Le SS. UU. sul delicato problema del figlio che vuole conoscere le proprie origini

Le SS. UU. sul delicato problema del figlio che vuole conoscere le proprie origini

L’intero settore privatistico ha subito, nel corso dei secoli, una vera e propria “antropologizzazione”: la persona – sia nella sua prospettiva individuale, che nell’ambito delle formazioni sociali in cui estrinseca la propria identità – ha assunto una posizione centrale, per cui tutti gli istituti tradizionali del diritto civile sono stati riletti in senso personalistico e si è assistito alla nascita di “nuovi diritti” soprattutto nella categoria dei c.d. diritti della personalità.

I diritti della personalità, intesi quale nucleo di diritti soggettivi assoluti che attengono ad aspetti essenziali della personalità umana e che hanno ad oggetto beni immateriali ed immanenti dell’uomo, sono tutelati sia dalle norme costituzionali (in particolare dagli artt. 2 e 3 Cost.), sia dalle norme sovranazionali  (si pensi alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948, alla Dichiarazione del Consiglio d’Europa per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sottoscritta a Roma nel 1950, al Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, c.d. Carta di Nizza del 2000[1]).

Tra le caratteristiche generali dei diritti della personalità vanno elencate: l’assolutezza (sono opponibili erga omnes), l’essenzialità (si occupano dello sviluppo fisico e morale della persona tutelando le ragioni fondamentali della vita di ogni individuo), la personalità (sono indissolubilmente legati alla persona), la non patrimonialità (non sono suscettibili di valutazione economica), l’intrasmissibilità (non possono formare oggetto di trasferimento né per atto tra vivi né per atto mortis causa), l’inalienabilità (non possono essere ceduti), e l’imprescrittibilità (non si prescrivono per il non uso, né possono essere oggetto di usucapione).

Si tratta, infine, di diritti originari o innati, in quanto si acquistano in seguito alla nascita o in seguito a mutamento di status.

È difficile cristallizzare un catalogo di tali diritti, in quanto la natura degli stessi ne determina una continua trasformazione. D’altronde, l’ambiente, il contesto sociale e l’epoca storica, ampliano notevolmente la categoria.

È per tale motivo che si sono formati due orientamenti in merito alla natura degli stessi: secondo alcuni interpreti, c.d. concezione monista, si tratta di un unico diritto avente più sfaccettature, invece, altri, aderenti alla c.d. concezione pluralista, riconoscono distinte situazioni giuridiche meritevoli di tutela disciplinate autonomamente.

La giurisprudenza, sia costituzionale che di legittimità[2], ha avallato il primo orientamento, ritenendo che sia l’art. 2 Cost. a dare rilevanza costituzionale a tutti gli aspetti della personalità umana.

A questa conclusione si è giunti anche prendendo in esame il problema della responsabilità extracontrattuale derivante dalla lesione di tali diritti.

Ebbene, finché l’oggetto della tutela della responsabilità aquiliana era rappresentato solo da diritti soggettivi perfetti, appariva più corretta l’individuazione di singole norme poste a tutela dei diritti della personalità, prediligendo, così, la tesi pluralista. Ma, allorquando è stata riconosciuta l’atipicità dell’illecito, è risultato superfluo individuare per ogni singolo diritto della personalità una disposizione ad hoc, così preferendosi la tesi monista.

Ad ogni modo, con l’entrata in vigore della Costituzione, il cui art. 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, la dottrina maggioritaria[3] ha chiarito che non si tratta di proteggere questo o quel singolo diritto, inteso come situazione giuridica desumibile dalla norma, ma qualsiasi interesse collegato alla realizzazione della personalità dell’individuo; pertanto la norma costituzionale appena citata si considera un vero e proprio “catalogo aperto di diritti”[4].

La tutela offerta a tali diritti è ampia e si realizza a più livelli ed attraverso diverse forme[5]; quanto agli strumenti di difesa civilistici possono essere distinti quelli di tipo preventivo, che inibiscono la condotta illecita ed il prodursi degli effetti pregiudizievoli (d’altronde l’attuazione del contenuto dei diritti della personalità si identifica con la non ingerenza da parte di terzi in quelli che sono gli attributi essenziali della persona), e quelli di tipo successivo, deputati a risarcire il pregiudizio derivante dalla lesione subita (artt. 2043, 2058 e 2059 c.c.). I diritti della personalità, pertanto, non sono altro che fatti costitutivi di obbligazioni e, di conseguenza, il legislatore è tenuto a proteggerli.

Tra i diritti della personalità, nell’attuale contesto sociale, assume particolare rilievo il diritto alla privacy in tutte le sue forme: diritto all’oblio, diritto alla riservatezza e diritto all’anonimato.

Quest’ultimo aspetto del diritto alla privacy ha interessato un recente pronunciamento dalla Suprema Corte di Cassazione[6] in virtù della necessità di bilanciarlo con l’opposto diritto del figlio a conoscere le proprie radici.

Nel caso di adozione, il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini familiari e genetiche va ricompreso nel generico diritto all’identità personale in quanto risponde al desiderio di conoscenza della propria storia e, al contempo, risulta funzionale ad una corretta e piena formazione della propria identità personale, di ciò che l’individuo percepisce di sé e dei suoi rapporti di relazione.

Sul versante opposto, il diritto all’anonimato della partoriente, inteso quale limite all’accesso alle informazioni identificative sulla donna, ha a lungo integrato uno dei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti per legge, idoneo ad escludere l’accesso[7].

A disciplinare il rapporto tra questi due fondamentali diritti è intervenuto il legislatore con l’art. 28 l. 184/1983[8] prevedendo la possibilità per l’adottato, una volta raggiunta l’età di venticinque anni, di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici – può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica – presentando un’istanza al tribunale per i minorenni del luogo di residenza; però tale accesso non è consentito laddove l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo.

Tale normativa, letta in combinato disposto con l’art. 93 del Codice della privacy[9] – da cui emerge che, laddove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata sul certificato di assistenza al parto o nella cartella clinica, i suoi dati possono essere rilasciati soltanto dopo che siano decorsi cento anni dalla formazione del documento – ha determinato, per lungo tempo, un’inevitabile prevalenza del diritto all’anonimato della madre, su quello del figlio a conoscere le proprie radici.

Gli interpreti hanno riconosciuto la ratio di tale prevalenza nell’esigenza di tutelare interessi pubblici, quali la protezione della salute della donna e del figlio durante la gravidanza e il parto, la prevenzione degli aborti, evitando quelli clandestini, nonché la prevenzione degli abbandoni di neonati in condizioni pericolose per la loro incolumità.

La scelta netta di preferire sempre e comunque l’anonimato al diritto di conoscenza dell’adottato ha spinto il Tribunale per i minorenni di Firenze[10] a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge che esclude all’adottato di accedere alle informazioni relative alla madre che, al momento del parto, sceglie di restare anonima, senza poter previamente verificare la persistenza della volontà della donna di non voler essere rintracciata.

La Corte Costituzionale[11], in una prima decisione, nel rigettare la questione, ha ritenuto che l’assolutezza del diritto all’anonimato sia espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti dei soggetti interessati, vieppiù se si pensa che è funzionale al soddisfacimento non tanto di un interesse privato della donna, quanto, piuttosto, di un interesse pubblico sovraordinato all’interesse individuale.

Tale approdo, però, non è risultato conforme coi principi contenuti nella CEDU, così come interpretati dalla Corte di Strasburgo. Si fa riferimento, in particolare, all’art. 8 CEDU[12] che prescrive il diritto al rispetto della vita privata da intendersi anche come diritto dell’individuo di accedere alle informazioni che lo riguardano personalmente, quale propagazione del suo diritto all’identità personale[13].

In merito, la Corte EDU ha enunciato il seguente principio: “Un ordinamento che ammetta ex lege il parto anonimo è conforme alla Convenzione qualora abbia in concreto adottato adeguate misure volte a promuovere l’interesse del figlio all’accesso[14].

Nell’ordinamento italiano manca sia una disciplina idonea a promuovere un contatto tra adottato e madre che abbia manifestato al momento della nascita del figlio di restare anonima, neppure ove la stessa voglia rimuovere volontariamente, in un successivo momento, il segreto sulla sua identità; sia una norma che preveda un dovere, da parte delle istituzioni, di sensibilizzare la donna sulla questione della conoscenza delle origini, ed è per questo motivo che la Corte di Strasburgo, con la sentenza Godelli c. Italia[15], ha evidenziato come la legislazione interna ha sempre attribuito una preferenza incondizionata alla tutela delle scelte compiute dalla donna, venendo meno al rispetto del diritto alla vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU.

Sull’argomento, quindi, diventa necessario un nuovo intervento della Corte Costituzionale[16].

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) viene sollevata dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro, che ne denuncia il contrasto:

  • con l’art. 2 Cost., configurando «una violazione del diritto di ricerca delle proprie origini e dunque del diritto all’identità personale dell’adottato»;

  • con l’art. 3 Cost., in riferimento all’«irragionevole disparità di trattamento fra l’adottato nato da donna che abbia dichiarato di non voler essere nominata e l’adottato figlio di genitori che non abbiano reso alcuna dichiarazione e abbiano anzi subìto l’adozione»;

  • con l’art. 32 Cost., in ragione dell’impossibilità, per il figlio, di ottenere dati relativi all’anamnesi familiare, anche in relazione al rischio genetico;

  • con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 8 CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 25 settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia, la quale ha dichiarato che la normativa italiana rilevante violi il predetto art. 8 della Convenzione, non adeguatamente bilanciando fra loro gli interessi delle parti contrapposte.

Il giudice delle leggi sottolinea che il diritto all’anonimato della madre e quello del figlio a conoscere le proprie origini ai fini della tutela dei suoi diritti fondamentali, si condizionano a vicenda.

Il fondamento costituzionale del primo riposa sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento[17], connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili.

Di converso, il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona, come pure riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale. Elementi, tutti, affidati alla disciplina che il legislatore è chiamato a stabilire, nelle forme e con le modalità reputate più opportune, dirette anche ad evitare che il suo esercizio si ponga in collisione rispetto a norme – quali quelle che disciplinano il diritto all’anonimato della madre – che coinvolgono esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita.

Tuttavia, deve evidenziarsi che la tutela assicurata al diritto all’anonimato della madre sconta un forte deficit, in quanto determina, secondo i giudici della Corte Costituzionale, una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione” della scelta di restare anonima assumendo, tale manifestazione, i connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione. Inoltre, tale cristallizzazione trasforma il diritto in parola in una sorta di vincolo obbligatorio, che effettivamente finisce per avere un’efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare (la partoriente) impedendo al figlio l’esplicazione del diritto di richiedere la rimozione di quel “segreto”.

Con un sistema costruito sulla lettura combinata degli artt. 28 l. 184/1983 e 93 del Codice della privacy si finisce per attribuire alla scelta di anonimato della partoriente valenza di rinuncia irreversibile alla “genitorialità”.

Per il giudice delle leggi si è dinanzi, dunque, ad una disciplina censurabile per la sua eccessiva rigidità, in quanto non consente, anche alla stessa donna, un ripensamento tale da determinare una vera e propria irreversibilità del segreto.

La censura offerta dalla Corte Costituzionale, però, si arresta al compito deputato ai giudici delle leggi[18], tant’è che gli stessi auspicano l’intervento del legislatore, l’unico a poter introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto.

La Corte ha riaffermato il fondamento costituzionale del diritto all’anonimato della madre, il quale riposa “sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l’emergenza di pericoli per la salute psico-fisica e la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili”; e ha ribadito che “la salvaguardia della vita e della salute sono… i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire la genitorialità naturale”. Ma ha riconosciuto che “anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale – costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona”, e che “il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”.

A seguito di tale pronuncia si è venuto a creare un contrasto tra i giudici di merito[19] per quanto attiene alle modalità per interpellare la partoriente, al fine di dare corso alla richiesta del figlio di conoscere le proprie origini.

Da un lato c’è stato chi ha ritenuto necessario attendere l’intervento del legislatore; dall’altro chi, invece, in attesa di un intervento normativo, ha preferito dare attuazione ai principi enunciati a livello sovranazionale e nazionale, prendendo come riferimento le pratiche in uso in vari tribunali per i minorenni[20].

In virtù di tale contrasto giurisprudenziale è stato necessario l’intervento delle SS. UU.

La questione sottoposta alla Suprema Corte è: “se la sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 – rimetta la sua stessa efficacia ad un successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di interpello riservato, in assenza della quale il tribunale per i minorenni, sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la scelta per l’anonimato fatta al momento del parto; o se, al contrario, il principio somministrato dalla Corte con la citata pronuncia, in attesa della organica e compiuta normazione da parte del Parlamento, si presti ad essere per l’intanto tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, ancorché solo a titolo precario”.

Preliminarmente i giudici ritengono di dovere sottolineare che la sentenza n. 278 del 2013 della Corte Costituzionale è una pronuncia di accoglimento che, pertanto, produce gli effetti di cui agli artt. 136 Cost. e 30, co.3 l. 87/1953, per cui la norma dichiarata costituzionalmente illegittima cessa di avere efficacia e non può avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

Nel caso concreto sottoposto alle SS.UU. occorre principiare dall’assunto secondo cui la norma che escludeva l’interpello della madre ai fini dell’eventuale revoca è stata rimossa dall’ordinamento per opera della sentenza della Corte Costituzionale, quindi il giudice non può negare tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l’anonimato, in quanto, se lo facesse, senza avere previamente verificato la volontà della donna di mantenere l’anonimato, egli in realtà continuerebbe a dare applicazione al testo dell’art. 28, co. 7 l. 184/1983 preesistente alla pronuncia della Corte costituzionale, negando tutela al diritto del figlio in nome di una assolutezza senza eccezione.

Anzi, nella pronuncia in commento viene sottolineato che il sol fatto di non introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al procedimento di appello della partoriente, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, né implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti.

Il giudice che affronta il problema deve comunque dare, ai soggetti coinvolti, la possibilità concreta di esercitare i loro diritti fondamentali: alla madre, di eventualmente ritrattare, sul versante dei rapporti relativi alla genitorialità naturale, la scelta per l’anonimato, se è messa in condizione di cambiarla allorché il figlio si dichiari interessato a conoscere le sue origini; al figlio, di accedere alle informazioni sulle sue origini e di definire così la sua identità naturale, con tutto ciò che sul piano personale questo può significare, sempre che la portatrice dell’interesse all’anonimato intenda revocare, per effetto di una scelta rimessa alla sua valutazione e alla sua coscienza, la dichiarazione iniziale.

Le SS. UU., inoltre, indicano il procedimento utilizzabile al fine di rendere la sentenza additiva di principio suscettibile di esecuzione, in quello di volontaria giurisdizione, previsto dai co. 5 e 6 dell’art. 28 l. 184/1983[21].

D’altronde, fornire all’interprete gli strumenti per rispettare il principio somministrato dalla Corte costituzionale deriva anche dalla necessità di ricercare una coerenza con la piena attuazione dei diritti di matrice convenzionale e di interpretare, in quest’ambito, il diritto interno in senso conforme alla CEDU e alle pronunce della Corte Europea.

Continuando a negare, in attesa di un meccanismo procedimentale stabilito per legge, la possibilità per il figlio di chiedere al giudice di interpellare riservatamente la madre anonima, si finirebbe con il non valorizzare, né il dictum della Corte di Strasburgo né l’esito dell’incidente di costituzionalità.

Dunque, la Corte conclude enunciando il seguente principio di diritto nell’interesse della legge:

In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità [22] per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte Costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”.


Bibliografia:

  1. Ruscica, I diritti della personalità, CEDAM

  2. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane

  3. Rescigno, Manuale di diritto privato, IPSOA

  4. Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, GIUFFRE’ EDITORE

  5. Garofoli, Focus magistratura, NEL DIRITTO EDITORE

Note:

[1] In merito può essere richiamata la sentenza della Corte di giustizia, grande sezione, 27 giugno 2006, c-540/03 secondo la quale: “I diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine la Corte si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai Trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo cui gli stati membri hanno cooperato o aderito. L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla CEDU e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. Anche il Patto internazionale sui diritti civili e politici si annovera tra gli strumenti internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo di cui la Corte tiene conto per l’applicazione dei principi generali del diritto comunitario. Ciò vale parimenti per la menzionata Convenzione relativa ai diritti del fanciullo che è vincolante nei confronti di ogni singolo Stato membro. Per quanto attiene alla Carta Europea dei diritti dell’uomo, proclamata solennemente a Nizza il 7 dicembre 2000, HA COME obiettivo principale di riaffermare «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla CEDU, dalle Carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte (…) e da quella della Corte Europea dei diritti dell’uomo». Tali diritti, essendo norme primarie del sistema comunitario, devono essere rispettati dalle istituzioni comunitarie nell’adozione dei loro atti normativi”.

[2] Corte Costituzionale 13/1994, Corte di Cassazione 6507/2001

[3] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane

[4] P. Rescigno, Manuale di diritto privato, IPSOA

[5] Tutela costituzionale, sovranazionale, in ambito penale e civile

[6] SS. UU. 25 gennaio 2017, n. 1946

[7] T.A.R. Lazio, III sez. 17 luglio 1998, n. 1854

[8] Art. 28 l. 184/1983 “1.Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni. 2. Qualunque attestazione di stato civile riferita all’adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del minore e dell’annotazione di cui all’articolo 26, comma 4. 3. L’ufficiale di stato civile, l’ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell’autorità giudiziaria. Non è necessaria l’autorizzazione qualora la richiesta provenga dall’ufficiale di stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali. 4. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la potestà dei genitori, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore. 5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. 6. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste. 7. L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo. 8. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili”.

[9] Art. 93 Certificato di assistenza al parto “1. Ai fini della dichiarazione di nascita il certificato di assistenza al parto è sempre sostituito da una semplice attestazione contenente i soli dati richiesti nei registri di nascita. Si osservano, altresì, le disposizioni dell’articolo 109. 2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento. 3. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile.”

[10] Ordinanza 21 luglio 2004.

[11] Corte Costituzionale sentenza 25 novembre 2005, n. 425

[12] Articolo 8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare. “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica dell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.

[13] Corte EDU, sentenza 26 marzo 1987, Leander c. Svezia.

[14] Corte Edu, GC, 13 febbraio 2002, Odièvre v. France. Nel caso della Francia , il legislatore nel 2002 ha istituito un ente con la funzione di mettere in contatto l’adottato e la madre naturale rimasta anonima, al fine di capire se quest’ultima acconsenta a rivelare le proprie generalità.

[15] Corte EDU, 25 settembre 2012, n. 33783. Esaminando il caso della signora Godelli, la quale, nata da parto anonimo, si era vista opporre dai giudici italiani un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali in applicazione della disposizione dell’art. 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983, la Corte di Strasburgo ha ricordato che, nel perimetro della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rientra anche la possibilità di disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano, essendo protetto dalla Convenzione “l’interesse vitale… a ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori”. Così facendo la Corte Europea ha affermato che “la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa”, ma – in assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto del figlio “a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato dà una preferenza incondizionata a questi ultimi”; e ciò a differenza di quanto previsto nel sistema francese (esaminato nella sentenza della Grande Camera 13 febbraio 2003 Odievre c. Francia e ritenuto compatibile con la Convenzione), dove è previsto che, su impulso del figlio dato in adozione, volto a conoscere l’identità della madre biologica anonima, si possa almeno chiedere a lei se, davanti a quella richiesta, abbia intenzione di derogare all’anonimato oppure di mantenerlo.

[16] Corte Costituzionale, sentenza 18 novembre 2013, n. 278

[17] La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di primario rilievo presenti sullo sfondo di una scelta di sistema improntata nel senso di favorire, per se stessa, la genitorialità naturale.

[18] Trattasi di una sentenza additiva di principio, con la quale la Corte accerta la fondatezza della questione di legittimità costituzionale e ne dichiara l’illegittimità nella parte in cui non prevede qualcosa che invece dovrebbe prevedere e, anziché integrare la legge con la regola mancante, aggiunge il principio al quale, da un lato, il legislatore dovrà ispirare la sua futura azione legislativa e, dall’altro, il giudice dovrà orientare la sua decisione concreta. Le additive di principio sono pronunce tendenzialmente caratterizzate da una duplice funzione: in primis, di orientamento del legislatore, nella necessaria attività consequenziale alla pronuncia, diretta a rimediare all’omissione incostituzionale; in secundis, di guida del giudice nell’individuare, ove possibile, soluzioni applicative utilizzabili medio tempore, estraendo da quel principio, e dal quadro normativo generale esistente, la regola buona per il caso.

[19] Contrasto che non si verifica altresì tra i giudici di legittimità, per i quali, invece, non ci sono incertezze in materia. Infatti, la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato di dare per scontato il diritto all’interpello da parte del figlio adottivo di madre che abbia chiesto di non essere nominata, anzi, ha cercato una soluzione anche al caso più complesso che si verifica allorquando la madre sia deceduta. A tal proposito possono essere richiamate sue pronunce: Cass. I sez. n. 15024/2016 e Cass. I. sez. n. 22838/2016 secondo le quali quando la madre muore la previsione contenuta nell’art. 93 del Codice della privacy, che cristallizza per cento anni la scelta di anonimato, diventa inoperante, in quanto diventa irreversibile e comporta per il figlio la definitiva perdita del diritto alla conoscenza delle sue origini, che pure ha natura fondamentale. Non si può, infatti, continuare a garantire il diritto di una persona che non c’è più comprimendo quello di chi è ancora in vita.

[20] Un Tribunale per i minorenni, una volta ricevuto il ricorso del figlio, forma il relativo fascicolo, secretato sino alla conclusione del procedimento e anche oltre; alla luce della visione del fascicolo della vicenda che portò all’adozione, incarica la polizia giudiziaria di acquisire, presso l’ospedale di nascita, notizie utili alla individuazione della madre del ricorrente; ove la madre risulti in vita, incarica il servizio sociale del luogo di residenza di questa (per via consolare, in caso di residenza all’estero) di recapitare, esclusivamente a mani proprie dell’interessata, una lettera di convocazione per comunicazioni orali, indicando diverse date possibili nelle quali le comunicazioni verranno effettuate, presso la sede del servizio o, ove preferito, al domicilio di quest’ultima. Le linee guida seguite da quest’ufficio prevedono inoltre che: ove la madre biologica, in sede di notificazione, chieda il motivo della convocazione, l’operatore del servizio sociale dovrà rispondere “non ne sono a conoscenza”, osservando in ogni caso il più stretto segreto d’ufficio; il servizio notificante informa il giudice delle condizioni psico-fisiche della persona, in modo da consentire le cautele imposte dalla fattispecie; il colloquio avviene nel giorno e nel luogo scelto dall’interessata, tra quest’ultima – da sola, senza eventuali accompagnatori – e il giudice onorario minorile delegato dal giudice togato. A questo punto, secondo le direzioni pratiche, l’interessata viene messa al corrente dal giudice che il figlio che mise alla luce quel certo giorno ha espresso il desiderio di accedere ai propri dati di origine, e viene informata che ella può o meno disvelare la sua identità e può anche richiedere un termine di riflessione. Se la donna non dà il suo consenso al disvelamento, il giudice ne dà semplice riferimento scritto al Tribunale, senza formare alcun verbale e senza comunicare il nome del richiedente; se invece la persona dà il suo consenso, il giudice redige verbale, facendolo sottoscrivere alla persona interessata, solo allora rivelando a quest’ultima il nome del ricorrente.

Le linee guida di altri Tribunali per i minorenni prevedono la convocazione, da parte del giudice, del rappresentante dell’Ufficio provinciale della pubblica tutela, che consegna la busta chiusa contenente il nominativo della madre: il rappresentante dell’Ufficio della pubblica tutela viene fatto uscire dalla stanza; il giudice apre la busta e annota i dati della madre, inserendoli in altra busta, che chiude e sigilla, redigendo un verbale dell’operazione; la prima busta viene nuovamente sigillata e, siglata dal giudice con annotazione dell’operazione compiuta, viene riconsegnata al rappresentante dell’Ufficio, a questo punto fatto rientrare e congedato. Tramite l’Ufficio dell’anagrafe, il giudice verifica la permanenza in vita della madre e individua il luogo di residenza. Il fascicolo rimane nell’esclusiva disponibilità del giudice ed è indisponibile per il ricorrente, che non potrà compulsarlo, essendo abilitato soltanto a estrarre copia del suo ricorso. Ove la madre sia individuata, il giudice, avuta conoscenza del suo luogo di residenza, considerando le caratteristiche personali, sociali, cognitive della donna, prende contatto telefonico con il soggetto ritenuto più idoneo nel caso concreto (responsabile del servizio sociale o comandante della stazione dei carabinieri), senza comunicare il motivo del contatto e chiedendo solo di verificare la possibilità di un colloquio con la madre in termini di assoluto riserbo. Solo ove sia concretamente possibile l’interpello in termini di assoluta riservatezza, viene delegato il responsabile del servizio sociale (ovvero un giudice perché si rechi in loco) al contatto della madre e alla manifestazione a questa della pendenza del ricorso da parte del figlio. Il responsabile del servizio o il giudice raccolgono a verbale la determinazione della madre, di conferma ovvero di revoca dell’anonimato; solo ove la madre revochi la originaria opzione per l’anonimato, il ricorso, sussistendo le altre condizioni di cui all’art. 28 della legge n. 184 del 1983, viene accolto, e il ricorrente accede al nominativo materno.

[21] Un procedimento in camera di consiglio, che si svolge dinanzi al tribunale per i minorenni del luogo di residenza, dettato per la ricerca delle origini del figlio adottato, una volta che questi abbia raggiunto la maggiore età, nel caso in cui la madre non ha fatto la dichiarazione di anonimato.

[22] “Possibilità” che deve essere letta come un vero e proprio obbligo, non come una facoltà di disporre l’interpello.


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