L’Europa politica negli scenari economici della contemporaneità

L’Europa politica negli scenari economici della contemporaneità

Sommario
Capitolo IPolitica ed economia in Europa dalle Origini ai giorni nostriI.1.   L’Europa dopo la II^ guerra mondiale – I.2.   La ricostruzione economica dell’Europa – I.3.   La stabilità monetaria Europea – I.4.   La nascita dell’U.E.M. – I.5.   L’Unione Monetaria e l’Euro – I.6.   I Trattati Europei e il principio di sussidiarietà.
 Capitolo II, Lo sviluppo dell’economia in EuropaII.1.   La politica dell’Europa dopo il trattato di Lisbona – II.2.   La Banca Centrale Europea – II.3.   Indipendenza e politica dei tassi della BCE  – II.4.   Il controllo sul debito pubblico degli Stati membri – II.5.   L’attenzione dell’UE per le politiche economiche degli Stati membri – II.6.   Europa e crescita: come rilanciare lo sviluppo
Capitolo III, Rapporto tra politica ed economica in EuropaIII.1.   Democrazia e Sovranità in Europa – III.2.   Debito pubblico e Democrazia – III.3.   Dalla crisi economica alla crisi del diritto – III.4.   Il coraggio di una nuova Europa – III.5.   Dal nuovo feudalesimo a federalismo Europeo – III.6.  Verso il federalismo Europeo

Capitolo I – Politica ed economia in Europa dalle origini ai giorni nostri

I.1.  L’Europa dopo la seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale sancì la crisi definitiva della supremazia europea e l’emergere di due superpotenze, USA e URSS. Nasceva così un nuovo equilibrio internazionale di tipo bipolare.  Gli orrori della guerra colpirono profondamente l’opinione pubblica e spinsero le potenze vincitrici a cercare basi più stabili e regole nuove per i rapporti internazionali. Il maggior tentativo in tal senso consistette nella creazione dell’ONU (1945). La grande alleanza fra le potenze vincitrici aveva cominciato ad incrinarsi già prima della fine della guerra, in relazione al problema del futuro della Germania e al controllo dell’URSS sui Paesi dell’Europa orientale. Nel ’46-47 i contrasti fra le due superpotenze si accentuarono dando inizio a quella contrapposizione tra i due blocchi che fu definita “guerra fredda”. A tal proposito Wiston Churchill, primo ministro inglese, alla fine della seconda guerra mondiale tenne un discorso nel quale apparivano chiare le motivazioni per cui un’unione europea fosse basilare[1]. Tali motivazioni risiedevano sia in campo economico, poiché essa avrebbe favorito lo sviluppo delle economie dei paesi europei, sia in quello politico, abbassando il rischio di guerre e facendo in modo che un’Europa forte potesse svolgere un `opera di mediazione nella guerra fredda tra Usa e Russia. La maggiore tensione si ebbe nel 1948-1949, quando i sovietici chiusero gli accessi a Berlino: questa crisi si risolse nella nascita della Repubblica Federale tedesca (che inglobava le zone sotto il controllo di americani, inglesi e francesi), cui l’URSS rispose con la creazione della Repubblica democratica tedesca. L’Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord (NATO), istituita con il Trattato di Washington del 4 aprile 1949 e il Patto di Varsavia del 1955, in contrapposizione tra loro completarono la divisione dell’Europa in due blocchi, inizia ad avvertirsi l’esigenza di un’Europa unita.

I.2.  la ricostruzione economica dell’Europa

Sul piano economico, il problema della ricostruzione dell’Europa occidentale avvenne grazie ad un piano di aiuti economico-finanziari americani , c.d. “Piano Marshall”. Ai fini di un’efficiente utilizzazione degli stessi, ma anche per rafforzare la coesione degli Stati continentali nasce a Parigi il 16 aprile 1948 la prima organizzazione europea del dopoguerra, l’OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica) – trasformatasi nel 1961 in OCSE. Al di là del campo strettamente economico e di quello militare, il 5 maggio 1949 venne costituito, ad opera di 10 stati (Italia, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Danimarca, Regno Unito, Svezia, Norvegia) il Consiglio D’Europa (CdE) con sede a Strasburgo, un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati europei che si sentivano accomunati dagli ideali di democrazia e libertà[2]. Il C.d.E. come le altre organizzazioni nate in quel periodo non avevano il potere di emettere decisioni vincolanti per gli Stati membri. Con la Dichiarazione del 9 maggio 1950 dell’allora Ministro degli esteri francese, Robert Schuman, elaborata da Jean Monnet, nasce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Il piano Schuman divenne realtà il 18 aprile 1951 quando fu firmato il Trattato che istituiva la CECA al quale aderirono sei paesi: Italia, Francia, Germania, Olanda, Belgio e Lussemburgo. LA CECA fu un tale successo che, nell’arco di pochi anni, gli stessi sei paesi decisero di compiere un passo successivo, integrando altri settori delle proprie economie. Alcuni anni più tardi, anche a causa del fallimento dei più ambiziosi progetti di integrazione politica (Comunità Europea di Difesa e Comunità Politica Europea), si fece strada l’idea del funzionalismo economico, secondo cui si doveva procedere ad una integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di una unione economica. Il 25 marzo del 1957, Italia, Repubblica Federale Tedesca, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo firmarono a Roma il trattato con cui furono istituite la Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM) e la Comunità economica europea (CEE), con cui gli Stati membri si prefissero l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali fra loro esistenti per costituire un “mercato comune” . Dopo pochi anni dalla firma dei Trattati di Roma, il funzionalismo economico cominciò a mostrare i propri limiti, causati anche dall’ingresso di nuovi Paesi e dall’interesse della Comunità per nuove politiche di intervento. Il dibattito sui temi fondamentali dell’integrazione europea mise in evidenza, in particolare, due problemi fondamentali:

1) il difetto di legittimità democratica del processo decisionale comunitario (il c.d. gap o deficit democratico), che riproponeva la necessità di quella unione politica che non era stata realizzata;

2) la necessità di effettiva unione economica e monetaria.

Nel 1954 viene stipulata la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con la conseguente creazione di una Commissione Europea per i diritti europei e una Corte europea a cui ogni cittadino europeo potesse rivolgersi per vedere tutelati i propri diritti violati.

Il periodo 1958-1965 fu importante: vennero infatti gettate le basi per fare in modo che la CEE diventasse il motore per costruire e sviluppare l’Europa unita. In questo periodo furono attivate iniziative in campo economico, sociale e commerciale che miravano a rinforzare la solidarietà e le azioni comuni fra gli Stati europei. Nel 1967 avviene la fusione delle tre Comunità Europee, CECA-CEE-EURATOM, con la conseguenza che da questo momento ci sono una Commissione, un Consiglio dei Ministri, un Parlamento Europeo ed una Corte di Giustizia che operano per tutti i paesi che fanno parte dell’UE[3].

I.3.   La stabilità monetaria Europea

Le politiche europee al fine di permettere una maggiore stabilità monetaria europea  convergono nella creazione dello SME, il Sistema Monetario Europeo, con il quale si rendono molto più stabili i rapporti di cambio tra le monete dei diversi paesi europei.  La CEE divenne ben presto la più importante delle tre: i trattati successivi le aggiungeranno svariate competenze che esulano dalla materia economica, mentre le altre due comunità rimarranno sempre limitate. Dal 2002 la CECA ha cessato di esistere e le sue competenze sono state trasferite alla CE.

L’integrazione economica e politica tra gli Stati membri dell’Unione europea comporta l’obbligo per questi paesi di prendere decisioni congiunte su molte questioni[4]. Essi hanno pertanto elaborato politiche comuni in molteplici settori: dall’agricoltura alla cultura, dalla tutela dei consumatori alla concorrenza, dall’ambiente ed energia ai trasporti e agli scambi. Inizialmente l’accento era posto su una politica commerciale comune per il carbone e l’acciaio e su una politica agricola comune. Col passare del tempo e col presentarsi dell’esigenza si sono aggiunte nuove politiche. Alcuni dei principali obiettivi strategici sono cambiati alla luce delle mutate circostanze: ad esempio, l’obiettivo della politica agricola non consisteva  più nel produrre la maggior quantità di alimenti ai prezzi più convenienti, bensì nel sostenere sistemi agricoli che garantissero la produzione di alimenti sani e di alta qualità nonché la tutela dell’ambiente. La necessità di tutelare l’ambiente è ora presente nell’ambito di tutte le politiche comunitarie.

Anche le relazioni dell’Unione europea con il resto del mondo sono diventate molto importanti. L’UE conduce negoziati in materia di importanti scambi commerciali e di accordi di assistenza con altri paesi e sta inoltre sviluppando una politica estera e di sicurezza comune.

C’è voluto del tempo prima che gli Stati membri rimuovessero tutte le barriere commerciali esistenti e trasformassero il loro “mercato comune” in un vero e proprio mercato unico in cui venisse garantita la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Il mercato unico è stato formalmente completato alla fine del 1992, nonostante in alcuni settori i lavori non siano ancora ultimati: si pensi, ad esempio, alla creazione di un effettivo mercato unico dei servizi finanziari.

Durante gli anni ’90 è diventato sempre più facile per le persone circolare liberamente in Europa, grazie all’abolizione dei controlli doganali e dei passaporti presso la maggior parte delle frontiere interne dell’UE. Ciò ha significato, tra l’altro, una maggiore mobilità per i cittadini dell’Unione.

Nel 1992 l’UE ha deciso di istituire l’Unione Economica e Monetaria (UEM), implicante l’introduzione di una moneta unica europea gestita da una Banca centrale europea. La moneta unica – l’euro – è divenuta realtà il 1° gennaio 2002, quando banconote e monete in euro hanno sostituito le valute nazionali in dodici dei 15 paesi dell’Unione europea (Belgio, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Portogallo e Finlandia). La creazione dell’UEM rappresenta infatti uno degli esiti più riusciti dell’integrazione europea e probabilmente il più importante conseguito finora; tuttavia,  l’inizio del percorso potrebbe risalire al 1989, quando il Consiglio europeo decise di avviare il processo di realizzazione dell’UEM entro la fine del secolo. I padri fondatori dell’Europa, che negoziarono i Trattati di Roma negli anni cinquanta, non si soffermarono sull’idea di una moneta comune. Gli obiettivi iniziali della Comunità economica europea (CEE) erano infatti sostanzialmente limitati alla realizzazione di un’unione doganale e di un mercato agricolo comune, che non si riteneva presupponessero l’integrazione monetaria. Inoltre, all’epoca tutti i paesi della CEE partecipavano a un sistema monetario internazionale (il sistema di Bretton Woods) che funzionava sufficientemente bene e nel cui ambito i tassi di cambio, fissi ma aggiustabili, si mantennero relativamente stabili fino alla metà degli anni sessanta, sia all’interno della CEE sia a livello mondiale. L’idea di una moneta comune per gli Stati membri della CEE emerse per la prima volta nel memorandum della Commissione europea del 24 ottobre 1962 (Memorandum Marjolin), che sollecitava il passaggio dall’unione doganale a un’unione economica entro la fine degli anni sessanta con la fissazione irrevocabile dei tassi di cambio tra le monete degli Stati membri. Tuttavia, poiché il sistema di Bretton Woods assicurava la stabilità generale dei cambi, gli Stati membri ritennero che quest’ultima potesse essere preservata all’interno della CEE senza ricorrere a nuovi dispositivi istituzionali su scala comunitaria. In seguito al memorandum non furono pertanto adottati ulteriori provvedimenti, ad eccezione dell’istituzione, nel 1964, di un Comitato dei governatori delle banche centrali degli Stati membri della CEE (Comitato dei governatori), che si affiancò al Comitato monetario creato in applicazione dell’articolo 105, paragrafo 2, del Trattato CEE. In un primo tempo il Comitato dei governatori aveva un mandato assai limitato, ma nel corso degli anni acquisì gradualmente maggiore rilevanza, ponendosi al centro della cooperazione monetaria tra le banche centrali della Comunità. In virtù di questo ruolo, elaborò e gestì il quadro di riferimento per la cooperazione monetaria che fu successivamente istituito a livello comunitario. I lavori del Comitato contribuirono anche a compiere l’ultimo passo verso l’UEM. Alla fine degli anni sessanta il contesto internazionale era notevolmente mutato. Il sistema di Bretton Woods mostrava crescenti segnali di tensione a causa della politica di bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti.

Nel 1969 la Commissione europea presentò il Piano Barre, teso a creare un’identità monetaria distinta nella Comunità. Sulla base di quest’ultimo, i capi di Stato o di governo riuniti all’Aia invitarono il Consiglio dei ministri a elaborare un programma per la realizzazione, in varie fasi, di un’unione economica e monetaria. I lavori, svolti da un gruppo di esperti presieduto da Pierre Werner, all’epoca Primo ministro del Lussemburgo, sfociarono nella pubblicazione del Rapporto Werner nel 1970; questo documento proponeva la realizzazione di un’unione economica e monetaria in diverse tappe da completare entro il 1980.

Nel marzo 1971 gli Stati membri decisero l’istituzione di un’unione economica e monetaria. Nell’ambito della Prima fase fu introdotto un sistema comunitario per il progressivo assottigliamento dei margini di oscillazione delle valute dei paesi partecipanti. Nel 1973 fu creato il Fondo europeo di cooperazione monetaria (Fecom), che avrebbe costituito il nucleo della futura organizzazione delle banche centrali a livello comunitario. Inoltre, al fine di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche, nel 1974 il Consiglio adottò una decisione sulla realizzazione di un alto grado di convergenza nella Comunità e una direttiva in materia di stabilità, crescita economica e piena occupazione. Tuttavia, a metà degli anni settanta il processo di integrazione aveva perso slancio a causa delle risposte politiche divergenti agli shock economici di quel periodo[5].

Nel marzo 1979 fu rilanciato il processo di integrazione monetaria con l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME) in applicazione di una risoluzione del Consiglio europeo; le sue procedure operative furono stabilite in un accordo concluso tra le banche centrali partecipanti. Lo SME favorì il progresso dell’integrazione monetaria europea, tuttavia non costituiva un semplice meccanismo di cambio. In linea con il suo obiettivo di promuovere la stabilità monetaria interna ed esterna, mirava anche all’adeguamento delle politiche economiche e monetarie in quanto strumenti per il conseguimento della stabilità dei cambi.

Un nuovo stimolo al perseguimento dell’unione economica e monetaria derivò dall’adozione dell’Atto unico europeo (AUE), firmato nel febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987. L’Atto era principalmente teso all’introduzione del mercato unico come ulteriore obiettivo della Comunità, alla necessaria modifica dei processi decisionali per il completamento di quest’ultimo e alla riaffermazione dell’esigenza della capacità monetaria della Comunità per conseguire l’unione economica e monetaria. Sebbene lo SME fosse divenuto il fulcro di un migliore coordinamento delle politiche monetarie, ebbe un successo piuttosto limitato nell’assicurare una maggiore convergenza delle politiche economiche. Vi era un consenso crescente tra i responsabili delle politiche economiche riguardo al fatto che un mercato senza frontiere interne avrebbe instaurato un legame molto più stretto tra le economie nazionali, intensificando significativamente il grado di integrazione economica all’interno della Comunità. In tal modo, il margine di manovra delle politiche nazionali si sarebbe ridotto, obbligando gli Stati membri a rafforzare la convergenza delle proprie politiche economiche. In mancanza di una maggiore convergenza, ci si attendeva che il pieno conseguimento della libera circolazione dei capitali e l’integrazione dei mercati finanziari esercitassero una pressione inopportuna sulla politica monetaria.

Il processo di integrazione avrebbe pertanto richiesto un coordinamento più intenso ed efficace delle politiche, per il quale l’assetto istituzionale vigente veniva percepito come insufficiente. Inoltre, il mercato unico non era ritenuto in grado di sfruttare appieno il suo potenziale in assenza di una moneta unica. Quest’ultima avrebbe assicurato una maggiore trasparenza dei prezzi per i consumatori e gli investitori, avrebbe eliminato i rischi di cambio all’interno del mercato unico, avrebbe ridotto i costi di transazione e, di conseguenza, avrebbe significativamente accresciuto il benessere economico nella Comunità. Alla luce di queste considerazioni, nel 1988 gli allora dodici Stati membri della Comunità economica europea decisero di rilanciare il progetto dell’Unione economica e monetaria.

I.4.   La nascita dell’U.E.M.

Laddove il Piano Werner aveva fallito all’inizio degli anni settanta, il secondo tentativo di creare l’UEM si sarebbe rivelato un successo, consentendo di realizzare il sogno della moneta unica. Il processo si concluse con il Trattato sull’Unione europea (Trattato UE, anche noto come “Trattato di Maastricht”), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, che istituì l’Unione europea e modificò i trattati alla base delle Comunità europee. La nascita dell’UEM era sempre più vicina, le varie fasi per un unione europea vera e propria erano in atto e nel dicembre 1995 il Consiglio europeo di Madrid denominò “euro” la moneta unica che sarebbe stata introdotta e preannunciò una sequenza di iniziative in vista della sua adozione. In questo contesto, l’IME raccomandava un periodo transitorio di tre anni, a partire dal 1° gennaio 1999, per  tenere conto del diverso ritmo con il quale i vari gruppi di operatori economici (ad esempio il settore finanziario, il settore delle società non finanziarie, il settore pubblico e il pubblico in generale) sarebbero stati in grado di adeguarsi alla moneta unica. Nel dicembre 1995 all’IME fu anche affidato il compito di predisporre le future relazioni monetarie e di cambio tra l’euro e le valute dei paesi dell’UE non partecipanti all’area dell’euro.

Per integrare le disposizioni del Trattato, nel giugno 1997 il Consiglio europeo adottò il Patto di stabilità e crescita, teso ad assicurare la disciplina di bilancio nell’ambito dell’UEM. Il Patto è costituito da tre strumenti: una risoluzione del Consiglio europeo e due regolamenti del Consiglio. Una dichiarazione del Consiglio del maggio 1998 ha quindi completato il Patto e ne ha ampliato gli impegni. Il 25 maggio 1998 i governi degli allora undici Stati membri aderenti, rappresentati dai capi di Stato o di governo, nominarono formalmente, di comune accordo, il Presidente, il Vicepresidente e gli altri quattro membri del Comitato esecutivo della BCE. In conformità dell’articolo 50 dello Statuto del SEBC, la nomina fu effettuata sulla base di una raccomandazione del Consiglio Ecofin e dei pareri del Parlamento europeo e del Consiglio dell’IME (che faceva le veci del futuro Consiglio direttivo della BCE). La nomina dei sei membri del Comitato esecutivo ebbe effetto dal 1° giugno 1998, data di istituzione della BCE. In questo modo, l’IME concluse il suo mandato e fu posto in liquidazione in conformità dell’articolo 123, paragrafo 2, del Trattato CE. Quale liquidatore dell’IME, la BCE non soltanto beneficiò dei consistenti lavori preparatori che erano stati svolti, ma ereditò anche l’intera infrastruttura dell’IME, incluso un organico pronto a esercitare le proprie mansioni presso la BCE.

I.5.   L’Unione monetaria e l’Euro

Il 1° gennaio 1999 ebbe inizio la fissazione irrevocabile dei tassi di conversione delle valute dei primi undici Stati membri partecipanti all’unione monetaria e la conduzione della politica monetaria unica nell’area dell’euro sotto la responsabilità della BCE. In linea con il quadro giuridico stabilito dal Consiglio dell’UE nella legislazione comunitaria secondaria, la moneta unica sostituì immediatamente le valute nazionali, che divennero suddivisioni non decimali dell’euro durante il periodo transitorio compreso tra il 1° gennaio 1999 e il 31 dicembre 2001. Per i primi tre anni tutti gli operatori economici furono liberi di utilizzare l’euro o le sue suddivisioni nazionali per denominare crediti e debiti e per effettuare pagamenti con strumenti alternativi al contante. Il settore delle imprese passò progressivamente all’euro durante il periodo di transizione[6]; al contrario, i singoli cittadini – in assenza di contante denominato in euro – non fecero inizialmente un ampio ricorso alla moneta unica per eseguire operazioni.

La situazione sarebbe naturalmente mutata con l’introduzione delle banconote e monete in euro il 1° gennaio 2002. L’introduzione dell’euro fu completata con la sostituzione del contante il 1° gennaio 2002: le banconote e le monete in euro furono immesse in circolazione e venne meno la funzione residua delle valute nazionali quali suddivisioni non decimali dell’euro. Il contante denominato nelle vecchie valute cessò di avere corso legale entro la fine di febbraio 2002 e, da quel momento, i biglietti e le monete in euro furono gli unici aventi corso legale nei paesi dell’area.

I.6.   I trattati Europei e l’introduzione del principio di sussidiarietà

Il precedente Trattato di Maastricht del 1992 dal punto di vista politico-economico oltre ad istituire la cittadinanza europea, introduce il fondamentale “principio di sussidiarietà”  che permette l’incidenza dell’Unione Europea nelle materie che non sono di sua esclusiva competenza solo nel caso in cui gli Stati non siano da soli in grado di realizzare gli obbiettivi proposti, cambiando la denominazione della Comunità economica europea in “Comunità europea”. Ha inoltre introdotto nuove forme di cooperazione tra i governi degli Stati membri, ad esempio nel settore della difesa e in quello della “giustizia e affari interni”. Aggiungendo questa cooperazione intergovernativa al sistema già esistente della “Comunità”, il trattato di Maastricht ha creato una nuova struttura a tre “pilastri”, che è sia politica sia economica: si tratta dell’Unione europea (UE), con un primo pilastro formato dalla Comunità Europea e da ciò’ che era rimasto della CECA e dell’ Euratom, un secondo competente per la Politica Estera e la Sicurezza comune (PESC) e un terzo per la Cooperazione Giudiziaria e di Polizia in materia Penale (GAI).

Il successivo trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1º maggio 1999 ha ampliato le competenze dell’Unione: ha istituito una politica comunitaria in materia di occupazione, reso comuni  una parte delle materie che prima facevano parte della cooperazione  nel campo della giustizia e degli affari interni, adottato misure destinate ad avvicinare l’Unione ai cittadini e reso possibile una cooperazione più stretta tra taluni Stati membri (cooperazione rafforzata). Esso ha, inoltre, esteso la procedura di codecisione  e i casi di voto a maggioranza qualificata, e semplificato e rinumerato gli articoli dei trattati.

Il trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 ed entrato in vigore il 1º febbraio 2003, si è occupato fondamentalmente dei “vuoti” lasciati dal trattato di Amsterdam, ossia delle riforme istituzionali necessarie per garantire il buon funzionamento delle istituzioni una volta effettuato l’allargamento per diventare l’Unione a 25 (la composizione della Commissione, la ponderazione dei voti in sede di Consiglio e l’ampliamento dei casi di a maggioranza qualificata). Esso ha semplificato il ricorso alla procedura di cooperazione rafforzata e reso più efficace il sistema giurisdizionale, Il trattato di Nizza, il precedente trattato sull’Unione europea ed il trattato che istituisce la Comunità europea sono stati unificati in una versione consolidata.

Il Trattato di Lisbona (noto anche come Trattato di riforma) è il trattato redatto per sostituire il “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, che era stato firmato a Roma, il 29 ottobre 2004, dai capi di Stato o di governo degli allora 25 Stati membri e degli allora 3 paesi candidati Bulgaria, Romania e Turchia.

Lo scopo della Costituzione europea (mai entrata in vigore a causa dello stop alle ratifiche imposto dai “no” ai referendum in Francia e nei Paesi Bassi), oltre a quello di sostituire i diversi trattati esistenti, che al momento costituivano la base giuridica dell’Unione europea, era principalmente quello di dare all’UE un assetto politico chiaro riguardo alle sue istituzioni, alle sue competenze, alle modalità decisionali, alla politica estera. Quasi tutte le innovazioni della Costituzione sono però state incluse nel Trattato di Lisbona la cui elaborazione, inseritasi all’interno della fase di rilancio del progetto europeo, avviata per porre fine all’ impasse politico–istituzionale determinata dalla “bocciatura della Costituzione”, è stata frutto dei negoziati condotti dagli Stati membri all’interno di una conferenza intergovernativa, ai cui lavori hanno partecipato anche la Commissione e il Parlamento europeo. Il trattato,  firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, è entrato in vigore il 1° dicembre 2009, in seguito ai processi di ratifica condotti all’interno di ciascuno dei 27 paesi dell’UE. Il Trattato di Lisbona, che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, senza tuttavia sostituirli, dota l’Unione del quadro giuridico e degli strumenti necessari per far fronte alle sfide del futuro e rispondere alle aspettative dei cittadini.

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Capitolo II – Lo sviluppo dell’economia in Europa

II.1.   la nuova politica europea dopo il trattato di Lisbona

Come già accennato nel precedente capitolo, dopo oltre 50 anni di iniziative, più o meno andate a buon fine, è solo con la sottoscrizione del Trattato di Lisbona che si pongono le basi reali per la realizzazione di una Europa istituzionalmente unità.

Infatti, in generale, il nuovo trattato mira a rendere l’UE più efficiente e trasparente, rafforzandone la legittimità democratica  e consolidando i valori fondamentali che ne sono alla base. In tale ottica, i capi di Stato e di governo hanno convenuto nuove regole che disciplinano la portata e le modalità della futura azione dell’Unione, consentendo di adeguare le istituzioni europee e i loro metodi di lavoro al funzionamento di un’Unione europea recentemente passata a 27 Stati membri e alle nuove sfide globali con cui l’Europa del XXI secolo deve misurarsi, quali il cambiamento climatico, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile.

Il Trattato di Lisbona rafforza i poteri del Parlamento europeo, ponendo fine a quasi un decennio di discussioni interne. In qualità di unica istituzione dell’Ue eletta a suffragio universale diretto, il Parlamento si vede attribuire maggiori competenze e nuovi strumenti che lo rendono ancora più responsabile dinanzi ai cittadini europei. La «co-decisione», ad esempio, diventa procedura legislativa ordinaria e viene estesa da 44 a 85 nuovi campi, tra i quali troviamo l’agricoltura, la pesca, i trasporti e i fondi strutturali, oltre all’attuale “terzo pilastro” di giustizia e affari interni nel suo insieme. Tale procedura pone il Parlamento europeo sullo stesso livello del Consiglio dell’Ue, rafforzandone quindi il potere legislativo. Il Parlamento europeo  ottiene, così, anche un ruolo maggiore nella definizione del bilancio comunitario. Viene confermata la figura del Presidente del Consiglio Europeo non più a rotazione e per un mandato semestrale ma con elezione a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta; vengono meglio delimitate le competenze dell’UE e degli Stati membri, esplicitando che il “travaso di sovranità” può avvenire sia in un senso (dai Paesi all’UE, come è sempre avvenuto) che nell’altro (dall’UE ai Paesi);  viene sancito il nuovo metodo decisionale della “doppia maggioranza”,  che entrerà in vigore nel 2014 e, a pieno regime, nel 2017, per cui sarà’ necessario per l’approvazione il  voto del 55% degli stati membri e del 65% della popolazione europea.

Tra le novità più significative introdotte dal nuovo trattato vi è la possibilità, offerta ai cittadini, di far sentire maggiormente la loro voce, grazie alla una nuova forma di partecipazione popolare alle decisioni politiche dell’Unione europea: l’Iniziativa dei cittadini. Come richiesto dal trattato, su proposta della Commissione europea, il 16 febbraio 2011 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato un regolamento che definisce le norme e le procedure che disciplinano questo nuovo strumento. Il regolamento consente ad 1 milione di cittadini di almeno un quarto degli Stati membri dell’UE di invitare la Commissione europea a proporre atti legislativi in settori di sua competenza. Gli organizzatori di un’iniziativa, dopo aver costituito un comitato composto da almeno 7 cittadini dell’UE residenti in almeno 7 diversi Stati membri, hanno 1 anno di tempo per raccogliere le dichiarazioni di sostegno necessarie. Il numero delle dichiarazioni di sostegno deve essere certificato dalle autorità competenti degli Stati membri. La Commissione ha quindi a disposizione 3 mesi per esaminare l’iniziativa e decidere cosa fare.

II.2.   La Banca Centrale Europea

Lo sviluppo dell’Unione Europea,  passato attraverso innumerevoli tappe sia da un punto di vista politico che economico, sta ora incidendo all’interno della popolazione europea anche attraverso un organo al quale vengono attribuite molte delle colpe e forse si attribuiranno molte delle soluzioni della situazione economica europea attuale, la Banca Centrale Europea.

La Banca centrale europea (BCE o ECB – European Central Bank – in lingua inglese ) è  la Banca Centrale incaricata dell’attuazione della politica monetaria per i diciassette paesi dell’Unione Europea che hanno aderito all’Euro e che formano la cosiddetta ” Zona Euro” o “area dell’euro”. La BCE è stata istituita in base al Trattato sull’Unione europea e allo “statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea”, il 1º giugno 1998; mentre ha iniziato ad essere funzionale dal 1º gennaio  1999, quando tutte le funzioni di politica monetaria e del tasso di cambio delle allora undici banche centrali nazionali sono state trasferite alla BCE. Nella stessa data sono stati sanciti irrevocabilmente i tassi di conversione delle monete nazionali rispetto all’euro.

Ai sensi del diritto pubblico internazionale, la Banca ha propria personalità giuridica autonoma,  può emanare decisioni e formulare raccomandazioni e pareri non vincolanti. Deve inoltre essere consultata dalle altre istituzioni dell’Unione per progetti di modifica dei trattati che riguardino il settore monetario, oltre che per ogni atto dell’Unione riguardante materie di sua competenza.

Scopo principale della Banca centrale europea è quello di mantenere sotto controllo l’andamento dei prezzi mantenendo il potere d’acquisto nell’area dell’euro. La BCE esercita, infatti, il controllo dell’inflazione nell'”area dell’euro” badando a contenere, tramite opportune politiche monetarie (controllando la base  monetaria o fissando i tassi di interesse a breve), il tasso di inflazione di medio periodo a un livello inferiore (ma tuttavia prossimo) al 2%.

Il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) comprende, a norma dell’articolo 106 del Trattato sull’Unione europea (il Trattato di Maastricht), la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali dei 27 stati membri dell’Unione europea, a prescindere dall’adozione della moneta unica; solo i governatori delle banche nazionali dei paesi appartenenti all'”eurozona”, però, prendono parte al processo decisionale e attuativo della politica monetaria della BCE: il cosiddetto eurosistema è infatti composto dalla BCE e dalle banche centrali nazionali dei paesi che hanno introdotto la moneta unica. Le banche centrali nazionali dei paesi al di fuori della “zona euro” sono invece abilitate a condurre una politica monetaria nazionale autonoma. Fintanto che vi saranno stati membri dell’Unione europea non appartenenti all'”area dell’euro” vi sarà l’inevitabile coesistenza tra eurosistema  e SEBC [7].

Secondo l’articolo 105, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, oltre all’obiettivo principale del mantenimento della stabilità dei prezzi il SEBC “sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità” agendo “in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

Tale obiettivo si intende raggiungere mediante: uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità;  una crescita sostenibile, non inflazionistica, che rispetti l’ambiente; il raggiungimento e il mantenimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale; la coesione economica e sociale; la solidarietà tra stati membri; definire e attuare la politica monetaria per l’area dell’euro; svolgere le operazioni sui cambi; detenere e gestire le riserve ufficiali dei paesi dell’area dell’euro; promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento; ha inoltre il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’area dell’euro.

Il processo decisionale all’interno dell’eurosistema è centralizzato a livello degli organi direttivi della BCE; l’organizzazione della BCE, basata su quella della Bundesbank tedesca, prevede che tali organi direttivi siano costituiti (articolo 109a del Trattato) da un Comitato esecutivo, a cui capo siede il Presidente della BCE (il Governatore), e dal Consiglio dei governatori (detto anche Consiglio direttivo),  costituito dai membri del Comitato esecutivo e dai rappresentanti delle altre banche appartenenti all’Eurosistema (con l’esclusione quindi dei rappresentanti delle Banche centrali dei paesi non aderenti all’euro). Dal momento che alcuni dei paesi appartenenti all’UE non hanno ancora aderito alla moneta unica, esiste, dunque, un terzo organo decisionale, il Consiglio generale.

Le principali funzioni del Consiglio dei governatori consistono nel definire l’orientamento generale della politica della banca e prendere le decisioni necessarie al raggiungimento degli obiettivi conferiti all’Eurosistema e definire la politica monetaria dell’area dell’euro compresi gli obiettivi monetari intermedi. Il Comitato esecutivo comprende il presidente e il vicepresidente della BCE e quattro altri membri, tutti scelti tra personalità aventi autorità ed esperienza professionale riconosciute in materia monetaria o bancaria, nominati d Consiglio europeo che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea sentito il parere del Parlamento europeo e del Consiglio dei governatori della BCE. Le funzioni principali del Comitato esecutivo comprendono: l’attuazione della politica monetaria conformemente agli orientamenti e alle decisioni del Consiglio dei governatori e, nell’ambito di tale quadro, impartire alle Banche centrali nazionali le necessarie istruzioni; l’esercizio dei poteri delegati da parte del Consiglio dei governatori; la gestione corrente della BCE.

Il Consiglio generale è composto dal presidente e dal vicepresidente della BCE e dai governatori delle BCN dei 27 paesi membri dell’UE (possono partecipare alle riunioni del Consiglio generale, ma senza diritto di voto, gli altri membri del Comitato esecutivo della BCE, il Presidente del Consiglio dell’Unione europea e un membro della Commissione europea).  Il Consiglio generale è un organo di transizione dal momento che, a norma dello “statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea”, viene sciolto nel momento in cui tutti gli stati membri dell’UE hanno introdotto la moneta unica. Il Consiglio generale svolge i compiti in precedenza affidati all’Istituto Monetario Europeo, e assunti dalla BCE nella Terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM). Il Consiglio generale si occupa, tra l’altro, dei seguenti compiti: assolvere le funzioni consultive della BCE; raccogliere le informazioni statistiche; redigere il Rapporto annuale della BCE; redigere le disposizioni per l’uniformazione delle procedure contabili delle Banche centrali nazionali.

II.3.   Indipendenza e politica dei tassi della BCE

La BCE viene criticata, principalmente, sotto due aspetti: quello dell’indipendenza e quello della politica dei tassi.

Oltre a tali due aspetti principali, ulteriori critiche sono rivolte alla BCE con riguardo al linguaggio adottato dalla banca sul proprio sito istituzionale: un tipo di linguaggio che non rispecchierebbe quello degli stati membri di modo tale che la maggior parte della popolazione che utilizza l’Euro non può avere accesso in maniera facilmente comprensibile alle informazioni riguardanti l’utilizzo quotidiano della propria valuta, ovvero può avere un accesso molto limitato a informazioni di poca utilità.

Come sopra accennato, il primo aspetto per il quale la BCE viene criticata è l’assoluta indipendenza dell’istituzione: la BCE è, infatti, nata come una banca centrale, pensata per operare in maniera indipendente dalla politica. Sebbene i suoi poteri e obiettivi derivino da decisioni politiche dell’Unione europea e dei paesi membri della stessa, le decisioni su come tali poteri debbano essere utilizzati e sul come raggiungere gli obiettivi prefissati sono state, infatti, direttamente delegate alla BCE stessa. Alcuni ritengono non democratica tale indipendenza decisionale e criticano, di conseguenza, il processo decisionale e gli obiettivi della BCE, asserendo sia che gli obiettivi economici della stessa sono troppo lontani da quelli dei cittadini dell’Unione sia che la politica monetaria della banca è troppo impermeabile a eventuali critiche, anche quando queste dovessero riguardare l’influenza di tale politica della BCE su aspetti fondamentali quali il rispetto dei diritti umani e l’ambiente. Come conseguenza di ciò si sottolinea come i cittadini dell’Unione europea possono influenzare le decisioni della Banca Centrale Europea solo in maniera del tutto indiretta tramite il processo elettorale in ciascuno degli stati membri: anche così, però, l’influenza sulla concreta politica operativa della BCE esercitabile da parte dei cittadini europei è di rilevanza assai modesta. Di fatto la BCE è totalmente indipendente nell’esercizio delle sue funzioni e non può, al pari delle banche centrali nazionali del SEBC e dei membri dei rispettivi organi decisionali, sollecitare o accettare istruzioni da organismi esterni. Le istituzioni dell’UE e i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio evitando di influenzare la BCE o le banche centrali nazionali. Di contro è pur vero che la BCE rimane responsabile delle proprie decisioni sia nei confronti del Parlamento europeo che del Consiglio dei ministri: come già indicato le nomine del presidente, del vicepresidente e degli altri membri del Comitato esecutivo della BCE devono infatti essere approvate da Consiglio e Parlamento prima di diventare effettive e, inoltre, la BCE deve presentare una relazione annuale del proprio operato di fronte al parlamento riunito in seduta plenaria mentre sia il proprio presidente che membri del Comitato esecutivo partecipano alle riunioni (che sono almeno quattro all’anno) del “Comitato parlamentare per gli affari monetari”. Inoltre è da aggiungere che l’orientamento generale dagli economisti è a favore dell’indipendenza dell’istituto di emissione centrale, ritenendolo come una caratteristica fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo primario della Politica monetaria: la stabilità dei prezzi.

È stato storicamente accertato, infatti, che i paesi caratterizzati da elevata inflazione erano quelli i cui organi politici erano intervenuti in maniera eccessiva nel processo di creazione della moneta.

I critici affermano che gli obiettivi fissati e perseguiti dalla BCE siano inappropriati. Essi sostengono che la Banca fisserebbe i tassi d’interesse con il solo obiettivo di controllare l’inflazione senza prenderne in considerazione altri, quali il raggiungimento del tasso di disoccupazione naturale o frizionale o la stabilità dei tassi di cambio. Per essi, il tasso di inflazione sarebbe un obiettivo troppo limitato in relazione alle reali necessità dell’economia. Coloro che sono a favore, invece, dichiarano che la Banca centrale ha fissato l’unico obiettivo che può essere ragionevolmente raggiunto con gli strumenti che le sono stati affidati: la stabilità dei prezzi. L’obiettivo del pieno impiego deve essere raggiunto attraverso altri strumenti che appartengono al campo della politica fiscale. La stabilità del cambio, invece, avrebbe bisogno di un intervento comune di governi e di Banca centrale e porrebbe dei rischi per il rispetto dell’obiettivo primario.

II.4.  Il controllo sul debito pubblico degli Stati membri

La maggioranza degli Stati membri dell’Unione europea partecipa all’unione economica e monetaria, basata sulla moneta unica, l’euro, ma la maggior parte delle decisioni riguardanti le tasse e la spesa pubblica rimane di competenza dei governi nazionali. Il controllo sulla politica fiscale è tradizionalmente considerato centrale per la sovranità nazionale e oggi, sostanzialmente, non esiste un’unione fiscale tra stati indipendenti.

Tuttavia l’UE ha dei poteri limitati in campo fiscale, relativi alla determinazione dell’aliquota IVA e delle tariffe del commercio estero e alla determinazione di un bilancio annuale di vari miliardi di euro. Proprio allo scopo di coordinare le politiche fiscali degli stati membri della zona euro si è adottato il c.d. Patto di stabilità e crescita. Una maggiore integrazione in tema di politiche fiscali, almeno tra i paesi della zona euro è stata ritenuta da molti il prossimo passo dell’integrazione europea e la necessaria soluzione per superare la crisi del debito sovrano. Assieme all’Unione economica e monetaria quella fiscale porterebbe ad una maggiore integrazione economica.

Già nell’anno 1997, infatti, i paesi membri dell’Unione Europea stipularono e sottoscrissero il Patto di stabilità e crescita (PSC), detto anche “Trattato di Amsterdam”, inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubblico, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione Economica e Monetaria europea (Eurozona) cioè rafforzare il percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht .

Esso si richiamava agli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea (così come modificato con il Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona) e si attuava attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché un particolare tipo di procedura di infrazione, la Procedura per Deficit Eccessivo (PDE), che ne costituisce il principale strumento. Come si legge nella relazione pubblicata sul sito della Commissione, infatti, «Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) è la concreta risposta dell’UE alle preoccupazioni circa la continuità nel rigore di bilancio nell’Unione Economica e Monetaria (UEM). Stipulato nel 1997, il PSC ha rafforzato le disposizioni sulla disciplina fiscale nella UEM di cui agli articoli 99 e 104, ed è entrato in vigore con l’adozione dell’euro, il 1º gennaio 1999».

Fin dall’inizio e da più parti si era sottolineata l’eccessiva rigidità del Patto e la necessità di applicarlo considerando l’intero ciclo economico e non un singolo bilancio di esercizio, anche in considerazione dei rischi involutivi derivanti dalla politica degli investimenti troppo limitata che esso comportava.

In passato anche l’allora Presidente della Commissione, Romano Prodi, definì il Patto “inattuabile” per la sua rigidità, sebbene ritenesse comunque  necessario, sulla base del Trattato, cercare di continuare ad applicarlo.

Molti critici affermano, poi, che il Patto di Stabilità e Crescita non promuoverebbe né la crescita né la stabilità, dal momento che finora esso era stato applicato in modo incoerente, come dimostrato, ad esempio, dal fatto che il Consiglio non era riuscito ad applicare le sanzioni in esso previste contro la Francia e la Germania, malgrado ne sussistessero i presupposti.

In effetti, considerato anche che, come stabilito dalla Corte di Giustizia Europea nel 2004, la PDE ( procedura deficit eccessivo ) richiamata dal Patto non era obbligatoria, era apparso evidente quanto fosse difficile far valere i vincoli del PSC nei confronti dei “grandi” dell’Unione che, tra l’altro, ne furono gli stessi promotori. Invero, taluni paesi registrano da anni deficit “eccessivi” secondo la definizione del Patto, ma ciò nonostante, malgrado gli avvertimenti e le raccomandazioni ricevute, non si sono poi visti applicare alcuna sanzione.

Nel marzo 2005, quindi, in risposta alle crescenti perplessità, l’Ecofin decise di ammorbidirne le norme per renderlo più flessibile. Decisione richiamata e ribadita dall’asse franco-tedesco nel 2008 per far fronte alla gravissima crisi finanziaria che ha investito i mercati e le economie di tutto il mondo in seguito alla cosiddetta crisi dei mutui americana del 2006.

Ulteriori istanze di riforma, nel senso di sospendere il diritto di voto dei paesi che non rispettino i propri obblighi di bilancio, sono state manifestate in particolare dalla Germania, in occasione degli aiuti stanziati dai paesi dell’Eurozona per la grave crisi finanziaria della Grecia nel maggio 2010.

Proprio a causa della grave crisi della Grecia la Germania spinse gli altri stati membri ad inasprire le regole sul raggiungimento del pareggio di bilancio: questo comporterà una rigorosissima applicazione del requisito riguardante il rapporto deficit/PIL inferiore al 3%. Alla fine del 2010 furono avanzate proposte emendative del Patto di stabilità e crescita volte al rafforzamento del coordinamento delle politiche fiscali. Nel febbraio 2011 la Germania e la Francia proposero il Patto di competitività, volto a rafforzare il coordinamento economico nella zona euro; tale proposta è stata approvata anche dalla Spagna. Il cancelliere tedesco Angela Merkel, diversi ministri delle finanze europei ed il presidente della Banca centrale europea hanno sostenuto l’idea di un’unione fiscale.

Nel marzo 2011 fu proposta una nuova riforma del Patto di stabilità e crescita, volta a rendere automatiche le sanzioni per chi viola i parametri riguardanti il 3% nel rapporto deficit/PIL e il 60% nel rapporto debito/PIL. Angela Merkel insistette affinché la Commissione europea e la Corte di giustizia dell’Unione europea svolgessero un ruolo importante di garanzia nel controllare il rispetto degli obblighi da parte dei paesi. Nel 2011 la Germania, la Francia e altri paesi più piccoli dell’Unione europea hanno fatto un altro passo verso l’unione fiscale della zona euro, con regole di bilancio molto rigorose e sanzioni automatiche per chi sfori.

Il 9 dicembre 2011, nel Consiglio europeo, tutti i 17 membri della zona euro hanno concordato le linee fondamentali del Trattato di stabilità fiscale che irrigidisce i parametri riguardanti il rapporto deficit/PIL e quello debito/PIL, introducendo anche sanzioni automatiche per chi li violi. Dopo aver chiesto un parere ai rispettivi parlamenti, anche i paesi che non hanno adottato l’euro si sono detti pronti a partecipare, con l’eccezione del Regno Unito. Originariamente i leader europei volevano modificare i trattati vigenti, ma questa soluzione si è scontrata con il veto del Regno Unito, che ha chiesto che la Città di Londra fosse esclusa dalla regolamentazione dei mercati finanziari e dall’applicazione della tassa sulle transazioni finanziarie.

Dopo qualche mese di trattative, il 30 gennaio 2012 il Consiglio europeo, con l’eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, ha approvato il nuovo patto fiscale. A fine febbraio il capo del governo dell’Irlanda Enda Kenny annunciò che il suo paese intendeva sottoporre a referendum popolare l’accordo sul patto di bilancio europeo[8].

Il nuovo trattato entrerà in vigore quando sarà stato ratificato da almeno 12 dei paesi interessati e a partire dal 1º gennaio 2013. Ogni paese, dopo la ratifica del trattato, avrà tempo fino al 1º gennaio 2014 per introdurre la regola che impone il pareggio di bilancio nella legislazione nazionale. Solo i paesi che avranno introdotto tale regola entro il 1º marzo 2014 potranno ottenere eventuali prestiti da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità. L’obiettivo, dopo l’entrata in vigore, è quello di incorporare entro cinque anni il nuovo trattato nella vigente legislazione europea.

Il Patto di bilancio europeo, è un accordo approvato il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 stati membri dell’Unione europea .

Esso contiene una serie di regole, chiamate “regole d’oro”, che sono vincolanti nell’UE per il principio dell’equilibrio di bilancio. Ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca  tutti gli stati membri dell’Unione europea hanno firmato il trattato.

L’accordo prevede, secondo i criteri di convergenza fissati dal Trattato CE (art. 121), l’inserimento in Costituzione, per le parti contraenti, del pareggio di bilancio, l’obbligo per tutti i paesi di non superare una determinata soglia di deficit strutturale oltre a imporre una significativa riduzione del debito nell’arco di un ventennio (artt. 3 e 4). Gli stati inoltre si impegnano a coordinare i piani di emissione del debito col Consiglio dell’Unione e con la Commissione europea

I principali punti contenuti nei 16 articoli del trattato sono[9]:

  • l’impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del PIL, l’1%;

  • l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità;

  • l’obbligo per ogni stato di garantire correzioni automatiche con scadenze determinate quando non sia in grado di raggiungere altrimenti gli obiettivi di bilancio concordati;

  • l’impegno a inserire le nuove regole in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale, che verrà verificato dalla Corte europea di giustizia;

  • l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto del 3% del PIL, come previsto dal Patto di stabilità e crescita; in caso contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche;

  • l’impegno a tenere almeno due vertici all’anno dei 17 leader dei paesi che adottano l’euro.

Non tutti gli economisti (soprattutto di scuola keynesiana) concordano sui vincoli imposti dal patto di bilancio.

I premi Nobel per l’economia Kenneth Arrow, Peter Diamond, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow, in un appello rivolto al presidente Obama [10], hanno affermato che «Inserire nella costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose»; soprattutto «avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà diminuisce infatti il gettito fiscale (per concomitante diminuzione del PIL) e aumentano alcune spese pubbliche tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno dunque aumentare il deficit pubblico, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e quindi del potere di acquisto (che influiscono sul consumo o domanda di beni o servizi)».

Nell’attuale fase dell’economia, continuano, «è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa economica già di per sé debole».

Nell’appello si afferma che «anche nei periodi di espansione dell’economia, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica, perché gli incrementi degli investimenti a elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo.

Infine «un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessità, in caso di spese di emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza»

Critico anche l’economista e premio Nobel Paul Krugman, il quale ritiene che l’inserimento in costituzione del vincolo di pareggio del bilancio, possa portare alla dissoluzione dello stato sociale.

II.5.   L’attenzione dell’U.E. per le politiche economiche degli Stati membri

La recente crisi finanziaria globale ha causato un aumento vertiginoso del debito sovrano nelle economie avanzate. La preoccupazione crescente ha innescato vari dibattiti su come risolvere il problema[11]. Nelle economie avanzate, in media, il rapporto debito/Pil è oggi vicino a livelli del 100 per cento, i più alti dal secondo dopoguerra, e sembra oltretutto destinato ad aumentare ancora. L’aggiustamento fiscale richiesto è senza precedenti: serviranno molti anni per ridurre il debito e riportarlo a livelli accettabili.

Fin dal tardo 2009, crebbe, tra gli investitori, la paura riguardo a una crisi del debito degli stati europei, che si intensificò all’inizio del 2010 e successivamente. A lato di prestiti eccessivi, i governi hanno avuto problemi a finanziare ulteriori deficit di bilancio e servizi pubblici, in presenza di alti livelli di debito. Tra i membri dell’Eurozona toccati dalla crisi vi sono Grecia, Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo a cui si aggiungono anche alcuni paesi estranei all’eurozona.

La crisi è emersa soprattutto in paesi in cui il deficit di bilancio e i debiti sovrani sono cresciuti, con l’ampliamento dei differenziali di rendimento dei titoli (credit spread) e l’assicurazione di rischio sui credit default swap tra questi paesi e gli altri membri UE, per lo più la Germania.

Le preoccupazioni riguardo alla crescita del livello di debito dei governi hanno attraversato il mondo con un’ondata di declassamento del debito dei governi europei, con conseguente allarme nei mercati finanziari. Il 9 maggio 2010, i ministri dell’economia europei , sempre attenti a vigilare sulle politiche economiche degli Stati membri, approvano il pacchetto di recupero di 750 miliardi di euro con l’obiettivo di assicurare la stabilità finanziaria in Europa creando il Fondo Europeo di stabilità finanziaria (European Financial Stability Facility, in sigla EFSF).

Nell’ottobre 2011, i primi ministri dell’eurozona si incontrano a Bruxelles accordandosi su un pacchetto di misure progettate per prevenire il collasso, per debiti, delle economie dei membri.

Nasce la proposta di cancellare il 50% del debito greco di proprietà di creditori privati, incrementando il fondo EFSF di circa 1.000 miliardi di euro e richiedendo alle banche europee di raggiungere la capitalizzazione del 9%.  Malgrado la crisi del debito in alcuni paesi dell’Eurozona, la moneta europea rimane stabile, ponendosi persino leggermente meglio contro i principali partner commerciali del blocco dell’euro rispetto all’inizio della crisi.

Altro strumento messo in campo dall’Unione Europea per garantire la stabilità finanziaria della zona euro è il c.d. Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche Fondo salva-Stati, istituito dalle modifiche al Trattato di Lisbona (art. 136) approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo  e ratificate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011, nato come fondo finanziario europeo per la stabilità finanziaria della zona euro (art. 3). Esso ha assunto però la veste di vera e propria organizzazione intergovernativa (sul modello dell’FMI), a motivo della struttura fondata su un consiglio di governatori (formato da rappresentanti degli stati membri) e su un consiglio di amministrazione e del potere, attribuito dal trattato istitutivo, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti al fondo-organizzazione.

Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011, con l’aggravarsi della crisi dei debiti sovrani, decise l’anticipazione dell’entrata in vigore del fondo, inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire da luglio 2012

Successivamente, però, l’attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della pronuncia da parte della Corte Costituzionale della Germania sulla legittimità del fondo con l’ordinamento tedesco.

La Corte Costituzionale Federale Tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012, quando si è pronunciata, purché vengano applicate alcune limitazioni, in favore della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco.

Il MES sostituirà il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) e il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF) attualmente ancora in vigore, nati per salvare dall’insolvenza gli stati di Portogallo e Irlanda, investiti dalla crisi eonomico-finanziaria. Il MES è attivo da luglio 2012 con una capacità di oltre 650 miliardi di euro, compresi i fondi residui dal fondo temporaneo europeo, pari a 250-300 miliardi.

Il MES sarà regolato dalla legislazione internazionale e avrà sede a Lussemburgo. Il fondo emetterà prestiti (concessi a tassi fissi o variabili) per assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquisterà titoli sul mercato primario (contestualmente all’attivazione del programma Outright Monetary Transaction), ma a condizioni molto severe. Queste condizioni rigorose “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12). Potranno essere attuati, inoltre, interventi sanzionatori per gli stati che non dovessero rispettare le scadenze di restituzione i cui proventi andranno ad aggiungersi allo stesso MES. E’ previsto, tra le altre cose, che “in caso di mancato pagamento, da parte di un membro dell’Esm, di una qualsiasi parte dell’importo da esso dovuto a titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da versare […] detto membro dell’Esm non potrà esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata di tale inadempienza” (art. 4, c. 8).

Il fondo è gestito dal Consiglio dei governatori formato dai Ministri finanziari dell’area euro, da un Consiglio di Amministrazione (nominato dal Consiglio dei governatori) e da un direttore generale, con diritto di voto, nonché dal Commissario UE agli Affari economico – monetari e dal  Presidente della BCE nel ruolo di osservatori. Le decisioni del Consiglio devono essere prese a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice (art. 4, c. 2) [12]. Il MES emette strumenti finanziari e titoli, simili a quelli che il FESF emise per erogare gli aiuti a Irlanda, Portogallo e Grecia (con la garanzia dei paesi dell’area euro, in proporzione alle rispettive quote di capitale nella BCE), e potrà acquistare titoli di Stati dell’eurozona sul mercato primario e secondario. Il fondo potrà concludere intese o accordi finanziari anche con istituzioni finanziarie e istituti privati. È previsto l’appoggio anche delle banche private nel fornire aiuto agli stati in difficoltà. In caso di insolvenza di uno Stato finanziato dallo MES, quest’ultimo avrà diritto a essere rimborsato prima dei creditori privati.

L’operato del MES, i suoi beni e patrimoni ovunque si trovino e chiunque li detenga, godono dell’immunità da ogni forma di processo giudiziario (art. 32). Nell’interesse del MES, tutti i membri del personale sono immuni a procedimenti legali in relazione ad atti da essi compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni e godono dell’inviolabilità nei confronti dei loro atti e documenti ufficiali (art. 35)[13]. Tuttavia, un collegio di cinque revisori esterni (art. 30, comma 1 e 2), indipendente e nominato dai governatori del fondo, ha accesso ai libri contabili e alle singole transazioni del MES. La composizione del collegio è così ripartita: un membro proviene dalla Corte dei Conti Europea, e altri due a rotazione dagli organi supremi di controllo degli Stati membri.

La Corte Costituzionale tedesca ha stabilito, infine, che le decisioni del fondo ESM in merito a nuovi versamenti devono essere ratificate dal Parlamento europeo[14].

Diversamente da altri fondi di stabilità come il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, non è prevista la possibilità di un mero accantonamento contabile, ovvero il conferimento in proprietà o ipoteca di beni demaniali, e quindi di una sua definizione preventiva in assenza dell’applicazione degli aggiustamenti di bilancio, con i quali gli stati potrebbero in futuro reperire in tempi rapidi la quota di loro competenza, laddove richiesto dal fondo MES.

L’accantonamento contabile tuttavia potrebbe evitare il trasferimento e l’immobilizzo finanziario pluriennale di importanti risorse dei bilanci nazionali, comportando il rischio di scarso impiego nel fondo, laddove non è riscontrabile analoga rigidità nelle norme degli stati membri per l’accertamento e la valorizzazione dei beni e dei versamenti relativi al capitale sociale nelle società di capitali di diritto privato.

La legislazione europea non prevede inoltre un tetto massimo, deliberato da un organismo esterno, al leverage (rapporto fra indebitamento e capitale) fra capitale sociale autorizzato e esposizione debitoria verso gli Stati membri, quale strumento di governance per evitare che un fondo di garanzia indipendente con compiti di pubblica utilità, relative immunità e garanzie di riservatezza, possa trasformarsi in un soggetto speculativo.

Unica indicazione del rapporto con gli istituti di credito è la possibilità di finanziarsi nel mercato secondario e interbancario, senza cenni in merito alla facoltà di detenere azioni o strumenti derivati, conferibili dagli stati membri che hanno convertito aiuti alle loro banche in azioni di proprietà. Questione che porrebbe innanzitutto il problema di nazionalità delle banche, trasferendo il controllo a un soggetto estero e, per i suoi fini, privo di controllo politico. In secondo luogo la questione di sovrapposizione di competenze con la BCE, in rapporto di proprietà col MES e regolatore del settore bancario, oltreché unico soggetto avente strumenti per essere un prestatore di ultima istanza (laddove il MES non può praticare il quantitative easing, ovvero regolamentare le garanzie dei suoi prestiti senza le conseguenze del giudizio dei mercati).

II.6.   Europa e crescita: come rilanciare lo sviluppo

Non vi è dubbio che nell’Eurozona le politiche fiscali, le riforme strutturali e la politica monetaria non siano riuscite, per ora,  a rilanciare la crescita, che nelle previsioni non si avrà che nel 2014. Sarebbe pertanto necessario un Fondo Europeo per lo sviluppo, stabilito con un trattato intergovernativo , come quelli che hanno portato al varo del “fiscal compact” e del “European Stabilization Mechanism”. Infatti le finanze pubbliche, sulla cui correzione la Uem ha puntato tanto, migliorano poco nel rapporto deficit/Pil  o peggiorano ancora nel rapporto debito/Pil.  Tali dati  non sono allarmanti, mentre certamente lo è la recessione che annulla o frena la crescita del Pil che contribuirebbe al calo dei richiamati rapporti. E’ dunque l’economia reale che va male anche perché il rallentamento, determinato dal rigore imposto, si sta pian piano estendendo dai Paesi mediterranei, i primi ad esserne investiti, ai Paesi centro – nord europei, Germania inclusa.  Questa si riteneva invulnerabile ma calando il Pil, l’occupazione e la domanda interna di grandi paesi come la Spagna e l’Italia, anche la Germania ne viene coinvolta. Gli economisti poi ritengono che le politiche fiscali di rigore attuate simultaneamente in tutti i Paesi Uem determineranno il peggioramento tra il 2011 e il 2013 degli effetti recessivi, rispetto a quelli imputabili ai singoli Paesi, di due punti di Pil.

L’Europa ha tuttavia fatto due importanti progressi istituzionali. Il primo riguarda l’operatività della Banca Centrale Europea, che sotto la Presidenza di Mario Draghi, ha attuato nuove tipologie di interventi per dare liquidità ( Ltro e Omt ). Si sono, così, salvate l’Uem e l’Euro ma non si è riusciti, anche riducendo i tassi, a rilanciare la crescita. Il secondo progresso riguarda il varo di due Trattati internazionali di cui abbiamo più volte fatto riferimento: il Fiscal Compact e l’European Stabilization Mechanism. La trattativa tra i Paesi dell’Uem e le procedure al loro interno per la ratifica sono state complesse ma l’esito è stato positivo e, tutto sommato, abbastanza rapido, visto che l’iter preparatorio è iniziato solo nella seconda parte del 2011.

Il Fiscal Compact ha natura preventiva ex ante, imponendo ai Paesi Uem, ed agli altri della Ue che vi hanno aderito, di andare verso il pareggio di bilancio e di ridurre il debito sul Pil verso il  60%  con una traiettoria accellerata. In una economia in recessione, il rischio è che queste prescrizioni possano avere poca efficacia se non del tutto indebolire il carattere preventivo dello strumento stesso.

L’Esm ha invece natura di stabilizzazione correttiva ex post dei paesi Uem in difficoltà. Infatti gli stessi possono essere soccorsi con prestiti e/o con l’acquisto di titoli di Stato sotto la condizione di ristrutturazione del bilancio e di riforme dell’economia reale. Questo fondo “salva – Stati” sarà operativo già dal luglio 2013  subentrando a quello provvisorio operante da agosto 2010 ( Efsf).

Come quindi rilanciare lo sviluppo ? Le ipotesi più ricorrenti vanno nella direzione della stipula di un terzo trattato internazionale  dell’Eurozona per un Fondo Europeo di Sviluppo ( Fes ) che integri i due precedenti, per il rigore e la stabilità,  facilitando così anche il raggiungimento dei loro scopi [15]

Ci sovvengono in questa risposta le analisi di un illustre professore ed economista Alberto Quadrio Curzio, il quale ritiene che questa necessità della soluzione del Fes sia sostenibile per tre semplici e inconfutabili constatazioni:

  1. La prima constatazione è che il mercato ha accolto molto bene le obbligazioni emesse dal Fondo salva stati provvisorio ( Efsf ) che ha piazzato in due anni 200 miliardi circa di obbligazioni a tassi contenuti e con scadenze da tre mesi a 25 anni. Il collocamento è andato per il 50% all’Uem e per il 25% all’Asia, con una forte componente di banche centrali e fondi sovrani. Vi è quindi un buon mercato per obbligazioni targate Eurozona che il recente abbassamento del rating non intaccherà.

  2. La seconda constatazione è che i grandi progetti di “ Europa 2020” , di “Horizon 2020”, del TranseuropeanNetwork, di Connecting Europe Facility, perseguono obiettivi importanti in infrastrutture e in tecnoscienza per raggiungere i quali si stimano necessità di almeno 2000 miliardi di euro entro il 2020.

  3. La terza considerazione è che, in fase di recessione, sperare di finanziare questi progetti partendo da pochi fondi pubblici derivati dal misero bilancio comunitario con moltiplicatori di raccolta sul mercato da 1 a 20 in virtù di garanzie pubbliche, appare illusorio e fuorviante per un’Eurozona che della solidità finanziaria ha fatto il suo credo.

Partendo quindi dalle precedenti osservazioni la proposta si concretizzerebbe  in un Fondo Europeo di Sviluppo dotato di un capitale reale con il conferimento di parte delle riserve auree e della massima parte delle azioni delle reti infrastrutturali  e dei beni reali assimilabili dei Paesi dell’Uem per emettere Unionbond per finanziare investimenti nelle reti europee. Scopo sarebbe far rilevare dal Fondo,   anche mediante una modifica del Fondo Esm, parte dei debiti pubblici nazionali e nel contempo finanziare investimenti in infrastrutture, che nell’attuale momento di recessione, che con la disoccupazione degenera in crisi sociale, potrebbe interessare Paesi terzi, quali la Cina che con i suoi 3mila miliardi di riserve valutarie e con il chiaro desiderio di investire nell’economia reale  europea, sembra molto attenta a forme di collaborazione tra grandi Paesi  per importanti progetti strutturali.

L’istituzione di tale fondo appare ancor più indispensabile soprattutto alla luce della discussione, in corso in questo periodo, tra il Consiglio Europeo che intende adottare un bilancio 2014/2020 molto ambizioso ed il Parlamento Europeo che non sembra accettare un quadro finanziario pluriennale più modesto  di quello attuale. Come ultimamente evidenziato dallo stesso Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, una eventuale riduzione, stante il clima di austerità che regna in molti Paesi dell’Unione Europea, significherebbe tagliare la più potente forma di rilancio economico disponibile nell’Unione. In un periodo di crisi l’aumento dello stanziamento di bilancio potrebbe fare da stimolo per promuovere la crescita e l’occupazione. Il bilancio Ue non è ingente in termini di capitali in quanto rappresenta appena il 2% circa della spesa pubblica complessiva dell’Unione ed è inoltre 45 volte inferiore alla spesa sostenuta dalla totalità degli Stati membri. E’ innanzitutto un bilancio di investimenti e il 94% degli utili complessivi sono investiti  negli stessi Stati membri o per priorità esterne all’Unione; inoltre, senza il contributo del bilancio Ue, per molte regioni e Stati membri gli investimenti pubblici sarebbero di minima entità se non del tutto impossibili. Il Bilancio Europeo è parte integrante della soluzione volta a consentire all’Europa di uscire dall’attuale crisi, promuovendo gli investimenti nella crescita e nell’occupazione e aiutando gli Stati membri ad affrontare gli attuali cambiamenti strutturali , in particolare la perdita di competitività, l’aumento della disoccupazione e la povertà. Per far ciò occorre dotarsi delle risorse necessarie. Il bilancio Ue può costituire uno strumento di investimento che permette di favorire la crescita economica e di creare nuovi posti di lavoro; per esempio finanziando collegamenti paneuropei fondamentali nel settore dei trasporti  e dell’energia, promuovendo l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo. Il bilancio Ue stimola gli investimenti, consente di realizzare economie di scala e non può registrare disavanzi.

Parte della soluzione intesa a conseguire tale crescita è rappresentata da una politica di coesione dell’Unione Europea forte, che dovrebbe continuare a rappresentare uno strumento chiave di investimento per i Paesi membri. Inoltre l’intera Unione non potrà che trarre beneficio da una politica di coesione , la quale rafforza il mercato interno e accresce la convergenza economica, sostenendo anche la riforma strutturale  degli Stati.

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Capitolo III – Rapporto tra politica ed economia

III.1. Democrazia e Sovranità in Europa

La questione del fondamento identitario dell’Unità Politica Europea, oggetto di dibattito ed  analisi da parte di  studiosi, economisti e costituzionalisti, si è ultimamente arricchita di nuovi elementi di riflessione.

Rilevano, a tal fine, alcune acute osservazioni dell’editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, apparse in questi ultimi mesi sul principale quotidiano economico italiano[16].

Infatti, come ben evidenziato nel capitolo precedente, con la ratifica, da ultimo, del Fiscal Compact, l’Italia, come tutti gli altri Stati dell’Unione Europea,  ha accettato, a favore delle istituzioni  europee, una, ulteriore, limitazione o cessione della sovranità nazionale.  Cessione di sovranità che la nostra Costituzione, all’articolo 11, ammette sono “in condizioni di parità con altri Stati” e per dar vita a  “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”.

Tuttavia, mentre risulta incontrovertibile che, in nome della globalizzazione, della libera circolazione dei capitali e delle trasformazioni avvenute nei mercati finanziari, negli ultimi decenni tutti

gli Stati abbiano ceduto sovranità alle istituzioni europee, oggi ulteriori limitazioni, certamente più rilevanti e pervasive, non sono state imposte da Bruxelles né proposte da alcun Governo o approvate da alcun Parlamento.

La maggior parte di queste cessioni di sovranità hanno avuto come destinatari o beneficiari soggetti non democratici, spesso non trasparenti e poco responsabili, quali banche d’affari multinazionali, shadow banks, hedge funds, agenzie di rating, fondi sovrani, organismi internazionali di regolazione non governativi. Le loro decisioni[17], spesso opache e non immuni da conflitti di interesse, limitano l’autonomia dei Parlamenti e dei Governi nazionali, e, condizionando le politiche economiche e finanziarie, costringono ad adottare scelte non solo non dettate da criteri di democraticità e libertà, ma anche  spesso poco lungimiranti.

Il fenomeno colpisce innanzitutto i Paesi finanziariamente meno virtuosi e economicamente meno dinamici, ma anche quelli più virtuosi e dinamici, però non dotati di dimensioni adeguate a competere con le grandi potenze economiche mondiali, non ne sono del tutto al riparo.

A questa limitazione della sovranità nazionale, concorre in maniera ancora più diretta, la politica economica dell’Unione Europea. In quest’ottica deve essere visto il “Fondo salva stati”, promosso dalla BCE, cui gli Stati membri in difficoltà possono ricorrere per ottenere finanziamenti.  Infatti le condizioni assai rigide, volute soprattutto dalla Germania e da altri Paesi forti dell’Eurozona, che accompagnano l’aiuto della BCE, attraverso direttive ben precise dettate dall’esterno, non possono che produrre una ancor più radicale perdita di sovranità da parte dei singoli Stati.  Ciò testimonia un dato di fatto, evidenziato dalla drammaticità dell’attuale crisi dell’Euro, ossia che ad oltre 60 anni dalla sua origine, e al di là dell’apparenza formale, nell’ambito dell’Unione Europea non esiste alcun organo realmente sopranazionale, neppure la Banca Centrale Europea. Non esiste cioè alcun organo che in materie rilevanti possa, nel nome di un interesse collettivo, prendere decisioni indipendentemente dalla volontà dei governi dei singoli Stati.

In queste condizioni anche l’Euro diventa una moneta solo formalmente europea, adottata su base paritaria e concordata [18]: in realtà essendo una moneta unica che non ha alle spalle alcuna realtà politico-statale, l’Euro è destinato a diventare un’arma insidiosissima nelle mani dei Paesi economicamente più forti contro quelli più deboli. Infatti, in periodi di tempesta, quali quelli che stiamo vivendo, la coesistenza da un lato di autonome individualità statali e dall’altro della moneta unica, rischia di sortire l’effetto, prendendo a motivo i vincoli “unitari” che questa comporta, di trasformare gli Stati più deboli in autentici stati vassalli. In tal modo l’autonomia del “politico” si prende la più beffarda vendetta a spese dell’immaginario primato  dell’economia, sul quale tutta la costruzione europea è stata edificata.

E qui si torna alla richiamata norma costituzionale della nostra Carta per chiederci quali mai sarebbero le “condizioni di parità” garantite da una cessione di sovranità alla quale l’Italia si vedesse costretta in caso di richiesta d’aiuto alla Banca Centrale Europea ? e a quale principio di pace e giustizia dovrebbe fare ricorso ? Tutte questioni alle quali non si può rispondere con certezza, essendo le condizioni imposte volta per volta mutevoli e  non  essendoci garanzia alcuna che il medesimo trattamento riservato oggi all’Italia verrebbe riservato domani anche ad altri Stati. Su tale argomento la nostra Corte Costituzionale ha omesso di pronunciarsi, a differenza del Bundesverfassungsgericht tedesco, omologo della nostra Corte, che ha dato piena legittimazione al meccanismo salva-stati permanente ( ESM) ed al fiscal compact.

Decisione che si innesta sull’assunto che la sovranità condivisa, ceduta a istituzioni democratiche comuni, è l’unica alternativa ad una sovranità sempre più amputata di poteri vitali. L’unico modo per contenere le limitazioni di sovranità imposte dai mercati finanziari internazionali, per recuperare, almeno in parte il potere ceduto, appare quello di costruire una vera unità politica europea. Ciò determinerebbe certamente la cessione, o quantomeno la condivisione, dei poteri sovrani, trasferendoli a istituzioni democratiche comuni, con la certezza, però, di riacquisire la capacità di recuperare l’autonomia di scelta e di decisione, che oggi le nazioni più piccole o meno virtuose non sono in grado di esercitare. Passaggio fondamentale per la costruzione di una identità politica europea, una cittadinanza comune, basata su un comune senso di appartenenza[19].

III.2.   Debito pubblico e democrazia

Il rapporto tra il debito degli Stati e la sovranità popolare rimane, tuttavia, ancora più incerto a causa delle soluzioni che vengono offerte per il debito pubblico che appaiono né chiare né risolutive;   sia quella che si affidi ad una rigorosa disciplina di tipo costituzionale sulla parità dei bilanci statali, accompagnata a forme di salvataggio e ristrutturazione del debito, sia quelle che si voglia affidare alla forza dei mercati.

Secondo il giornalista Guido Rossi, studioso di diritto,  che spesso affronta l’argomento con articoli apparsi sul Sole 24 Ore [20],  in ogni caso il debito degli Stati porta ad affrontare il complicato rapporto con la democrazia. Due, in particolare, sono le difficoltà che rendono inquinante il rapporto. La prima per una questione prettamente di equità fra generazioni; ogni decisione governativa che prenda impegni finanziari vincolanti per le politiche economiche  future, impegna inesorabilmente le nuove  generazioni. D’altronde consentire al “futuro” di esercitare un veto sulle decisioni relative alle attuali imposizioni fiscali e spese pubbliche è altrettanto pericoloso. Questa incredibile tensione tra democrazia e debito pubblico rimane inquietante anche laddove le maggioranze democratiche siano costrette, per ragioni esterne, ad affrontare serie politiche di austerity, come sta succedendo attualmente nei Paesi dell’Unione Europea.

Del resto il rapporto tra debito pubblico e democrazia ha una lunga storia illustrata da diversa ampia letteratura. Il rapporto conflittuale  emergeva già nella prima metà dell’800 negli Stati Uniti d’America, quando alcuni Stati erano ridotti all’insolvenza o quando nel periodo della Grande Depressione più di tremila comunità si trovavano in stato di default.

Lo stesso grande filosofo David Humme aveva più volte avvertito che il debito pubblico cede i poteri ad una classe di finanzieri subordinando il benessere dei cittadini a quello dei creditori e mette in discussione l’indipendenza dello Stato.

In verità gli Stati come quelli Europei, che non controllano la loro politica monetaria, sono sottoposti ad una disciplina diversa rispetto a quella degli Stati completamente sovrani, che hanno tutti i loro strumenti di politica finanziaria e monetaria sotto controllo e a loro disposizione. Tuttavia anche nel caso degli Stati pienamente sovrani i limiti costituzionali agli investimenti pubblici e ad ogni tipo di politica fiscale e di restrizione dei requisiti di bilancio, costituiscono comunque un ostacolo al retto processo rappresentativo politico, condizionando i rappresentanti dei cittadini a svolgere pratiche di governo sovente contrarie al bene comune che dovrebbero perseguire[21].

Per evitare che con lo stato di eccezione il problema si trasformi da mera questione teorica in disciplina legislativa, sorda a ogni esigenza di eguaglianza sociale e vittima della speculazione finanziaria, è indispensabile che le priorità ed il baricentro delle politiche dei governi europei, invece di badare esclusivamente alla difesa del sistema finanziario, concentrino la loro attenzione su politiche economiche orientate al sociale, per eliminare le disuguaglianze e  assicurare le priorità dei diritti.

In questo ragionamento si inseriscono aspetti etici che non bisogna sottovalutare.  L’attuale crisi del capitalismo finanziario sembrerebbe, infatti, aver dato ragione alla teoria di Friedrich Nietzsche, il quale nella “Genealogia della morale”, faceva discendere i concetti etici dai rapporti giuridici contrattuali, con la conclusione che la colpa e la cattiva coscienza derivano dalla posizione giuridica del debitore. E così che, assillati dal debito pubblico,  i cittadini dei vari Paesi occidentali si sentono in uno stato diffuso di colpa, alla quale si accompagnano timore e incertezza per il futuro. Ed è così che pur non avendone alcuna diretta responsabilità per l’aumento del debito pubblico, i cittadini ne subiscono le dirette conseguenze e se ne sentono in colpa. Questa operazione, solo apparentemente filosofica, è stata causata dai mercati finanziari, i quali hanno tolto al fiducia agli Stati, declassandoli e imponendo loro una politica di rigore, quale la parità di bilancio, piuttosto che affrontare direttamente politiche di crescita.

L’obbligo del rispetto della parità di bilancio e della riduzione del debito, così come altro provvedimenti di contenimento della spesa ( spending review ) corredato da aspre sanzioni per l’inadempimento,  alimentano questa paura per il futuro e motivano l’obbedienza della legge giustificando la prevaricazione da parte dello Stato, creatore e detentore del diritto e perciò, come evidenziato da Hobbes, autorizzato anche a sospenderlo. Oggi tuttavia la paura è creata, per lo più, dalla speculazione finanziaria e non dall’imposizione sovrana di uno Stato d’Europa che ancora non esiste; un Leviatano burocratico soggioga gli Stati Sovrani derivando la sua forza dal capitalismo finanziario che va erodendo i fondamentali diritti umani.

Non va, comunque, sottaciuto che la storia dei diritti dell’uomo è la storia dell’antipolitica, cioè di rivendicazioni nei confronti dei poteri costituiti. E’ pur vero, come sostenuto da Norberto Bobbio, forte dell’insegnamento di Giovambattista Vico, che questi diritti non possono più essere considerati diritti naturali; i diritti dell’uomo sono storici e non assoluti, ma in continua evoluzione.

III.3.   Dalla crisi economica alla crisi del diritto

La  grave crisi economica provocata dal capitalismo finanziario ha prodotto , a cascata, nelle democrazie occidentali altre crisi, tra le quali sta ora prepotentemente emergendone una nuova: la crisi del diritto.

Come acutamente osservato da Giudo Rossi in un recente articolo apparso sul quotidiano economico Il Sole 24 Ore [22], il potere economico e quello politico sono andati, via via, disgregandosi in reti, corporazioni e meccanismi di autoregolamentazione parziale, che impediscono un’unità di decisione e di regole omnicomprensive. I nuovi poteri che reggono l’economia finanziaria globalizzata sono, tuttavia, difficilmente individuabili; ognuno di loro si pone, però, al di sopra di ogni regola, se non produttore esso stesso di regole cogenti. La Sovranità degli Stati nazione avrebbe dunque abdicato e lo “Stato di diritto” si sarebbe trasformato in uno “Stato dell’economia”. A una economia globalizzata, facilitata da una tecnologia sempre più veloce, non è corrisposta una nuova disciplina dei mercati; con qualche eccezione, soprattutto a livello internazionale e della Comunità Europea, alla tutela normativa si è sostituita la disciplina dei contratti, che rende, evidentemente, più agevoli gli scambi economici, ma consente, nel contempo, il fiorire di sempre nuovi mercati economici e finanziari, assolutamente indipendenti e incontrollati.

Ad un conseguente depotenziamento della sovranità politica da parte degli Stati sempre più eterodiretti dai poteri economici, ha fatto spesso da contraltare l’autonomia giurisdizionale che si è fatta carico di “tutelare”, spesso con risultati contradditori, e con interpretazioni diversificate a livello internazionale, il diritto. La delegittimazione della politica e l’abdicazione della sovranità hanno creato o, quantomeno, acuito una contrapposizione forte e improduttiva tra le giurisdizioni locali, incapaci di assicurare certezza del diritto al mondo globalizzato dell’economia. Esempio clamoroso di quanto sopra accennato è dato dal contenzioso, sui cui dettagli è superfluo soffermarsi, tra due grandi gruppi che si contendono il primato nel dominio tecnologico dell’era moderna, la Americana Apple e la Sud-Coreana Samsung. Oggetto della controversia la tutela brevettuale della proprietà intellettuale riguardante il design e la tecnologia degli iPhone, iPod e iPad  che la Apple presumeva copiata dalla Samsung nella tipologia Galaxy. Risultato ne sono state due pronunce diametralmente opposte da parte della District Court of California che ha condannato la Samsung e del Tribunale di Tokio che ha, successivamente, assolto la società sud – coreana.

Dalla moderna rivoluzione digitale è partito l’ultimo attacco a uno dei diritti fondamentali del liberalismo democratico, cioè quello della tutela della proprietà intellettuale. E’ significativo che ciò avvenga in un settore dove l’economia globalizzata tende alla riduzione di tutti i beni in beni immateriali, nella cui trasformazione, a partire dalla bolla dei sub – prime mortgages, è identificata l’inizio dell’attuale crisi. Eppure in Europa la lotta per il diritto basata sulla fondazione del pluralismo, di una laica eticità nel rispetto dei diritti umani, in mancanza di un popolo e di una nazione europei, è affidata alla Corte di Giustizia di Strasburgo. Ciò è reso ancor più chiaro dalla recente bocciatura da parte di quest’ultima della legge italiana n. 40/2004 sulla fecondazione assistita; al di là dei problemi etici e della legittima diversità di opinioni  e di fede che riguardano l’origine della vita, l’atteggiamento del Governo Italiano che ha dichiarato di voler proporre ricorso, evidenzia il diverso atteggiamento di chi accetta di essere eterodiretto dall’Europa sui programmi economici, contrario all’Europa sui diritti umani.

Tuttavia l’ingiusta anomalia nella quale si è venuta a trovare l’Italia nella crisi globale, non trova esclusiva motivazione nello scontro tra la finanza globale da un lato e le politiche nazionali delle democrazie parlamentari dall’altro. Infatti, se pur in una economia stagnante, fino a qualche tempo fa, la crisi finanziaria globale ci aveva interessato molto di sfuggita; la rigorosa linea di contenimento della spesa e quindi del deficit e del debito, nonché le politiche del nostro sistema  bancario, poco infarcito di titoli tossici, avevano attenuato la minaccia delle speculazioni sui nostri titoli del debito pubblico. Peraltro il debito pubblico Italiano per circa il 60% nelle mani di investitori istituzionali italiani , unito ad un debito privato più basso rispetto a quello degli altri Paesi Europei, fa sì che lo stesso non abbia dovuto subire incrementi quantitativamente e qualitativamente pari ad alcuni paesi più colpiti dalla speculazione.

Le politiche di deregolamentazione, la creazione di incontrollati strumenti della finanza, il convergere di masse monetarie nei derivati e nelle c.d. banche ombra, sono fenomeni che, partiti dagli Stati Uniti d’America, hanno creato un facile contagio nella stessa Europa, in un gioco di flussi finanziari molto più liberi, che non il commercio, nell’attraversare i confini nazionali. Con l’aiuto di una avanzata tecnologia che tiene strettamente legate le operazioni delle grandi banche  e di tutti gli attori del mercato finanziario che sono sempre più internazionali e globali per loro stessa natura. La mancanza di una disciplina internazionale del sistema monetario ha, naturalmente, facilitato il rilassamento della politica sia in Europa che negli Stati Uniti. Ma la crisi è scoppiata con la bolla immobiliare e con l’enorme quantità di titoli tossici che hanno devastato la solvibilità di grandi protagonisti della finanza globale,  costringendo i Governi ad intervenire con il denaro dei contribuenti.

La storia americana recente, così come le misure adottate dalla Banca Centrale Europea e dalla FED, ne sono l’esempio.

I flussi di denaro, meramente finanziario, slegati dall’economia reale si sono allora spostati alla speculazione sui debiti sovrani di Grecia, Portogallo, Spagna e ora Italia, per effetto dei quali alla crisi economica si è assommata quella politica, incapace di porvi freno, e quella sociale;  una politica sempre più guidata dalla filosofia delle banche centrali o delle grandi istituzioni finanziarie. Ciò rende urgente una riforma dei mercati finanziari a livello globale, ma, soprattutto, un risveglio della politica e dei cittadini stessi che la debbono sostenere. Non vi è dubbio, infatti, che l’anomalia italiana è stata causata da un difetto di democrazia dovuto ad una maggioranza sempre più affievolita, ed ad un procedere su continui provvedimenti di fiducia, che, raggiunta a stento in Parlamento, si è persa completamente nel mondo.

III.4.   Il coraggio di una nuova Europa

Osservando i passi che si fanno nelle sedi Europee per rendere più integrate e, quindi, più efficaci le politiche volte a stabilizzare l’euro e a raddrizzare i bilanci nazionali dai quali oggi la stabilizzazione dipende, risulta ancor più marcata la reazione che tali operazioni suscitano tra i cittadini, in un crescendo di ostilità reciproca verso tra le  opinioni pubbliche nazionali e di ostilità comune verso l’Europa. Ognuno ritiene che le misure di austerità siano imposte dall’esterno e quindi determinino una lesione delle rispettive sovranità[23].

Politici e commentatori concordano[24] che è la stessa sopravvivenza dell’Euro a richiedere questa interferenza nelle sfere nazionali, conseguenza ineluttabile della maggior integrazione politica. Laddove si richiede più Europa non può che conseguire perdita di sovranità. Tale assunto, per effetto del quale dare più strumenti comuni all’Europa sia, invece che un punto di forza, motivo di ostilità fra gli Europei, è principio certamente in contrasto con quella che i padri fondatori dell’Europa unita avevano in mente.

La scelta operata sul finire degli anni 80’ e poi con il Trattato di Maastricht per una moneta comune e una politica monetaria da affidare a una banca centrale europea, slegata dall’istituzione di un forte governo sovranazionale, fu certamente dovuta alla volontà di salvaguardare le prerogative e le responsabilità nazionali in materia economica e fiscale. In questo modo, a differenza di quanto accade negli assetti di tipo federale, la stabilità dell’euro venne fatta dipendere dalla solidità dei singoli bilanci nazionali, a garanzia della quale si costruirono, soprattutto su spinta dei due paesi più forti, Francia e Germania,  sistemi di sorveglianza , pre – allarmi, raccomandazioni, se non addirittura sanzioni, che, con il tempo, hanno mostrato   tutta la loro fragilità. Quanto successo negli ultimi tempi, pur a fronte di avvenimenti che mediaticamente sono stati passati come favorevoli e positivi nell’ottica di una vera costruzione politica di un’Europa unita e di uscita dalla crisi depressiva dell’economia europea, da un punto sostanziale necessità di attenta valutazione.

Mi riferisco, in particolare, a due decisioni di rilievo per l’Europa; la prima è l’annuncio del Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, della scelta della BCE di acquistare sul mercato secondario titoli di Stato con scadenza da uno a tre anni, la seconda è quella della Corte Costituzionale tedesca di approvazione del “fondo salva – Stati” cioè del meccanismo Europeo di stabilità “Esm”[25].  La prima decisione ha avuto un positivo effetto contro la speculazione, ha ridotto lo spread e ha dato una spinta al rialzo alle Borse europee, anche se la sua validità è ancora oggetto di valutazione di costituzionalità da parte della Corte tedesca. Questa si è invece, come detto, pronunciata favorevolmente sul fondo “salva-stati”, seppur imponendo alcune condizioni: un limite di 190 miliardi di Euro di impegno della Germania, superabile solo con esplicita decisione del Bundestag ( parlamento tedesco) e la non applicabilità al Parlamento tedesco della clausola di segretezza delle procedure del fondo, nella convinzione della responsabilità politica che gli impegni assunti con il fondo determinano nei confronti di tutti i cittadini e quindi della necessità di accesso a tutte le informazioni utili sul suo utilizzo. Questa decisione si sostanzia, al di là degli aspetti meramente giuridici, in una rivendicativa lezione di democrazia e di rispetto della sovranità fissata dalla Carta Costituzionale Tedesca che all’art. 20 impone l’esclusiva emanazione del potere statale nella volontà del popolo, esercitato per mezzo di speciali organi del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, nell’ambito di un ordinamento costituzionale che tutti vincola ad uno Stato di diritto. Questa clausola detta “clausola di sovranità” è stata dettata dall’esigenza di evitare il ripetersi dell’esperienza della Repubblica di Weimar che finì quando il Parlamento, sotto la spinta intimidatoria Hitleriana, ne decretò la fine. Giova ricordare che invece la nostra Costituzione, all’art. 139, impone la sola immodificabilità  alla forma repubblicana dello Stato.

La posizione assunta dalla Germania di levata di scudi democratici nei confronti di una deriva tecno – burocratica europea, appare pericolosa nella misura in cui determina la riscoperta della stessa quale Stato – nazione che si ponga quale  leadership d’Europa, deteriorando la sua vocazione europeista.

La via verso una più integrata Europa che preveda il passaggio di molte sovranità attualmente nei poteri di singoli Stati membri deve avere come risultato un Europa che abbia una forte legittimazione democratica, che allo stato non ha. La strada è quindi quella individuata dal filosofo, sociologo e storico tedesco  Jurgen Habermans nel recente “The crisis of Euopean Union” [26] di “costruire quella Costituzione europea per la creazione di una vera federazione internazionale di Stati che possa svilupparsi in una comunità cosmopolita di cittadini del mondo”. In quest’ottica va accolta con soddisfazione la decisione del presidente della Bce Mario Draghi di spiegare al Parlamento Europeo le decisioni assunte dalla banca come possibile recupero del primato della politica  e quindi come inizio di un progetto costituzionale europeo, dove l’inserimento di una Banca centrale europea in un contesto politico di unità democratica e non solo monetaria risulterà meno discutibile e contraddittorio.

III.5.   Dal nuovo feudalesimo al federalismo europeo

E’ evidente che dopo la presa di posizione della BCE in difesa dell’euro e per il sostegno dei titoli del debito pubblico dei Paesi che ne richiedano l’intervento, la storia dell’Europa sta cambiando. Si è infatti scatenata un battaglia tra la troika, composta dalla BCE, l’FMI e le istituzioni europee dominate dall’ideologia culturale e politica tedesca, che impone austerità e sanzioni agli Stati inadempienti e la “speculazione finanziaria”, la quale in un’altalena di perdite e guadagni razionalmente ingiustificata , toglie ogni credibilità al dio mercato. Che la politica anti – spread rivendicata dalla BCE possa in qualche misura, anche in mancanza di un’Europa politicamente unita e democratica, osteggiare la speculazione è conseguenza indiscutibile, anche se il prezzo da pagare per alcuni Stati è altissimo. Oltre alle politiche economiche e sociali depressive e già imposte, dal Fiscal compact alla spending review, altre ne saranno inevitabilmente imposte a quegli Stati che chiederanno aiuto per mantenere il pareggio di bilancio, come si prospetta oggi per la Spagna e in futuro, forse, per la stessa Italia[27].

Si rischia di conseguenza il ripetersi di un fenomeno che Montesquieu, nel famoso scritto “L’esprit des Lois”,  commentando le leggi feudali dell’Europa medievale, le considerava un avvenimento accaduto una sola volta nel mondo e destinato a non accadere mai più. Invece, oggi come allora, è determinante il dominio dell’economia sulla vita pubblica e sui diritti e, soprattutto, la confusione tra la ricchezza e l’autorità; allora si trattava della ricchezza terriera, oggi della ricchezza finanziaria. Come allora, il presupposto si giustifica con lo “Stato di eccezione” , teorizzato da Carl Schmitt[28], che comporta la rigida soggezione economica della moltitudine ad alcuni potenti, siano essi finanzieri, tecnici o burocrati, poco importa.

Quella attuale è allora una nuova forma di feudalesimo che sottrae sovranità agli Stati e alle sue istituzioni, ridotte spesso a semplici esecutori di politiche economiche, monetari e sociali, imposte, non certo democraticamente, dal di fuori.

Il trasferimento della sovranità dello Stato democratico al Leviatano tecnocratico della troika, passaggio obbligato per arrivare all’unica possibile soluzione di un’Europa politicamente unita e democratica, comporta quindi una revisione totale dei diritti dei cittadini e delle istituzioni democratiche, rilegate nelle loro funzioni a mere esecutrici delle decisioni di gerarchie esterne e, spesso, fuorvianti.  E così che il problema del rispetto dei diritti umani e della giustizia sociale, diventa trascurabile a fronte della forza del “feudalesimo” della troika, per la quale ciò che più conta è l’imposizione dell’austerità, sempre più regina della depressione economica. Questa inquietante crisi della democrazia, alla quale la classe dirigente, tecnica o politica che sia, stenta a porre rimedio, non pare, allo stato destinato a processi di inversione, che solo una politica di unificazione Europea potrebbe modificare.

L’articolo recentemente pubblicato sul quotidiano tedesco Die Zeit da Mario Draghi [29]sul tema dell’Unione politica evidenzia una posizione, più che legittima per il presidente della BCE, per la quale la rivisitazione dell’assetto istituzionale, per quanto necessaria, non può essere un alibi o una pregiudiziale per non andare avanti, almeno sulle cose per le quali sarebbe invece possibile, anzi urgente, provvedere.

Il Presidente della BCE è convinto che non è necessario fare prima l’Unione politica, ma che è necessario dotarsi di un fondo a livello europeo per gestire  gli eventuali fallimenti delle banche e rafforzare la vigilanza sui bilanci nazionali, lasciando che la BCE, pur nei limiti del suo mandato, intervenga, quando serve per garantire la stabilità dell’euro.

Negare tuttavia la necessità di addivenire ad una Unione politica è sbagliato, nella misura in cui si afferma la consapevolezza che decisioni sempre più rilevanti per la vita dei cittadini, come quelle che si adottano nelle sedi europee, diventano insostenibili, alla lunga, se non corroborate con il consenso popolare e la legittimazione democratica.  Allora, come scritto dallo stesso Draghi, dall’unione politica non c’è bisogno di partire ma ad essa non si potrà non arrivare. La vera questione è intendersi sull’unione politica che si vuole costruire, se quella della mutualizzazione dei vincoli e dei debiti, destinata a non essere accettata dal popolo, o quella che porta ad un assetto di tipo federale. Naturalmente tale ultimo passaggio deve essere gestito in maniera progressiva come dimostra la gradualità con la quale si sono confederati gli stati federali più classici. Tuttavia l’instabilità della situazione economica in cui l’Europa si trova, pur in presenza di strumenti efficaci come il Fiscal Compact o il fondo “salva – stati” , che la Banca Centrale Europea ha messo in atto,  rende urgente una maggiore integrazione oppure l’eurozona rischierà di disintegrarsi perché così come concepita non poggia su solide basi istituzionali e si trova esposta a mercati, che della sua fragilità sono sempre più convinti.  Infatti il sistema bancario ha cessato di essere un sistema europeo, con la quasi cessazione dei flussi transfrontalieri e la chiusura dell’operatività di gran parte delle banche entro i rispettivi confini nazionali, ma, cosa ancor più grave è la mentalità che si sta radicando nei funzionari di Bruxelles di non essere funzionari europei, ma di rappresentare interessi nazionali. Ne consegue che per giungere ad una maggiore integrazione Europea occorre un radicamento di tale integrazione in sentimenti popolari che non siano di ostilità, ma tornino ad essere di fiducia e di speranza in ciò che l’Europa può non toglierci, ma darci. Sotto questo profilo che l’Europa arrivi presto ad offrire un po’ di crescita e non solo austerità è una premessa essenziale del rafforzamento istituzionale di cui essa ha bisogno. Tanto più che il percorso di integrazione sul quale è da anni incamminata impone ai suoi Stati membri una massa crescente di regole e di controlli di uniformità e convergenza, che esige, per funzionare, un grado di accettazione nelle rispettive opinioni pubbliche ben superiore a quello attuale.

Esiste in questo, è ciò è opinione comune di politici, analisti, studiosi, economisti e filosofi, che esiste una profonda differenza tra il nostro percorso di integrazione e quello degli Stati che hanno deciso, nella storia, di unirsi  con percorsi autenticamente federali, quali, ad esempio, gli Stati Uniti. Qui l’integrazione è avvenuta dando alla federazione un suo Governo, un bilancio che è diventato nei decenni sempre più robusto, una valuta nella quale sono denominati i buoni del tesoro federali, una banca centrale che ha acquisito sempre più forza sul sistema bancario federale ed è diventata, nella pratica, il pacifico prestatore di ultima istanza. Conseguenza di questo assetto è che le vicende interne dei singoli Stati membri sono assai poco rilevanti ai fini della stabilità del dollaro e della stabilità dell’intero sistema bancario. La federazione può intervenire o non intervenire per curare gli shock asimmetrici che si producono sotto di essa, ma certamente non ha bisogno di imporre ai suoi Stati membri convergenze rigide e patti di stabilità più o meno complessi per salvaguardare l’insieme.  Gli Stati della Comunità Europea non hanno imboccato questa strada nella convinzione di poter meglio difendere la propria responsabilità autonoma e affinchè la loro voce restasse determinante in tutte le decisioni comuni. Arrivati alla moneta unica ci si è accorti che per garantire la stabilità senza disporre di un attrezzato livello federale, si è costretti ad accettare molti più vincoli di quelli che hanno gli Stati membri di una federazione. Si è avviato quindi un processo di integrazione che, tuttavia, priva progressivamente di autonomia ogni decisione sui bilanci, che impone tetti invalicabili ai sistemi pensionistici, che incide sulle spese di investimento e che interferisce, perfino, con le prerogative costituzionali che alcuni di loro riconoscono alle loro regioni e ai loro enti locali.  Con il rischio che se il percorso non cambia l’invadenza nella sovranità nazionale sarà sempre più incisiva, in quanto la sopravvivenza dell’euro non è legata al valore dei titoli di stato federali, ma a quello dei titoli di ciascuno di loro, greci, tedeschi, italiani o finlandesi che siano, senza un prestatore di ultima istanza.

III.6.   Verso il federalismo europeo

L’origine dell’idea federalistica della distribuzione del potere  politico, e per ciò stesso l’esigenza di identificare le condizioni storico-sociali che consentono d’instaurarla e di mantenerla nell’ambito di una parte del genere umano o di tutto il genere umano, discende da un esigenza di pace . Ormai non è più vero che la creazione degli Stati Uniti d’Europa (dell’Europa occidentale-atlantica: solo di questo realisticamente si parla) significhi creazione di diritto sovranazionale così come precedentemente inteso; né costituisce in alcun modo, di per sé, un passo in quella direzione. Gli Stati nazionali europei sono già stati superati in realtà dalla loro riduzione a Stati regionali, con tutti i limiti di impotenza.

L’europeismo prevalente ha ancora oggi un valore eminentemente difensivo, anche se non direttamente legato all’originaria esigenza di pace: significa la conquista per il popolo europeo di un suo Stato di dimensione adeguata per sostenere il confronto internazionale atto a tutelare i propri interessi, ad essere perciò una potenza nel mondo attuale. Europeismo cioè che vuole essere momento di scontro politico fra la concezione democratica-parlamentare e quella totalitaria, fra chi privilegia i diritti della persona e chi li sottopone gerarchicamente agli interessi dello Stato, fra chi rivendica la necessità che il diritto non sia limitato dalle frontiere e chi difende la barbarie in nome della sovranità nazionale e del principio di non ingerenza. Il progressivo sfaldamento dei principi liberali della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri a cui si assiste, seppur in misura diversa, in tutti i paesi europei in nome delle urgenze determinate di volta in volta dalla crisi economica, dal deficit delle finanze pubbliche o dal terrorismo russo, irlandese o basco, rappresentano i sintomi più evidenti della incapacità delle istituzioni statali nazionali di far fronte alla nuova dimensione dei problemi. La riduzione progressiva dei poteri parlamentari che viene registrata in Italia come in Francia o nel Belgio, il trasferimento sempre più massiccio dei poteri legislativi all’esecutivo attraverso l’abuso del potere di decretazione o dei “pouvoirs spèciaux”, sia quando si realizza attraverso modifiche costituzionali o regolamentari, sia quando viene imposto forzando la legge, testimoniano almeno in parte l’impotenza delle istituzioni statali nazionali a far fronte alla dimensione sovranazionale dei problemi emergenti, da quelli economici a quelli determinati dalla criminalità o dal terrorismo, e alle influenze dello sviluppo tecnologico sui processi decisionali. Le istituzioni comunitarie sono del resto paralizzate dall’incapacità di concepire un unico “governo” europeo perlomeno nelle materie di competenza comunitaria. Gli “egoismi nazionali” e gli interessi dei grossi centri di potere economico e politico lo impediscono sistematicamente. Del resto questa ipotetica autorità’ sovranazionale non potrà mai essere legittimata democraticamente finché non potrà ricevere la fiducia da un Parlamento Europeo, quale unica espressione della sovranità popolare europea, dotato degli effettivi poteri d’indirizzo, controllo e legislativi. D’altronde il Parlamento europeo non potrà mai conquistare la capacità d’imporre il processo d’integrazione politica europea finché sarà composto da partiti privi di una vocazione europeista e soprattutto incapaci di rappresentare gli interessi dei gruppi sociali ed economici che si vanno riconoscendo o si possono riconoscere nell’Europa politica. La crisi delle istituzioni comunitarie è quindi innanzitutto crisi e insufficienza di quel diritto comunitario rimasto incompiuto nei Trattati nonostante i tentativi evolutivi sanciti dalle sentenze della Corte di Lussemburgo.

E’ quindi, pur nella piena consapevolezza dell’assoluta necessità di una riforma istituzionale del sistema Europa,  con scetticismo che ci si avvicina all’idea di una Europa federale. Scetticismo che può derivare da ragioni economiche, nella convinzione che l’Eurozona non sia un’area monetaria ottimale, che imponga politiche che alcuni trovano troppo severe e alcuni troppo permissive, che non possa esistere moneta senza Stato. Scetticismo che può derivare da ragioni istituzionali , nella preoccupazione dei rapporti tra Stati nazionali e super Stato europeo. Ci sentiamo quindi di condividere il pensiero di Vaclav Klaus, Presidente della Repubblica Ceca,   Paese membro dell’Unione Europea ma che non ha adottato l’Euro[30].

Al centro del ragionamento di Klaus sta la questione democratica: è nell’esperienza di ciascuno di noi il percepire la propria “comune esistenza nazionale come qualcosa di diverso dall’esistenza nazionale dei popoli degli altri paesi” . “ Il sogno europeo è ancora lontano ma si ha ancora bisogno della nostra ancora, dello Stato nazionale”. Sostiene che una società divisa da differenti identità, valori, narrative non possa essere unificata da diritti e doveri astratti, formulati nei trattari dell’Unione Europea. Infatti i cosiddetti valori comuni, quali il cristianesimo, l’umanesimo, le radici giuridiche, l’illuminismo, sono indubbiamente presenti, con varie intensità e misura nelle società dei singoli Stati, ma molto raramente i loro concittadini li avvertono come valori comuni per tutti su cui fondare uno Stato sovranazionale.

Come abbiamo già affermato alla base della costruzione Europea, nell’immediato dopo guerra, c’era, infatti, l’idea di una integrazione che valesse a scongiurare ulteriori conflitti, senza bisogno di garanzie USA e URSS; proposito sacrosanto ma discutibile nell’assunto di considerare piccoli gli Stati Europei e, solo con un’Europa unita, capaci di diventare partner degli USA.  Ma soprattutto il costruttivismo, l’illusione che ne è dichiaratamente alla base nella parole di Jean Monnet all’ONU nel 1952 “ il popolo europeo deve essere condotto verso un superstato senza che si renda conto di quello che gli succede” , dimostrano che il problema democratico non si è sviluppato durante gli anni, ma era alla base stessa della costruzione europea[31].

Infatti la maggior parte dei popoli europei non si è accorta della trasformazione da Comunità Europea a Unione Europea, con conseguente trasferimento a Bruxelles delle competenze dei singoli Stati e progressivo indebolimento degli stessi, e la costruzione di un centralismo democratico. Dell’euro si sono vantati i vantaggi economici, ma la moneta unica è stata voluta dall’elite politiche proprio perché il processo di integrazione imboccasse la strada dell’irreversibilità; irreversibilità che, quando minacciata fornisce la giustificazione per gli interventi eterodossi della BCE trasformando le criticità in punti di forza.

Per chiudere ci sentiamo di condividere pensiero e preoccupazioni espresse da Giulio Napolitano nel libro “Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali” nel quale, nell’approfondire il rapporto tra Stato e mercati, tra economia e democrazia, tra interesse individuale e collettivo, conclude che la risposta data oggi dall’Ue alla crisi è stata immediata e senza esclusione di mezzi, ma per molti versi forse inadeguata e incapace soprattutto di promuovere le necessarie riforme strutturali. Alla base c’è un difetto della politica, chiusa essenzialmente su strategie conservatrici, ma anche dell’analisi giuridica ed economica, che sembra stentare a elaborare schemi interpretativi adeguati.

Il processo è comunque in moto e sta a chi ne è alla guida saperlo condurre in maniera condivisa e democratica  o lasciarsi trascinare dall’evolversi degli eventi.

 

 

 

 

 


Bibliografia
  • Antonio Tramontana – Per una nuova Europa, premesse e prospettive per una politica economica Europea – Franco Angeli Editori – 2010
  • Federico Arcelli e Francesco Tufarelli – Rappresentanza politica e vincoli economici nell’Unione Europea – Rubbettino Editore – 2004
  • Giorgio Napolitano – Europa politica: il difficile approdo di un lungo percorso – Donzelli Editore 2003
  • Rosa Balfour e Roberto Menotti – Verso un concetto di politica estera Europea – Rubbettino Editore – 2004
  • Pasquale Ferrara – Non di solo Euro. La filosofia politica dell’Unione Europea –Città Nuova -2001
  • Hanspeter Keller – Banca Centrale Europea: storia, ruolo e funzioni – 2004
  • Giorgio Napolitano – “Uscire dalla crisi: politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali – Il Mulino – 2012
  • Carl Schmitt – “Teologia Politica” – 1922
  • Giorgio Agamben – “Lo Stato d’eccezione “ Bollati Boringhieri – 2003
  • Jurgen Habermans – “The crisis of European Union” – 2012

Note
[1] www.doc.studenti.it
[2] www.sabrinacarciotto.wordpress.com
[3] Giorgio Napolitano – Europa Politia: il difficile approdo di un lungo percorso – Donzelli Editore- 2003
[4] www.fedeuropa.org
[5] Banca Centrale Europea, storia ruolo e funzioni. Hanspeter K. Scheller 2006
[6] Pasquale Ferrara – Non solo di Euro. La filosofia politica dell’Unione Europea
[7] Banca Centrale Europea, storia ruolo e funzioni. Hanspeter K. Scheller 2006
[8] Il Sole 24 Ore – 28 febbraio 2012 – www.ilsole24ore.com
[9] Il Sole 24 Ore – 2 marzo 2012 – www.ilsole24ore.com
[10] Il Fatto Quotidiano – 14 marzo 2012
[11] Antonio Tramontana – Per una nuova Europa, premesse e prospettive per una politica economica Europea – Franco Angeli Editori – 2010
[12] Il Sole 24 Ore – 22 marzo 2011 – www.ilsole24ore.com
[13] Consiglio Europeo T/MES 2012
[14] www.repubblica.it/economia
[15] Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore – 2 dicembre 2012
[16] Ernesto Galli della Loggia – Corriere della Sera – 5,7 e 20 agosto 2012
[17] www.ilsole24ore.com
[18] www.ilsole24ore.com
[19] Giorgio Napolitano – Uscire dalla crisi: politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali – Il Mulino – 2012
[20] www.ilsole24ore.com
[21] Federico Arcelli e Francesco Tufarelli – Rappresentanza politica e vincoli economici nell’Unione Europea – Rubbettino Editore – 200
[22] www.ilsole24ore.com
[23] Rosa Balfour e Roberto Menotti – Verso un concetto di politica estera Europea – Rubbettino – 2004
[24] Lorenzo Bini Smaghi – Financial Times – 7 agosto 2012
[25] Guido Rossi – Giuliano Amato – Il Sole 24 ore – www.ilsole24ore.com
[26] “The crisis of  European Union: a response” : Jurgen Habermans –Polity Press – 2012
[27] www.ilsole24ore.com
[28] Carl Schmitt – “Teologia Politica” – 1922; Giorgio Agamben – “Lo Stato d’eccezione “ Bollati Boringhieri – 2003
[29] Mario Draghi – “Die Zeit” – 29 agosto 2012
[30] Vaclar Klaus – “Integrazione europea senza illusioni”– Università Bocconi Editori
[31] www.ilsole24ore.com

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Alessandro Ferrara

Avvocato, iscritto presso il Consiglio dell'ordine degli Avvocati di Catanzaro. Specializzato presso la Scuola di specializzazione per le Professioni Legali dell'Università Magna Graecia di Catanzaro, prosegue i suoi studi in tema di diritto civile, diritto di famiglia e diritto del lavoro.

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