L’erosione del principio di legalità in materia amministrativa da parte delle fonti sovranazionali

L’erosione del principio di legalità in materia amministrativa da parte delle fonti sovranazionali

La concezione tradizionale del principio di legalità in materia amministrativa postula, sostanzialmente, che l’esercizio del potere autoritativo da parte della Pubblica Amministrazione debba trovare limite e fondamento esclusivamente nella legge dello Stato.

La forza di tale assunto, già affievolitasi a seguito dell’entrata in vigore della Carta costituzionale e dell’istituzione del suo Giudice, si è ulteriormente stemperata con l’adesione dell’Italia alle diverse organizzazioni internazionali di cui tutt’oggi fa parte, tra le quali ricopre ruolo di estrema importanza l’Unione europea.

La peculiarità del rapporto inter-ordinamentale intercorrente tra questa e il nostro Paese, infatti, è costituita dall’esistenza del principio del primato del diritto europeo su quello nazionale.

Tale principio, enucleato dalla Corte di Giustizia sin dalla sentenza Costa c. Enel del 1964[1], sancisce la capacità di impedire l’applicazione di una disposizione del diritto interno degli Stati membri qualora questa, nel corso di un giudizio, si palesi in contrasto con una norma europea direttamente efficace, ad essa anteriore o successiva; questo effetto di prevalenza, che nel nostro ordinamento opera in forza degli articoli 11 e 117 della Costituzione, comporta anzitutto la nascita, in capo al giudice, del dovere di disapplicare la normativa nazionale e di applicare al posto di quest’ultima quella dettata dall’Unione, nel caso in cui, pendente un giudizio, siano entrambe venute in rilievo.

A una simile impostazione, secondo cui il primato del diritto europeo investe in linea di principio tanto le leggi ordinarie e gli atti a esse equiparati quanto le norme di rango costituzionale, si è arrivati solo col tempo e attraverso un intenso e non sempre pacifico dialogo tra Corte di Giustizia dell’Unione e tribunali supremi nazionali; con specifico riguardo alla situazione italiana, la generale preminenza delle norme europee su quelle interne è stata definitivamente sancita dalla sentenza Granital[2], emessa dalla Corte costituzionale nel 1984.

Da allora,  molteplici sono state le ricadute riverberatesi sul nostro ordinamento in conseguenza dell’ingresso della normazione europea, soprattutto sulla disciplina del sistema delle fonti.

Il diritto primario dell’Unione, infatti, collocandosi in una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella occupata dalla legge ordinaria dello Stato, è suscettibile di essere applicato in luogo di quest’ultima, con la conseguenza di mettere ulteriormente in crisi la concezione tradizionale del principio di legalità cui sopra si accennava. Inoltre, quand’anche non vi fosse un contrasto tale da rendere necessario il meccanismo della disapplicazione tra la norma europea e la norma interna, quest’ultima andrà comunque interpretata in conformità alle disposizioni dei Trattati, nonché alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), cui il TUE riconosce lo stesso valore dei primi, e ai principi generali del diritto europeo, in ossequio al dovere di interpretazione conforme posto in capo al giudice nazionale dal principio di leale collaborazione di cui all’articolo 4 TUE.

In ambito amministrativo, quanto sopra esposto trova oggi formale enunciazione nell’articolo 1 della legge 241/90, disciplinante il procedimento amministrativo, il quale, a seguito della riforma operata con legge 15/2005, sancisce espressamente che l’attività amministrativa è retta, oltre che dai criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza, altresì dai principi dell’ordinamento comunitario. Al riguardo, si segnala come l’articolo 41 della Carta di Nizza preveda il diritto ad una buona amministrazione, al quale l’orientamento maggioritario attribuisce portata generale, in grado di influenzare non solo il procedimento europeo ma, altresì, quello nazionale.

Venendo, poi, al Trattato di Lisbona, v’è da dire che l’articolo 298 TFUE contiene una embrionale definizione di amministrazione europea, definita quale amministrazione aperta, efficace ed indipendente; tuttavia, dato che fra le competenze dell’Unione non figurano quelle afferenti ai settori dell’organizzazione, del procedimento è del processo amministrativo, è possibile ritenere che, nei detti ambiti, i singoli stati membri siano in linea generale titolari di autonomia nel determinare le modalità con cui assicurare il rispetto dei precetti sostanziali dettati dal diritto europeo.

Tale attribuzione di libertà formale è nondimeno circoscritta da precisi ordini di limiti, rappresentati dall’esigenza di osservare e il principio di non discriminazione, e il principio di effettività.

Il primo, in ossequio alla teoria degli standard minimi, sancisce che la tutela dei diritti derivanti dall’ordinamento europeo non possa ricevere protezione meno intensa rispetto a quella apprestata dalle corrispondenti disposizioni nazionali; il secondo, ad esso collegato, impone la garanzia di previsioni interne che non rendano eccessivamente difficile, o addirittura impossibile, l’attuazione del diritto europeo. In merito alla forza vincolante di dette regole in sede di bilanciamento degli interessi, la dottrina appare al momento divisa; infatti, a fronte dell’orientamento che privilegia un’interpretazione estensiva dei principi summenzionati, in nome dell’effetto utile del diritto europeo, altra parte propende per una delimitazione degli stessi, in ossequio all’esigenza di certezza del diritto e alla regola dell’autonomia amministrativa degli Stati membri.

Quest’ultima appare peraltro derogata anche da talune regole previste in settori particolari, quale quello della tutela della concorrenza in materia di contratti pubblici e servizi.

In tali ambiti, il legislatore europeo ha infatti introdotto una nozione autonoma di organizzazione pubblica, imposta a livello nazionale e rappresentata dalle figure soggettive dell’organismo di diritto pubblico e della società in-house, sancendo che solo in presenza delle dette figure sia possibile autorizzare il mancato rispetto delle regole procedimentali poste a tutela della concorrenza.

I limiti sopra ricordati, afferenti al rispetto dei principi di non discriminazione e di effettività, nonché alla tutela della concorrenza, influenzano dunque l’attività amministrativa interna, determinando un vizio nel provvedimento ogni qualvolta esso appaia in tal senso non conforme al diritto europeo.

In questi casi, potrebbero venire in essere, alternativamente, due fattispecie; in presenza di diritto europeo direttamente applicabile, la competenza a risolvere il contrasto con la norma interna spetterebbe infatti al giudice comune, mentre nell’ipotesi di non diretta applicabilità il sindacato di conformità sarebbe ad esclusivo appannaggio della Corte costituzionale.

Con riguardo alla prima tipologia, occorre ulteriormente distinguere fra violazione immediata e mediata del diritto dell’Unione; mentre in caso di violazione immediata è direttamente il provvedimento amministrativo a porsi in contrasto con la norma europea, la violazione mediata è invece data dalla legge attributiva del potere provvedimentale che eventualmente sia stata adottata pur in presenza di disposizione sovranazionale self executing.

La distinzione appare rilevante in ordine all’individuazione dei diversi rimedi giudiziali di invalidità europea dell’atto amministrativo; con specifico riferimento al secondo dei casi prospettati, infatti, la forma di tutela apprestata coinciderebbe con la disapplicazione della legge nazionale in contrasto con la norma europea, piuttosto che nell’impugnazione del provvedimento amministrativo per invalidità dello stesso.

Sul punto, si rileva l’esistenza di due orientamenti opposti.

Secondo l’opinione minoritaria, l’atto interno difforme dal diritto europeo dovrebbe essere disapplicato dal giudice ex officio, in ragione della preminenza di quest’ultimo nel nostro ordinamento, con la conseguenza che lo stesso sarebbe inefficace, ma non invalido.

Muovendo dalla contestazione che, in tal modo, si verrebbe a creare una disparità di trattamento tra le posizioni giuridiche soggettive di rilevanza europea e quelle di rilevanza interna, al contrario assoggettate alla regola dell’impugnazione, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono invece che, in caso di violazione del diritto europeo da parte di un atto legislativo o provvedimentale nazionale, comunque si applichino i rimedi ordinari previsti dagli articoli 21 septies e 21 octies della legge 241/90, ossia quelli della nullità e dell’annullabilità.

Peraltro, la previsione di un termine decadenziale entro cui esercitare l’azione di nullità è stata ritenuta conforme al principio di effettività dalla stessa Corte di Giustizia, la quale ha tuttavia specificato che tale termine non debba essere osservato laddove il suo mancato rispetto, da parte del privato, sia dipeso dal legittimo affidamento di questo in merito a un comportamento della stessa Pubblica Amministrazione.

La questione inerente all’invalidità dei provvedimenti amministrativi in contrasto col diritto europeo assume tratti peculiari in relazione al tema dell’intangibilità del giudicato.

Nel nostro ordinamento, la norma generale in tema di giudicato la si rinviene nel disposto di cui all’articolo 2909 c.c., per il quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa; secondo l’articolo 324 c.p.c., inoltre, una decisione giudiziale fa stato allorquando non sia più soggetta a mezzi di impugnazione.

Si è dunque posto il problema di chiarire quale debba essere la sorte dell’eventuale giudicato che, formatosi in conformità al diritto dell’Unione, successivamente si ponga con esso in contrasto per un’intervenuta pronuncia difforme della Corte di Giustizia che abbia diversamente interpretato la normativa interessante il caso di specie; è appena il caso di notare, infatti, che le sentenze del giudice europeo, in forza della loro appartenenza all’acquis communautaire, ricadono nell’alveo di operatività del principio del primato e, dunque, entrano nel nostro ordinamento quale parametro di legittimità rispetto alla disciplina nazionale.

Il tema del valore del giudicato nell’ottica europea è stato affrontato dalla Corte di Giustizia in plurime occasioni, tra le quali la sentenza Lucchini[3] del 2007 costituisce una sorta di leading case.

Nell’ambito della stessa, infatti, il giudice di Lussemburgo ha dichiarato la non conformità al diritto dell’Unione dell’articolo 2909 c.c. nella parte in cui la sua applicazione osti al recupero di una somma, erogata a titolo di aiuto di Stato a favore di un’impresa, la cui dazione sia poi stata dichiarata illegittima perché anti concorrenziale tramite decisione definitiva della Commissione europea.

Tale orientamento è stato in seguito mitigato in occasione della sentenza Olimpiclub[4] del 2009, allorquando la Corte di Giustizia ha precisato che quanto stabilito nella precedente decisione Lucchini traeva la sua pregnanza dalla specialità della materia afferente la disciplina degli aiuti di Stato, la quale è di esclusiva competenza della Commissione; in linea generale, è stato invece stabilito che il diritto dell’Unione non impone al giudice nazionale la disapplicazione della norma processuale interna che attribuisca valore di giudicato a un provvedimento giudiziale, nemmeno qualora la revisione di quest’ultimo sia utile a porre rimedio a una violazione della normativa europea.

Riguardo, più specificamente, alla materia amministrativa, già nella sentenza Kempter[5] del 2008 la Corte dell’Unione ha statuito che, a salvaguardia del principio di certezza del diritto, in caso di difformità al precetto europeo il giudice nazionale non è obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che abbia acquisito carattere definitivo a seguito dell’esaurimento dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento interno.

La regola dell’intangibilità del giudicato, scaturente dall’autonomia amministrativa spettante agli Stati membri, è stata da ultimo ribadita in sede europea con la decisione Pizzarotti[6] del 2014; in quella sede la Corte di Giustizia ha tuttavia aggiunto che, qualora la revisione di una sentenza definitiva sia consentita dal sistema processualistico nazionale attraverso la predisposizione di appositi mezzi, il giudice è tenuto a modificare la stessa al fine di ripristinare il corretto rapporto tra diritto interno e norma europea violata.

In ambito amministrativo, un simile strumento di revisione è stato da tempo identificato nel giudizio di ottemperanza, il quale, innovato con l’adozione del Codice del processo amministrativo, è oggi compiutamente disciplinato nel Libro IV del predetto codice. Tale tipologia di giudizio, espressione del principio di effettività della tutela sancito dall’articolo 24 della Costituzione, costituisce un rimedio posto a disposizione del privato che voglia ottenere, da parte dell’Amministrazione inadempiente, l’attuazione favorevole di una precedente sentenza di cognizione, e risponde altresì alla finalità di conformare l’attività amministrativa successiva al giudicato tenendo conto delle eventuali sopravvenienze, di fatto e di diritto, nel frattempo intervenute.

La natura polisemica di tale giudizio, ove possono coesistere azioni di tipo esecutivo e cognitivo, è riconosciuta dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[7], portando dottrina e giurisprudenza a parlare di “giudicato a formazione progressiva”; proprio quest’ultima caratteristica fa del giudizio di ottemperanza la sede ideale per l’eventuale riesame di una sentenza definitiva non conforme allo ius superveniens di origine europea.

Si noti, tuttavia, che quanto sopra esposto non è altresì valevole rispetto a ipotetici contrasti fra giudicato interno e pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Com’è noto, infatti, la CEDU, pur essendo integrata nel nostro ordinamento quale norma interposta, non gode però della stessa primazia del diritto dell’Unione; conseguenza di ciò è che, secondo quanto più volte affermato dalla Consulta[8], in caso di violazione delle norme convenzionali da parte di una decisione nazionale definitiva non sussiste l’obbligo di caducazione della stessa, né di revisione dell’eventuale provvedimento amministrativo a questa sotteso.

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, pare dunque possibile affermare che una concezione del principio di legalità basata esclusivamente sul predominio assiologico della legge dello Stato sia ormai non compatibile con la realtà giuridica attuale, ove l’influenza di fonti esterne all’ordinamento è tale da condizionare, seppure con certi limiti, persino la disciplina della validità dei provvedimenti amministrativi nazionali, nonché la stessa forza della res giudicata.

 


[1] Si veda Corte di Giustizia, Sentenza 15 luglio 1964, in causa 6/64, Flaminio Costa contro E.N.E.L., in Raccolta della giurisprudenza della Corte, 1964.
[2] Si veda Corte costituzionale, Sentenza 5 giugno 1984, numero 170, Granital S.p.a. contro Amministrazione delle Finanze dello Stato italiano, in Consulta OnLine.
[3] Si veda Corte di Giustizia, Sentenza 18 luglio 2007, in causa 119/05, Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato contro Lucchini S.p.a., in Raccolta della giurisprudenza della Corte, 2007.
[4] Si veda Corte di Giustizia, Sentenza 3 settembre 2009, in causa 2/08, Agenzia delle Entrate contro Fallimento Olimpiclub S.r.l., in Raccolta della giurisprudenza della Corte, 2009.
[5] Si veda Corte di Giustizia, Sentenza 12 febbraio 2008, in causa 2/06, Willy Kempter KG e Hauptzollamt Hamburg-Jonas, in Raccolta della giurisprudenza della Corte, 2008.
[6] Si veda Corte di Giustizia, Sentenza 10 luglio 2014, in causa 213/13, Impresa Pizzarotti &co S.p.a contro Comune di Bari e altri, in Raccolta della giurisprudenza della Corte, 2014.
[7] Si veda Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, Sentenza 15 gennaio 2013, n. 2, in www.eius.it
[8] Si veda, da ultimo, Corte costituzionale, Sentenza n. 123/2017, in Consulta Online.

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Irene Pellegrini

Classe 1992. Laureata in giurisprudenza all'Università degli studi di Siena con tesi in diritto dell'Unione europea, ha svolto il tirocinio formativo presso il Tribunale di Arezzo (sezioni fallimentare, civile, ufficio G.i.p. - G.u.p. e dibattimentale), nonché la pratica forense. Autrice della silloge poetica "Albe crepuscolari" (L'Erudita) e del saggio di diritto dell'Unione europea "Il primato del diritto dell'Unione europea negli ordinamenti nazionali: quo vadis?" (Europa edizioni).

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