbene esistano alcune affinità tra le due figure, esistono delle differenze insuperabili. Dal punto di vista del modus operandi, lo stalker tende a cercare un contatto esasperato con la vittima, che viene perseguita e torturata dal punto di vista psico-fisico fino al punto, in certi casi, di dover modificare le proprie abitudini di vita; la condotta del mobber (il soggetto che pone in essere il mobbing), invece, tende ad esplicarsi solamente all’interno dell’ambiente di lavoro. Il locus commissi delicti, secondo questo indirizzo, rappresenterebbe quindi l’elemento di discrimen tra il mobbing e lo stalking. Dal punto di vista soggettivo, si segnala poi il fatto che mentre per il mobbing è necessario un dolo specifico perché l’attività del datore di lavoro deve essere volta a danneggiare il dipendente, per lo stalking è sufficiente un dolo generico che si manifesta nella coscienza e volontà dell’agente di cagionare uno degli eventi costitutivi della fattispecie. Infine, l’ultima differenza viene individuata nel bene giuridico posto a tutela dei due fenomeni: nel caso del mobbing, il bene giuridico sarebbe quello della dignità del lavoratore nel posto di lavoro; nel caso dello stalking, invece, sarebbe la libertà morale (intesa come libertà di autodeterminazione) e l’integrità individuale del soggetto passivo. In conclusione, ricondurre il mobbing alla norma di cui all’art. 612-bis c.p., secondo alcuni (Pisani G., Il mobbing come stalking: prospettive e limiti, 2016, in www.dirittopenalecontemporaneo.it) rischia di violare sia il principio di offensività che il divieto di analogia perché “un’equazione semplicistica che, di fronte all’eterogeneità delle relazioni sociali in analisi, porti ad allineare la tutela della serenità e fiducia nel rapporto di lavoro alla tutela dell’integrità psichica, confonde la ratio dei due modelli”.

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Elena Avenia

Nata ad Agrigento nel 1994. Laureata con pieni voti e lode nel luglio del 2018, presso l'Università degli studi di Enna Kore, con una tesi in diritto processuale penale dal titolo "L'ascolto del minore nel processo penale". Diplomata nel luglio 2020 presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli studi di Catania. Abilitata alla professione forense il 21 settembre 2020.

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