Libertà di pensiero nella vita virtuale e responsabilità dei provider. Dal “Caso Vivi Down” al “Caso Facebook”

Libertà di pensiero nella vita virtuale e responsabilità dei provider. Dal “Caso Vivi Down” al “Caso Facebook”

Nell’era della società digitale, dove i confini tra il reale e il virtuale appaiono sempre più sfumati, non poteva che riproporsi anche il tradizionale scontro tra libera manifestazione del pensiero e reputazione in versione aggiornata sul web 2.0.

È, infatti, in questo nuovo contesto che l’utente non è solo mero fruitore della rete ma acquista una certa autorialità e, nella convinzione di essere libero da censure e regole, inserisce e pubblica contenuti; spesso, però, sorvola le dovute valutazioni di liceità e, inconscio del potenziale diffusivo insito nella dimensione del Web, come un boomerang si propagano gli effetti dell’eventuale aggressione alla personalità altrui.

Per questi motivi, in Internet, il conflitto tra diritti della persona e libertà di espressione e manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost. si acuisce, ponendo almeno un duplice ordine di problemi.

Anzitutto, emerge la necessità di comprendere se, a certe condizioni, anche la libera manifestazione del pensiero in rete, offensiva e lesiva dell’altrui decoro e onore, possa dirsi scriminata.

Sul punto, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la fattispecie rientri nella disciplina del comma terzo, dell’art. 595 c.p., per cui l’offesa può essere arrecata con il mezzo della stampa ovvero con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, purché lo strumento utilizzato sia destinato ad un numero indeterminato di persone.

A conferma di ciò, si è espressa la Cassazione Penale con pronuncia n. 16712 del 2014, in cui, nel risolvere un caso di lesione all’altrui reputazione avvenuta sul social network Facebook, chiarisce come il reato di diffamazione aggravata dall’utilizzo di un mezzo di pubblicità, disciplinata dall’art. 595, comma 3 c.p., trova terreno di configurazione nel momento in cui la frase diffamatoria venga pubblicata su una piattaforma social, essendo indeterminabile il numero di soggetti che avrebbero potuto visualizzarla.

Invero, la sentenza aderisce all’orientamento, ormai consolidato, avanzato a partire dal lontano dicembre del 2000, dai giudici di Piazza Cavour che, per la prima volta, riconoscono come l’utilizzo di internet integri una delle ipotesi aggravate di cui dell’articolo 595 c.p., in quanto l’azione dell’agente che immette il messaggio in rete è, ovviamente, idonea a ledere il bene giuridico dell’onore e “in questo caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”[i].

Quindi, la lesione alla reputazione, sia essa compiuta per il tramite della tradizionale stampa cartacea oppure attraverso i nuovi mezzi di comunicazione di massa, configura il medesimo reato di diffamazione, pertanto, è giocoforza ritenere che, anche in questo secondo caso, varranno le stesse condizioni previste dal decalogo del giornalista in tema di diritto di cronaca.

In tal senso, la libertà di pensiero, tanto quand’essa è manifestazione del giornalista professionista, tanto quand’è espressione del comune cittadino, sarà legittimamente manifestata se riporterà, attraverso una chiara esposizione dei fatti, notizie vere che soddisfino un pubblico interesse; solo così, nel giudizio di bilanciamento, gli eventuali diritti lesi della persona, dovranno soccombere.

Risolto il primo ordine di problemi, il vero punctum dolens ruota intorno allo spettro della responsabilità delle strutture di intermediazione, i cd. provider, i quali si occupano di veicolare messaggi e contenuti pubblicati dagli utenti.

Invero, il tema vede coinvolti diverse tipologie di provider, tutti caratterizzati da un’atipicità delle attività svolte, che fa sorge problematiche affatto differenti.

Tra i provider più comuni meritano menzione: i service provider (ISP), definiti come quei soggetti che esercitano un’attività imprenditoriale che offre agli utenti la fornitura di servizi inerenti Internet, quali l’accesso alla rete e la posta elettronica; vi sono, poi, i content provider, i soggetti fornitori dei contenuti, come YouTube; infine, gli host provider, i quali si limitano, come suggerisce il nome, ad “ospitare” i siti sorgente.

A questo punto, bisogna comprendere se, inserito un contenuto offensivo in rete da parte dell’utente, di ciò ne debba rispondere, in modo esclusivo, l’autore oppure sarebbe pensabile un coinvolgimento anche del provider, il quale materialmente ha ospitato il contenuto.

Ebbene, se ragionassimo in termini di “stampa tradizionale”, la posizione del provider potrebbe essere assimilabile a quella dell’editore e, pertanto, si configurerebbe una responsabilità solidale ex art. 2055 c.c., tra utente e provider.

In realtà, in merito a ciò, viene in rilievo la Direttiva del 8 giugno del 2000 (“Direttiva sul commercio elettronico” 2000/31/CE, recepita dal D. Lgs. n. 70 del 2003), che resta la disciplina fondamentale in tema di responsabilità delle strutture di rete della comunicazione, avendo, in particolare, sancito a chiare lettere la regola della neutralità dei provider[ii]: in buona sostanza, il principio parte dall’idea che una rete informativa deve aspirare a trattare in modo eguale tutti i contenuti, siti e piattaforme, permettendo alla rete di trasportare informazioni di ogni tipo[iii].

Si assiste, così, alla trasformazione di internet in “bene comune” e, al contempo, si rivoluziona il ruolo dei provider, i quali non possono segmentare e controllare l’accesso degli utenti ma si limitano ad ospitare sulle proprie piattaforme, i dati loro caricati (anche offensivi) e non può, per questo motivo – cioè per il sol fatto che la sua attività sia quella di dare ospitalità – incorrere in alcuna responsabilità: insomma, in questo regime di “net neutrality”, sugli intermediari della comunicazione non incombe né un obbligo generale di sorveglianza né, tantomeno, un obbligo di ricerca attiva di fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

Quanto detto, è previsto dall’art. 17, rubricato perlappunto “Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza”, ma l’onere di controllo degli intermediari della comunicazione assume sfumatura differenti in relazione all’attività da essi concretamente svolta; infatti, il decreto legislativo sull’e-commerce prevede, in merito a ciò, una tripartizione: in particolare, l’art. 14 prende in considerazione l’attività di mere-conduit, cioè il semplice trasporto, concerne sia la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d’esempio, una mail inviata da un utente), sia il fornire un accesso ad internet; il successivo art. 15 approfondisce la disciplina del servizio di caching, consistente nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file “cache“, effettuata al solo scopo di rendere più efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio; infine, l’attività di hosting è disciplinata dall’art. 16, in cui i prestatori di servizi di host, memorizzano in modo durevole le informazioni fornite dagli utenti.

Ebbene, sulla scorta della disciplina dell’art. 17 ex d.lgs. 70/2003, l’interessato, vittima di una notizia offensiva, avrà a sua disposizione la possibilità di ricorrere innanzi all’autorità giudiziaria o quella amministrativa competente, con il fine di chiedere l’accertamento della responsabilità nei confronti del solo autore dell’illecito; in seguito all’accertamento di detta responsabilità, il giudice può ordinare al provider di procedere alla rimozione del contenuto lesivo: solo la mancata ottemperanza all’ordine dell’Autorità costituisce il sorgere della responsabilità civile in capo alla struttura di comunicazione.

Nel quadro appena dipinto, si innesta, poi, la particolare previsione dell’art. 16,  alle lett. a) e b) in cui si condiziona l’irresponsabilità dei soli fornitori del servizio di “host”, se rispettate due condizioni ben precise: anzitutto, gli host provider non devono effettivamente essere a conoscenza dei fatti che rendono manifestamente illecita l’informazione; nell’eventuale apprensione del carattere illecito dell’informazione devono procedere alla rimozione del contenuto.

Si configura, quindi, una sorta di gradualità delle tutele a disposizione dell’utente che può, prima, procedere ad una segnalazione all’host  provider, il quale valutata la manifesta illiceità del contenuto, ritenuta sussistente, può procede alla cancellazione; poi, qualora il fornire non considera offensiva l’informazione ovvero rimane inerte innanzi al reclamo dell’utente, questi può ricorrere all’Autorità compente (Garante per la privacy) o innanzi al Giudice ordinario, con il fine di ottenere un provvedimento, rivolto al provider, teso alla cancellazione del contenuto.

Nella denigrata ipotesi in cui l’host provider non esegue l’ordine impartitogli, risponderà solidalmente con il soggetto autore dell’illecito. In ogni caso, il provider sarà comunque responsabile, se il privato dimostra che, indipendentemente dal reclamo, l’host provider era già a conoscenza del carattere illecito della informazione, esso risulterà in ogni caso responsabile.

A ben vedere, l’interpretazione delle norme in tema di responsabilità dei provider è venuta alla cronaca con il noto caso “Google vs Vivi Down”, con cui la Suprema Corte, nel 2013 (n. 5107) ha avuto modo di affrontare la vexata quaestio tra diritto alla reputazione delle vittime, protagonisti, nel caso di specie, di un filmato con frasi ingiuriose diffusi sul Web, e la possibile configurazione della responsabilità del hosting provider, in questo caso Google, che invocava a sua difesa la libertà economica e commerciale nonché la stessa sopravvivenza del principio fondativo di internet, quale l’assenza di un controllo centralizzato dell’infrastruttura.

Con l’attesa pronuncia, gli ermellini hanno dovuto prendere una chiara posizione a favore o contro la net-neutrality dei provider circa i contenuti offensivi caricati dagli utenti della rete, orientamento, talaltro, sostenuto con fervore dalla prevalente dottrina e da autorevole giurisprudenza.

Sulla scorta delle parole dei giudici di legittimità, la diffusione di un contenuto denigratorio integra uno dei reati di all’art. 167 del Codice Privacy, i quali “devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato di relativi poteri decisionali[iv].

Continuando su questa scia, quindi, all’hosting provider è applicabile l’art. 16 del D. Lgs. n. 70/2013, in presenza delle specifiche condizioni suesposte, nonché la norma di cui all’art. 17 del medesimo decreto e, nel caso di specie,

Google non potrà essere considerato responsabile per le informazioni fornite dal destinatario del servizio prestato, ossia per i contenuti caricati dall’utente del servizio.

Ciò, infatti, sarebbe avvalorato dalla stessa ratio della Direttiva 2000/31/CE, che “ha inteso porre quali presupposti della responsabilità dei provider proprio la sua effettiva conoscenza dei dati, immessi dall’utente e l’eventuale inerzia nella rimozione delle informazioni da lui conosciute come illecite”.

Del resto, la Corte non manca di sottolineare, l’importanza ricoperta dall’art. 17 che “individua il punto di equilibrio fra la libertà del provider e la tutela dei soggetti eventualmente danneggiati nella fissazione di obblighi di informazione all’autorità”.

Invero, lunge dall’essere pacificamente accolto, il principio di neutralità del provider pone almeno un duplice ordine di discussione.

Anzitutto, occorre chiarire l’effettivo ambito di applicazione dell’ordine di cancellazione impartito dall’Autorità alla struttura dell’informazione.

In particolare, la questione ha acquisito rilevanza con una pronuncia emessa dalla Corte di Giustizia, dell’autunno del 2019[v], celebre come “Caso Facebook”: la causa nasceva da un postpubblico” su Facebook che, condividendo un articolo di giornale relativo ad una esponente del partito austriaco dei Verdi, lo accompagnava con accuse oltraggiose e immotivate; in calce al post venivano apposti numerosi commenti ingiuriosi e la notizia veniva ricondivisa sul molteplici profili.

In tal caso, la pronuncia è utile sotto il profilo della comprensione della latitudine applicativa dell’ordine di cancellazione impartito dall’Autorità, spiegando se questo riguardi il solo post originario, oppure, anche le successive condivisioni nonché i commenti ugualmente offensivi lasciati dagli utenti.

La Corte per risolvere la questione ricorre ai concetti di informazione identica e informazione equivalente: fermo restando che l’ordine di cancellazione deve riguardare il post originario, lo stesso avrà forza automatica anche per le informazioni identiche a quelle lesive, con ciò riferendosi anche ai post rimbalzati su altri profili per condivisione; in questo caso, Facebook, possedendo procedure automatizzate, potrà procedere alla cancellazione automatica delle informazioni autentiche.

Diverso è, invece, il caso di informazioni lesive equivalenti, ossia i commenti offensivi diffusi in calce al post, in quanto Facebook non dispone di procedure automatizzate e, in tal caso, spetterà all’Autorità giudiziaria verificare la reale sussistenza dell’equivalente offensività delle parole utilizzate; si necessiterà, allora, di un nuovo ordine di cancellazione nei confronti del provider.

A parere di chi scrive, nella decisione in commento, appare essenziale sottolineare l’importanza ricoperta dalla delega del potere di rimozione dei contenuti ai provider, in questo caso da Facebook: infatti, si potrebbe sospettare che si stia intraprendendo la strada della privatizzazione delle censure che se, da un lato, potrebbe essere accolta con favore, dall’altro, suscita dubbi lasciare la libertà di espressione online nelle mani di procedure meccanizzate.

Potrebbe accadere, infatti, di incorrere nel pericolo di rimozione di informazioni sì identiche o equivalenti ma che non hanno fini denigratori, come nel caso di un’informazione riportata in senso critico o come satira.

Resta, infine, da fare chiarezza su un altro tema nevralgico che rendere difficile la comprensione dell’odierno statuto della libertà di espressione in Internet: la responsabilità dei provider cd. attivi.

Difatti, l’esperienza ha dimostrato che non tutti i «servizi della società dell’informazione» hanno le stesse caratteristiche e svolgono i medesimi compiti.

Pertanto, sulla scia di una posizione già avanzata dalla Corte di Giustizia, una pronuncia recente della Corte di Cassazione  (n. 7708 del 2019), ha ribadito l’esistenza di prestatori di servizi della società dell’informazione, che non si limitano ad ospitare meramente il contenuto degli utenti ma procedono ad una vera e propria attività di selezione e autorizzazione delle informazioni caricate: sono denominati provider attivo e svolgono attività che esulano da compiti meramente tecnici, passivi e automatici, ma apportano una condotta attiva, concorrendo, quindi, nella commissione dell’illecito e, sottraendosi, pertanto, al regime generale di esenzione di cui agli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 70 del 2003; ne consegue che, la responsabilità civile dei provider seguirà le regole comuni.

Per vero, pur senza cadere in suggestioni, l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza e le esenzioni di responsabilità per i contenuti trasmessi o memorizzati a richiesta degli utenti, non possono essere le uniche regole esistenti, anche perché potevano avere valenza assoluta in un’epoca in cui le piattaforme del web vivevano uno stato embrionale e organizzazione e funzionalità erano ancora primitive.

Oggi, deve trovare necessariamente spazio un tertium genus, quello dell’hosting attivo, individuato per il tramite di indici di interferenza, il quale compiendo operazioni di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, anche attraverso la gestione imprenditoriale del servizio, concorre attivamente nella creazione dell’illecito.

Insomma, da quanto brevemente esposto, certamente si potrebbe riflettere sul diverso equilibrio che in questo nuovo contesto di Web 2.0. si è venuto a creare tra autonomia individuale ed esercizio della libera manifestazione del pensiero del singolo che, oggi più di ieri, sembra minacciata, non solo dai poteri pubblici, ma anche dai servizi privati. Forse, non bisognerebbe dimenticare, le parole, paradigmatica da questo punto di vista, di una risalente pronuncia della Corte Costituzionale: «la libertà di manifestazione del pensiero è, tra le libertà fondamentali e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle che meglio caratterizzano il regime vigente dello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale»[vi].

 

 


[i] Peraltro, la sentenza precisa che la diffusività e la pervasività di internet sono solo lontanamente paragonabili a quelle della stampa ovvero delle trasmissioni radio-televisive. “Internet è, senza alcun dubbio, un mezzo di comunicazione più «democratico» (chiunque, con costi relativamente contenuti e con un apparato tecnologico modesto, può creare un proprio «sito», ovvero utilizzarne uno altrui). Le informazioni e le immagini immesse «in rete», relative a qualsiasi persona sono fruibili (potenzialmente) in qualsiasi parte del mondo”. Cass. Pen., Sez. V, n. 4741, anno 2000.
[ii] La definizione è la traduzione inglese di “net neutrality”, concetto reso celebre da un professore americano, Tim Wu, durante le sue lezioni.
[iii] Google ha definito la “network neutrality” quale “il principio per cui gli utenti di Internet dovrebbero avere il controllo su cosa possono vedere e quali applicazioni vogliono usare su internet”.
[iv] Cass. Pen., Sez. III, n. 5107, anno 2013.
[v] Corte di giustizia UE, 3 ottobre 2019, C-18/18, Eva Glawischnig Piesczek c. Facebook Ireland Limited
[vi] Corte Cost., sent. n. 9, anno 1965.

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